La Turchia rivive l'ennesimo ciclo della retorica complottista. Da una parte c'è la democrazia egemonizzata dal partito dichiaratamente filo-islamico del premier Tayyp Recep Erdogan, ormai tra gli statisti turchi più longevi politicamente. Dall'altra le denunce, le inchieste e gli arresti contro eminenti personalità degli apparati militari. Ma questa volta è più complicato distinguere realmente tra autori e vittime del complotto. La notizia dominante è un massiccio arresto di altissimi ufficiali, generali di armata, componenti dello stato maggiore delle tre armi che avrebbero complottato nell'operazione “Martello” datata 2003 per rovesciare il governo di Erdogan e ristabilire un potere secolare. Quasi una cinquantina di personalità in divisa corrispondono a grandi linee alla classe dirigente delle forze armate – tanto per esprimere l'ampiezza di questa “retata” che riduce la portata persino del caso “Ergenekon”. Attentati alle moschee, dirottamente aerei ed autobombe avrebbero dovuto fomentare un clima di tensione per destabilizzare il governo e invocare un intervento d'emergenza del potere militare. Un copione perfetto. Ma basta uscire dal clamore mediatico per individuare fatti altrettanto influenti e capaci di sviluppare un'altra interpretazione assai differente. Prima degli arresti dei militari, la Turchia era precipitata in una eccezionale crisi del suo sistema giudiziario. Non si tratta soltanto delle reiterate richieste da parte di Bruxelles per riformare la giustizia turca in senso più europeo e per spingere il processo d'integrazione della Turchia su un binario veloce. Ma già a questo proposito il presidente turco Abdullah Gul ha espresso un parere molto significativo con l'ammettere la possibilità di un referendum popolare sulla riforma giudiziaria proposta dal governo. Con una popolazione in schiacciante maggioranza islamica, sarebbe molto delicato far approvare una riforma in senso laico o filo-occidentale. Forse l'obiettivo è proprio un plebiscito di voti contrari. Ma il vero fulcro della situazione è un altro. La crisi è divampata nella magistratura e nel suo controllo. In questi giorni nella provincia di Erzincan, nell'Anatolia orientale, il procuratore capo, Ilhan Cihaner, è stato rimosso dal procuratore capo di un'altra provincia, Erzurum, il quale è stato a sua volta sospeso dal supremo collegio dei giudici. Il procuratore Cihaner era impegnato in una delicatissima inchiesta sulle tentacolari ramificazioni di una società segreta, Ismailaga – un sistema di potere che abbinava la religione islamica ad una visione del potere imperniata sulla forte nostalgia ottomana, espressa persino nell'abbigliamento, contravvenendo ai principi legali della società laica della Turchia. La procura di Erzincan stava investigando su questa realtà clandestina sin dal 2007, giungendo a scoprire solidi collegamenti e sostegni nel governo di Ankara. Ismailaga era sia un abile collettore di fondi, come è nella tradizione dell'associazionismo islamico, dentro e fuori la Turchia, sia una fonte di predicazione integralista, che operava soprattutto negli asili e nelle scuole elementari. A differenza dell'inchiesta contro i generali golpisti, questa inchiesta non sembra destinata ad avere la stessa attenzione. E' evidente che mettere fuori gioco oggi le forze armate, disseppellendo un piano congegnato sette anni prima, impedisce la saldatura tra i due bastioni del potere secolare: armi e toghe. Non solo: a differenza del passato, adesso è il governo che passa all'attacco, decapitando i vertici militari e avviando una riforma della giustizia per stringere forte il controllo politico sui magistrati. Al centro di questo scontro resta il ruolo di un islam sempre più dominante.
mercoledì 24 febbraio 2010
Turchia e integralismo islamico
Il controllo sull'esercito e la magistratura. Erdogan se la prende con i militari ma dimentica l'integralismo islamico di Gabriele Cazzulini
La Turchia rivive l'ennesimo ciclo della retorica complottista. Da una parte c'è la democrazia egemonizzata dal partito dichiaratamente filo-islamico del premier Tayyp Recep Erdogan, ormai tra gli statisti turchi più longevi politicamente. Dall'altra le denunce, le inchieste e gli arresti contro eminenti personalità degli apparati militari. Ma questa volta è più complicato distinguere realmente tra autori e vittime del complotto. La notizia dominante è un massiccio arresto di altissimi ufficiali, generali di armata, componenti dello stato maggiore delle tre armi che avrebbero complottato nell'operazione “Martello” datata 2003 per rovesciare il governo di Erdogan e ristabilire un potere secolare. Quasi una cinquantina di personalità in divisa corrispondono a grandi linee alla classe dirigente delle forze armate – tanto per esprimere l'ampiezza di questa “retata” che riduce la portata persino del caso “Ergenekon”. Attentati alle moschee, dirottamente aerei ed autobombe avrebbero dovuto fomentare un clima di tensione per destabilizzare il governo e invocare un intervento d'emergenza del potere militare. Un copione perfetto. Ma basta uscire dal clamore mediatico per individuare fatti altrettanto influenti e capaci di sviluppare un'altra interpretazione assai differente. Prima degli arresti dei militari, la Turchia era precipitata in una eccezionale crisi del suo sistema giudiziario. Non si tratta soltanto delle reiterate richieste da parte di Bruxelles per riformare la giustizia turca in senso più europeo e per spingere il processo d'integrazione della Turchia su un binario veloce. Ma già a questo proposito il presidente turco Abdullah Gul ha espresso un parere molto significativo con l'ammettere la possibilità di un referendum popolare sulla riforma giudiziaria