lunedì 22 febbraio 2010

Altrove

Nei Paesi arabi li trattano come schiavi di Livio Caputo

Per quella che la Questura ha ormai individuato come una «lite casuale», sia pure con morto, in Italia ci stiamo stracciando le vesti: la rissa di viale Padova, con successiva vandalizzazione del quartiere da parte degli amici della vittima, ha dato il la a una ridda di accuse e contraccuse sul processo di integrazione degli immigrati, sulla opportunità di limitare la percentuale di stranieri nei singoli quartieri, sull'incapacità delle autorità di mantenere parti della città sotto controllo, che sembra davvero eccessiva rispetto alla portata dell'accaduto. Forse, prima di istruire processi sulla base di un caso che, se avesse coinvolto due gruppi di balordi italiani, sarebbe stato liquidato con un titolo a due colonne, faremmo bene a guardare come i problemi della accoglienza e della convivenza tra le varie etnie sono stati risolti nei Paesi islamici in generale e in quelli arabi in particolare. Non per invocare, in questo caso, un astratto principio di reciprocità, ma per dimostrare che la nostra politica dell'accoglienza, che il cardinale Tettamanzi e tanti altri buonisti non si stancano di criticare, è un modello di efficienza e di umanità rispetto al trattamento che gli stessi egiziani, marocchini, palestinesi, pachistani, bangladeshi ricevono quando vanno a cercare lavoro negli altri Paesi musulmani più ricchi del loro, in particolare nei grandi produttori di idrocarburi del Golfo o anche nella vicina Libia. Prima dello sfruttamento dei giacimenti petroliferi e del conseguente afflusso di ricchezza, questi Paesi erano sparsamente popolati e ancora meno sviluppati. Per diventare quel che sono oggi, hanno dovuto fare affluire in forma massiccia non solo manodopera, ma anche cervelli sia dal resto del mondo arabo, sia dall'Asia meridionale, al punto che oggi la popolazione autoctona è addirittura in minoranza: nel Kuwait costituisce solo il 40%, negli Emirati Arabi Uniti il 35%, nel Qatar il 42%, nel Bahrein il 48%. Nella più popolosa Arabia Saudita, rappresenta ancora l'80% del totale, ma meno del 50% della forza lavoro. In altre parole, questi Paesi, i cui cittadini ricevono generose elargizioni governative e disdegnano ormai tutti i lavori scomodi, funzionano soltanto grazie agli immigrati, senza i quali sarebbero ridotti alla paralisi. Eppure, se andiamo a vedere quali diritti sono stati loro concessi, quali garanzie hanno ottenuto sul lavoro, quale è il loro tenore di vita rispetto agli «indigeni», il quadro è a dir poco desolante. Il termine «integrazione», da quelle parti, è sconosciuto, nessuno si preoccupa dei rapporti tra le varie etnie o se si formano dei ghetti. Sarebbe eccessivo sostenere che gli arabi del Golfo hanno inventato una nuova forma di servaggio della gleba, ma almeno nel caso dei lavoratori domestici e della bassa manovalanza la situazione non è molto diversa. Ma è soprattutto nel rapporto con le autorità che la posizione degli immigrati è debolissima. Nei loro confronti la legge viene sempre applicata con il massimo rigore: chi sgarra viene deportato, incarcerato, fustigato, tra le vane proteste delle varie organizzazioni umanitarie; e, dove è in vigore la sharia, non sono rare le condanne a morte o alla mutilazione. Certo, anche nei Paesi del Golfo qualche immigrato è riuscito a farsi strada, a entrare nei giri giusti dei potentati locali, magari perfino a ottenere la cittadinanza con tutti i vantaggi relativi, ma la condizione della massa è quella di chi viene usato finché c'è bisogno di lui, e messo alla porta senza tanti complimenti quando non è più gradito o, comunque, non serve più. Due casi sono particolarmente istruttivi, il primo sul piano politico, il secondo su quello economico. Fino alla prima guerra del Golfo, nel Kuwait c'era una fiorente colonia di palestinesi, che oltre a svolgere i lavori manuali sdegnati dai locali erano riusciti anche a conquistarsi posti importanti nella struttura economica ed amministrativa dell'emirato. Ma poiché nel 1991 Arafat commise la follia di prendere le parti dell'invasore Saddam Hussein, alla fine della occupazione irachena furono espulsi in massa, senza tenere conto del comportamento dei singoli. Sulla stessa linea, sia pure con motivazioni diverse, è stato il comportamento delle autorità di Dubai, quando la grande recessione ha posto fine al boom edilizio e lasciato a spasso una buona parte degli immigrati. Chi perde il lavoro perde anche il permesso di soggiorno e c'è stato un periodo, nell'estate del 2009, in cui si è arrivati a contare 1.200 espulsioni in un solo giorno. Ovviamente, non sono questi i metodi da prendere ad esempio. Ma può essere opportuno ricordare ai musulmani immigrati nella cattiva Italia quanto in realtà sono fortunati rispetto a quelli che sono andati a cercare fortuna nei Paesi «fratelli».

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