Dopo gli scontri di via Padova: «cambiare modello di accoglienza sin qui adottato». Maroni: niente rastrellamenti serve una nuova integrazione. Il ministro: evitare le concentrazioni etniche in un solo quartiere. Dopo gli scontri di via Padova: «cambiare modello di accoglienza sin qui adottato»
MILANO — «No, non vedo il rischio banlieue in via Padova», dice il ministro Maroni. Lo scoppio di rabbia e violenza di sabato sera nel quartiere multietnico di Milano forse non era evitabile e nemmeno prevedibile: una lite sul bus, la coltellata, la voglia di vendetta, sono un caso di cronaca nera e non un’emergenza di Stato. Però c’è un allarme sociale dietro la bolla che ha infiammato la guerriglia urbana tra immigrati di diverse etnie e paralizzato per cinque ore un pezzo di città. C’è la paura che si possa ripetere, a Milano, a Torino, a Bologna, a Napoli o a Palermo, nelle città dove i territori perduti si gonfiano di tensioni sociali, di rabbia e di paura per la crescita incontrollata di un’immigrazione che ha occupato spazi senza essersi mai integrata del tutto. C’è la politica in fibrillazione, l’opposizione che accusa l’inerzia del centrodestra, il governo che attacca il buonismo della sinistra. E rimbombano parole forti da Milano: rastrellamenti, deportazioni. Roberto Maroni evita di gettare benzina sul fuoco. «In via Padova bisogna abbassare la febbre e non scatenare una guerra civile». C’è chi chiede un blitz immediato, sgomberi, ruspe, e i più attivi sono i suoi compagni di partito della Lega, ma il ministro ha un’altra strategia: «In via Padova non siamo davanti a un campo nomadi abusivo. Non serve un’azione di forza, la parola rastrellamenti non la voglio sentire: qui c’è da gestire un problema sociale. Io faccio il ministro dell’Interno e voglio lasciare da parte le esasperazioni dettate a caldo».
Signor ministro, sabato sera quando si rovesciavano auto in strada e la polizia in via Padova era in assetto da guerra ha pensato a Rosarno, a una rivolta fuori controllo? «Ci siamo attivati subito per tenere sotto controllo la situazione. Ho parlato con il prefetto, conosco bene via Padova, i suoi problemi e la grande capacità che ha Milano di integrare gli stranieri. Gli incidenti di sabato hanno avuto un pretesto banale degenerato in violenza collettiva. Ma non era una rivolta contro lo Stato. Certi sintomi di Rosarno li ho avvertiti due anni fa, nella stessa zona, quando l’assassinio di un giovane di colore da parte di italiani portò in strada migliaia di immigrati. Ecco, allora ho pensato alle banlieue francesi.»
Non teme che questo possa ripetersi? «È un timore reale, che ci deve spingere a cambiare passo nelle politiche di accoglienza e di integrazione. Io dico: vanno espulsi i clandestini, ma non si risolve un problema come via Padova con i blitz e le camionette. La soluzione non è lo Stato di polizia».
Bisogna controllare meglio l’eccessiva concentrazione di immigrati in uno stesso quartiere? «Il mix esplosivo di via Padova si è formato negli anni secondo un modello sociale che non ha voluto gestire un insediamento etnico. È importante evitare che una zona di città diventi estranea a chi ci vive, una sorta di territorio separato, di zona franca. Nel futuro dobbiamo evitare le concentrazioni etniche in un solo quartiere».
È una proposta o un progetto? «È un nuovo progetto di integrazione. Adesso bisogna gestire, fare politiche di ricomposizione, mantenere insieme la città. E quando serve intervenire. Mi piace parlare di ristrutturazione, ma senza interventi repressivi. Non serve incendiare le piazze».
C’è già qualcosa di concreto, c’è una risposta ai residenti di via Padova e di quelle zone in cui i cittadini si sentono stranieri in casa? «Chiederò subito a Roma una riunione con il ministero del Welfare, le Regioni, i Comuni, le associazioni di volontariato per affrontare questo tema: come garantire l’integrazione, attraverso le leggi, nei territori delle grandi città. Bisogna evitare che certe periferie diventino focolai di violenza, ma per questo si deve anche cambiare un modello di accoglienza sin qui adottato».
