sabato 15 maggio 2010

Punti di vista


Le periferie italiane come le banlieu parigine? Le «aree deboli» delle nostre città possono essere teatro di rivolte dei giovani immigrati? Per Vincenzo Cesareo, docente presso l'università Cattolica di Milano e tra gli autori della ricerca «Processi migratori e integrazione nelle periferie urbane» presentata lunedì scorso a Milano la risposta è: «No, almeno per ora». Il disagio e il malessere, infatti, non sono tali da far pensare a fenomeni simili. Mancano cioè i presupposti che possano generare fenomeni simili a quelli delle rivolte parigine. «Il degrado e l'immigrazione in Italia, pur tendendo a cumularsi, non sembrano ancora coincidere - spiega Vincenzo Cesareo -. Gli immigrati vivono più spesso in una condizione di disagio abitativo, ma hanno un accesso al lavoro. Anche se precario». Inoltre, la seconda generazione di immigrati, in Italia, non ha ancora le dimensioni che assume nella società francese. «Se, quindi, almeno finora, non si possono assimilare le tensioni che si sono verificate nelle periferie italiane con quelle francesi - conclude Vincenzo Cesareo - non va però escluso che possa accadere in futuro».

La Francia è stata teatro di una serie impressionante di guerriglie urbane mentre in Italia i casi più clamorosi sono stati sostanzialmente tre: la mini-rivolta d'immigrati cinesi in via Padova a Milano, in reazione ad un legittimo controllo della polizia municipale, la protesta degli immigrati africani a Castelvolturno in Campania, dopo la sconvolgente strage che coinvolse 6 persone anch'esse di origini africane, e la rivolta di Rosarno, scoppiata con un pretesto e alimentata dalla rabbia per il disagio lavorativo e abitativo che alcuni braccianti stranieri erano stati costretti ad accettare per vivere ma che nel tempo era divenuto insopportabile. Insomma, stiamo parlando di reazioni non paragonabili neanche lontanamente alle violenze scoppiate in Francia. Non bisogna dimenticare, inoltre, che il governo francese nel 2005, per rispondere all'ondata di violenze che si era abbattuta in molte città del territorio nazionale, fu costretto a dichiarare lo stato di emergenza rispolverando una legge varata in occasione della guerra d'Algeria del 1955. Se l'entità delle proteste degli immigrati in Francia non è minimamente paragonabile con la situazione italiana, ancora più netta è la diversità dei presupposti alla base di queste reazioni.

Le differenze tra la situazione italiana e quella francese non possono ridursi al solo dato economico e numerico nel senso che l'accesso al lavoro, il numero d'immigrati presenti sul territorio, il disagio abitativo non spiegano in maniera esaustiva il motivo per cui in Italia il livello di conflittualità è notevolmente inferiore a quello che si registra in Francia. C'è un dato su tutti che pone una netta demarcazione tra le due realtà nell'ambito dei presupposti, e cioè che i rivoltosi in Francia sono soprattutto cittadini francesi figli del colonialismo che si sentono trattati dalla società transalpina come elementi di secondo piano della comunità nazionale, mentre in Italia si tratta d'immigrati, clandestini ma anche regolari, che esprimono un disagio strettamente legato all'ambito lavorativo e abitativo. Lì, fermo restando il disagio legato alla casa e al lavoro, c'è un problema culturale, d'identità nazionale e di promesse tradite d'integrazione nel tessuto della comunità, mentre qui i conflitti sono più legati alla sfera economica. Lì c'è stato un conflitto mosso da una parte dei cittadini francesi uniti agli immigrati disagiati mentre da noi il motore è stato una piccola parte della popolazione immigrata che vive e lavora nel nostro territorio in condizioni di estremo disagio o è vittima di violenze (escluso il caso di via Padova a Milano).

In Francia la conflittualità ha radici profonde ed investe non solo il campo socio-economico ma anche il tema dell'identità nazionale e della pari dignità e opportunità dei cittadini, e non è un caso che i primi episodi di violenza siano avvenuti già a cavallo tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli '80 mentre in Italia gli episodi sono più recenti e legati al fenomeno dell'immigrazione economica di massa che ha investito il nostro Paese dall'inizio degli anni '90 (i primi significativi episodi di conflitto, quindi, ci sono stati dopo poco meno di 20 anni dai primi consistenti arrivi di immigrati economici in Italia). Stiamo parlando, quindi, di due situazioni completamente diverse: da un lato, per quanto riguarda la Francia, del fallimento di un modello d'integrazione (quello assimilazionista) e dall'altro, il caso italiano, di un sistema economico che non riesce ad integrare al meglio i lavoratori immigrati (un problema che, comunque, leggendo gli ultimi International Migration Outlook dell'Ocse, investe tutti gli stati occidentali e non solo il nostro Paese). Secondo Angelo Panebianco «la politica assimilazionista francese puntava ad un'integrazione fondata su uno scambio: la concessione della «cittadinanza repubblicana», con i suoi diritti di libertà, in cambio di una privatizzazione del credo religioso, del divieto di far valere entro l'arena pubblica le appartenenze religiose. (...) In Francia non solo settori rilevanti della nuova immigrazione musulmana, ma anche molti figli e nipoti di quegli immigrati nordafricani che, alcuni decenni fa, scelsero con orgoglio di diventare "cittadini francesi" rifiutano oggi l' assimilazione: sposano, polemicamente, il separatismo culturale, contro l' appartenenza francese».

La politica dell'assimilazionismo, non solo è miseramente fallita perché fondata su un do ut des insostenibile nella realtà (la concessione della cittadinanza in cambio della negazione della propria identità culturale e religiosa), ma ha creato in Francia cittadini di serie A e di serie B e un risentimento diffuso da parte di questi ultimi che sfocia nel separatismo culturale e nell'avversione contro la stessa nazione di cui, almeno sulla carta, sono cittadini a tutti gli effetti. I fischi dei giovani francesi di origine maghrebina durante l'esecuzione della marsigliese prima delle partite della nazionale di calcio transalpina contro Tunisia, Marocco e Algeria non sono solo un fatto circoscritto all'ambito calcistico, ma un segnale evidente di malessere nei confronti della nazione in cui vivono e una dichiarazione di appartenenza a un'altra identità.

1 commenti:

Nessie ha detto...

Chi è questo genio che si consola così facilmente? Lo sa o no che ci sono interi quartieri in mano agli immigrati e che gli italiani se ne vanno via? Se la ricorda la sommossa di Via Padova a Milano?
E i fatti di Rosarno? E quel che succede a Prato? I soliti ipocriti che pensano solo a ficcare il naso a casa d'altri, quando di casini ce ne sono già abbastanza a casa propria.