proposta dal governo. Con una popolazione in schiacciante maggioranza islamica, sarebbe molto delicato far approvare una riforma in senso laico o filo-occidentale. Forse l'obiettivo è proprio un plebiscito di voti contrari. Ma il vero fulcro della situazione è un altro. La crisi è divampata nella magistratura e nel suo controllo. In questi giorni nella provincia di Erzincan, nell'Anatolia orientale, il procuratore capo, Ilhan Cihaner, è stato rimosso dal procuratore capo di un'altra provincia, Erzurum, il quale è stato a sua volta sospeso dal supremo collegio dei giudici. Il procuratore Cihaner era impegnato in una delicatissima inchiesta sulle tentacolari ramificazioni di una società segreta, Ismailaga – un sistema di potere che abbinava la religione islamica ad una visione del potere imperniata sulla forte nostalgia ottomana, espressa persino nell'abbigliamento, contravvenendo ai principi legali della società laica della Turchia. La procura di Erzincan stava investigando su questa realtà clandestina sin dal 2007, giungendo a scoprire solidi collegamenti e sostegni nel governo di Ankara. Ismailaga era sia un abile collettore di fondi, come è nella tradizione dell'associazionismo islamico, dentro e fuori la Turchia, sia una fonte di predicazione integralista, che operava soprattutto negli asili e nelle scuole elementari. A differenza dell'inchiesta contro i generali golpisti, questa inchiesta non sembra destinata ad avere la stessa attenzione. E' evidente che mettere fuori gioco oggi le forze armate, disseppellendo un piano congegnato sette anni prima, impedisce la saldatura tra i due bastioni del potere secolare: armi e toghe. Non solo: a differenza del passato, adesso è il governo che passa all'attacco, decapitando i vertici militari e avviando una riforma della giustizia per stringere forte il controllo politico sui magistrati. Al centro di questo scontro resta il ruolo di un islam sempre più dominante.
La Turchia rivive l'ennesimo ciclo della retorica complottista. Da una parte c'è la democrazia egemonizzata dal partito dichiaratamente filo-islamico del premier Tayyp Recep Erdogan, ormai tra gli statisti turchi più longevi politicamente. Dall'altra le denunce, le inchieste e gli arresti contro eminenti personalità degli apparati militari. Ma questa volta è più complicato distinguere realmente tra autori e vittime del complotto. La notizia dominante è un massiccio arresto di altissimi ufficiali, generali di armata, componenti dello stato maggiore delle tre armi che avrebbero complottato nell'operazione “Martello” datata 2003 per rovesciare il governo di Erdogan e ristabilire un potere secolare. Quasi una cinquantina di personalità in divisa corrispondono a grandi linee alla classe dirigente delle forze armate – tanto per esprimere l'ampiezza di questa “retata” che riduce la portata persino del caso “Ergenekon”. Attentati alle moschee, dirottamente aerei ed autobombe avrebbero dovuto fomentare un clima di tensione per destabilizzare il governo e invocare un intervento d'emergenza del potere militare. Un copione perfetto. Ma basta uscire dal clamore mediatico per individuare fatti altrettanto influenti e capaci di sviluppare un'altra interpretazione assai differente. Prima degli arresti dei militari, la Turchia era precipitata in una eccezionale crisi del suo sistema giudiziario. Non si tratta soltanto delle reiterate richieste da parte di Bruxelles per riformare la giustizia turca in senso più europeo e per spingere il processo d'integrazione della Turchia su un binario veloce. Ma già a questo proposito il presidente turco Abdullah Gul ha espresso un parere molto significativo con l'ammettere la possibilità di un referendum popolare sulla riforma giudiziaria proposta dal governo. Con una popolazione in schiacciante maggioranza islamica, sarebbe molto delicato far approvare una riforma in senso laico o filo-occidentale. Forse l'obiettivo è proprio un plebiscito di voti contrari. Ma il vero fulcro della situazione è un altro. La crisi è divampata nella magistratura e nel suo controllo. In questi giorni nella provincia di Erzincan, nell'Anatolia orientale, il procuratore capo, Ilhan Cihaner, è stato rimosso dal procuratore capo di un'altra provincia, Erzurum, il quale è stato a sua volta sospeso dal supremo collegio dei giudici. Il procuratore Cihaner era impegnato in una delicatissima inchiesta sulle tentacolari ramificazioni di una società segreta, Ismailaga – un sistema di potere che abbinava la religione islamica ad una visione del potere imperniata sulla forte nostalgia ottomana, espressa persino nell'abbigliamento, contravvenendo ai principi legali della società laica della Turchia. La procura di Erzincan stava investigando su questa realtà clandestina sin dal 2007, giungendo a scoprire solidi collegamenti e sostegni nel governo di Ankara. Ismailaga era sia un abile collettore di fondi, come è nella tradizione dell'associazionismo islamico, dentro e fuori la Turchia, sia una fonte di predicazione integralista, che operava soprattutto negli asili e nelle scuole elementari. A differenza dell'inchiesta contro i generali golpisti, questa inchiesta non sembra destinata ad avere la stessa attenzione. E' evidente che mettere fuori gioco oggi le forze armate, disseppellendo un piano congegnato sette anni prima, impedisce la saldatura tra i due bastioni del potere secolare: armi e toghe. Non solo: a differenza del passato, adesso è il governo che passa all'attacco, decapitando i vertici militari e avviando una riforma della giustizia per stringere forte il controllo politico sui magistrati. Al centro di questo scontro resta il ruolo di un islam sempre più dominante.
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