E qual è il nuovo? «Dobbiamo inventarlo, definire le condizioni perché un extracomunitario regolare possa integrarsi davvero. In strada, l’altra sera in via Padova, c’erano tanti immigrati regolari, a Milano molti di loro sono diventati imprenditori eppure vivono ancora in una condizione di estraneità. Dobbiamo pensare che oltre al permesso di soggiorno, al lavoro, alla casa, ci sono altre condizioni che oggi mancano perché un’integrazione possa dirsi riuscita».
E i controlli contro l’illegalità, la mancanza di pattuglie in strada lamentata da chi vive nei quartieri a rischio? «Rafforzeremo il presidio delle forze dell’ordine a Milano, anche in vista della nuova Questura di Monza. C’è uno stanziamento nella Finanziaria, anticiperemo l’invio di agenti a Milano, 170 uomini in tutto, per evitare che si ripetano casi come quello della scorsa notte. Ma sia chiaro che questa non è una militarizzazione ».
Lei sta parlando di prevenzione, di interventi per evitare che gli immigrati di seconda generazione finiscano per essere arruolati in bande, di sostegno a certe politiche di accoglienza con interventi della pubblica amministrazione per evitare il degrado. È il segnale di una svolta? «C’è la necessità di un cambio di passo. C’è un modello sociale che non funziona, che va ricostruito. Con l’università Cattolica stiamo creando una rete permanente di monitoraggio delle realtà urbane per definire migliori politiche di intervento. Una di queste è proprio la gestione oculata degli insediamenti degli immigrati sul territorio».
In certi casi però si arriva quando ormai è troppo tardi. «Questa è la realtà che dobbiamo affrontare oggi. Il prefetto di Milano ha ricordato che gli stranieri nel 1980 erano tremila e adesso sono 400 mila. C’è una bella differenza. E in via Padova il parroco dice che la zona è stata travolta da un afflusso incontrollato. La lezione dei fatti di sabato è questa: bisogna programmare e gestire gli interventi, senza criminalizzare».
È un invito alla responsabilità degli amministratori comunali? «Dobbiamo lavorare tutti insieme, cercare di evitare la concentrazione di etnie in una stessa zona, con il rischio di creare ghetti. Ma anche trovare nuove occasioni di integrazione per gli stranieri regolari»
Davanti a queste emergenze molti sindaci si sentono soli, abbandonati dallo Stato. «Questo non deve accadere. So benissimo che i sindaci sono in prima linea, come lo è stato per anni quello di Padova, Zanonato. Parlo di uno lontano dalla mia parte che ha fatto bene il suo dovere, e quando si è reso necessario ha spostato 270 famiglie di stranieri da un quartiere all’altro per rompere una concentrazione di etnie che rischiava di diventare pericolosa ».
Il segretario del Pd Bersani accusa la politica del centrodestra, è un fallimento dice, governano tutto loro ma i risultati non si vedono. «Sarebbe facile rispondere a Bersani che nel 2008 gli sbarchi a Lampedusa erano settemila e nel 2009 li abbiamo ridotti a tremila. Potrei anche ripetere quel che ha detto il ministro Gelmini: siamo arrivati a questo grazie al lassismo e al buonismo della sinistra. Ma vorrei evitare il rimpallo delle colpe. Una classe politica non deve usare miseramente questi temi per una campagna elettorale».
Giangiacomo Schiavi
3 commenti:
Da multikulti a multikoglions: storia di una metamorfosi leghista.
Mioddio, peggio di un alto prelato sinistro.
Stessa grinta di Obama col nanerottolo persiano, che infatti trema dalla mattina alla sera...
Sembra quasi un invito a farne arrivare degli altri, uno scusarsi non richiesto, un mettere le mani avanti.
Pare una domestica che spolvera i mobili in tutta fretta perchè stanno per tornare i padroni di casa ed è in ritardo.
Integrazione... quell'orrore di parola non se la vogliono levare di bocca...
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