mercoledì 24 febbraio 2010

Islam

La teoria del cavallo forte. L'analisi di Daniel Pipes

La violenza e la crudeltà degli arabi spesso sconcerta gli occidentali. Non solo il leader di Hezbollah proclama: "Amiamo la morte", ma lo fa anche un ventiquattrenne che il mese scorso ha gridato: "Amiamo la morte più di quanto voi amate la vita", mentre andava a sbattere con la sua automobile sul Bronx-Whitestone Bridge a New York. Se due genitori di St. Louis hanno perpetrato un delitto d'onore contro la loro figlia adolescente assestandole tredici colpi con un coltello da macellaio, un padre palestinese ha gridato: "Muori! Dai muori! (…) Stai zitta, bambina! Muori, figlia mia, muori!" – e in entrambi i casi la locale comunità araba li ha spalleggiati contro le accuse di omicidio. Un principe di Abu Dhabi ha di recente torturato un commerciante di grano che lo accusava di averlo truffato; malgrado un video delle atrocità sia stato mostrato dalle televisioni di tutto il mondo, il principe è stato assolto mentre i suoi accusatori sono stati condannati. Su una scala più larga, un computo rileva che dopo l'11 settembre sono stati perpetrati 15.000 attacchi terroristici. I governi di tutti i Paesi di lingua araba fanno più affidamento sulla brutalità che sul principio della legalità. Gli sforzi per eliminare Israele continuano a persistere anche quando le insurrezioni fanno presa; la più recente è scoppiata in Yemen. Esistono parecchi tentativi eccellenti volti a spiegare la patologia della politica araba; tra quelli che preferisco vi sono i saggi a cura di David Pryce-Jones e Philip Salzman. A questi ora si aggiunge The Strong Horse: Power, Politics, and the Clash of Arab Civilizations (edito Doubleday), una piacevole, ma profonda e importante analisi di Lee Smith, un corrispondente per il Medio Oriente di Weekly Standard. Smith parte da un commento espresso da Osama bin Laden nel 2001: "Quando la gente vede un cavallo forte e uno debole, per natura, tenderà a mostrare preferenza per quello forte". Ciò che Smith definisce il principio del cavallo forte contiene due banali elementi: prendere il potere e mantenerlo. Questo principio predomina perché la vita pubblica araba "non presenta alcun meccanismo per i pacifici passaggi di autorità o per la condivisione del potere, e pertanto [essa] considera il conflitto politico come una lotta senza quartiere fra cavalli forti". Smith rileva che la violenza è "essenziale per la politica, la società e la cultura del Medio Oriente di lingua araba". Ciò comporta altresì con più sottigliezza il dover guardare con circospezione il prossimo cavallo forte, riguardo al quale bisogna prendere una posizione e soppesare i pro e i contro. Smith sostiene che il principio del cavallo forte, e non l'imperialismo occidentale né il sionismo, "ha determinato il carattere basilare del Medio Oriente di lingua araba". La stessa religione islamica ben si accorda al vecchio schema dell'affermazione del cavallo forte e poi lo propaga. Maometto, il profeta islamico, era un uomo forte, com'era pure una figura religiosa. I musulmani sunniti hanno governato per secoli ricorrendo alla "violenza, alla repressione e alla coercizione". La famosa teoria della storia di Ibn Khaldun equivale a un ciclo di violenza in cui i cavalli forti rimpiazzano quelli deboli. L'umiliazione subita dai dhimmi ricorda quotidianamente ai non-musulmani chi governa. Il prisma di Smith offre delle intuizioni sulla storia moderna mediorientale. Il nazionalismo pan-arabo viene presentato come un tentativo di trasformare i mini-cavalli degli stati nazionali in un unico super-cavallo e l'islamismo viene mostrato come un tentativo di rendere i musulmani di nuovo potenti. Israele funge da "cavallo forte per conto" degli Stati Uniti e del blocco saudita-egiziano nella rivalità da guerra fredda che contrappone quest'ultimo al blocco guidato dall'Iran. In un ambiente in cui predomina il principio del cavallo forte, la legge delle armi attrae molto di più di quella delle urne. In mancanza di un cavallo forte gli arabi liberali fanno pochi progressi. Essendo il Paese non-arabo e non-musulmano più potente, gli Stati Uniti rendono l'antiamericanismo tanto inevitabile quanto endemico. Il che ci porta alle politiche esercitate dagli attori non-arabi: se essi non sono forti e non dimostrano realmente di stare al potere, sottolinea Smith, perderanno. Essere gentili – dice con riferimento al ritiro unilaterale dal Libano meridionale e da Gaza – porta all'inevitabile fallimento. L'amministrazione di George W. Bush ha avviato a ragione un progetto di democratizzazione, suscitando grandi speranze, ma poi è stata tradita dai progressisti arabi che non l'hanno portato a termine. In Iraq, l'amministrazione ha ignorato il consiglio di insediare un uomo forte favorevole alla democrazia. Più in generale, quando il governo Usa è esitante altri (p.es. la leadership iraniana) hanno l'opportunità di "imporre il loro stesso ordine alla regione". Walid Jumblatt, un leader libanese, ha asserito in tono semiserio che Washington "invia autobombe a Damasco" per far arrivare il proprio messaggio e mostrare che l'America ha compreso il modo di fare arabo. Il semplice e quasi-universale principio di Smith fornisce uno strumento per comprendere il culto della morte, i delitti d'onore, gli attacchi terroristici, il dispotismo, il guerreggiare e molto altro ancora che è tipico degli arabi. Egli ammette che il principio del cavallo forte potrebbe colpire gli occidentali per il fatto di essere indicibilmente rude, ma Smith insiste opportunamente sul fatto che esso costituisce una realtà indifferente che gli osservatori esterni devono riconoscere, prendere in considerazione e alla quale dover reagire.

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