"Giovani Musulmani d’Italia" è un’associazione giovanile, fondata nel settembre del 2001 da un gruppo di giovani musulmani: un’associazione costituita da giovani e indirizzata a giovani dalle origini più disparate: dall’Africa al Medio Oriente, dall’Asia all’America, dall’Europa all’Oceania. L’associazione, tra i cui fondatori troviamo molti giovani cresciuti nei campi estivi dell’Ucoii, si propone di raggruppare tutti i musulmani di età compresa tra i 14 e i 30 anni presenti nel nostro paese: l’obiettivo ultimo è l’inserimento di tali giovani all’interno della società italiana, giovani che, "ponte tra 2 mondi", possiedono una grande ricchezza, che «se ben orientata li rende il miglior trait d'union da e per l’Italia, concorrendo così nella costituzione di una società finalmente interculturale, internazionale ed armonica», recita la voce “Chi siamo” sul sito. Abbiamo incontrato a Roma tre membri dell’associazione, tre giovani donne musulmane di religione islamica, tre ferventi credenti e osservanti: Noura, figlia di padre egiziano e madre marocchina, da poco laureata in Economia e Cooperazione per lo sviluppo internazionale, da poco sposata con un somalo che vive e lavora in Kenya, un musulmano credente e osservante. «Non avrei mai potuto sposare un non musulmano praticante. Io sono molto praticante e il mio essere praticante non potrebbe essere capito e sopportato da un ragazzo non musulmano. Faccio cinque preghiere ogni giorno, digiuno tutto il Ramadan, faccio tante altre cose… Un cattolico percepisce un obbligo in un’altra maniera», ci dice sicura. Del resto, i matrimoni misti sono un problema: «Anche di cultura sono un problema, figuriamoci di religione. Perché ad esempio se nasce un figlio, tocca battezzarlo o circonciderlo?». Imen è tunisina, in Italia da 10 anni. Anche lei studia Economia e cooperazione per lo sviluppo internazionale. È fidanzata con un marocchino. «Non sposerei mai un cattolico, un italiano musulmano sì. Visto che sono praticante non posso sposare un non musulmano. Neanche uno che si converte solo per sposarmi», conferma. Anche Chaima è tunisina. Ha 25 anni, vive a Roma da quando ne aveva 8 e si è da pochissimo laureata in Economia della cooperazione. Fidanzata con un italiano, papà giordano e mamma italiana, conferma l’idea delle sue amiche: «Non sposerei un cattolico». Noura, Imen e Chaima portano il velo: «Va di moda», provoca innocentemente Imen. «È uno dei precetti dell’Islam. Un dovere divino dettato nel Corano per salvaguardare la donna, per proteggerla», aggiunge Noura. «Attenua il problema degli sguardi maligni altrui. Mi sento più sicura vestendomi con un abito lungo, non troppo stretto, non scollato perché magari non mi piace essere guardata con occhi maliziosi da un uomo. Così io mi sento salvaguardata, protetta. Il velo serve a prevenire ogni provocazione. Questo in piccolo. In grande, il compito del velo è quello di salvaguardare la società perché, magari, se la donna fosse più coperta, se si mostrasse solo al suo uomo, ci sarebbero meno stupri, meno tradimenti». La risposta ci meraviglia: colpevolizzare la donna per il suo abbigliamento potrebbe equivalere a trasformare la vittima di uno stupro in colpevole, a giustificare lo stupratore. «No, no. Ognuno è libero di vestire come vuole e nessuno può ledere questa libertà. Però io dico, essendo una musulmana, mi sento più sicura, più protetta. Faccio un esempio banale. Se un uomo cammina per strada, vede una donna scollata, magari è sposato, fa dei pensieri su quella donna, va a casa e ignora la moglie. È un esempio banale, ma succede. Il velo aiuta a evitare anche questo», si affretta a precisare Noura. «E il burqa?». «Il burqa è una scelta in più che una donna dovrebbe fare. Una scelta facoltativa. Nell’Islam ciò che è dovuto è il velo. Il velo è un obbligo, il burqa una scelta. In realtà il velo è un obbligo, però basato su una scelta. Nel Corano c’è scritto che io devo portare il velo. Ma sono io a deciderlo. Non devono essere mio padre o mio fratello a costringermi, in quel caso non varrebbe neanche. Se porto il velo e a un certo punto non mi basta, posso scegliere di coprirmi di più». Nel corso del nostro viaggio alla scoperta del vasto universo delle seconde generazioni è la prima volta che ci troviamo di fronte a una risposta tanto netta e la curiosità, l’interesse, la voglia di approfondire hanno la meglio. «Una donna coperta non ti sembra negata? E perché una donna e non un uomo?», insistiamo. «Perché si sa, una donna è più provocante», è la risposta quasi candida di Noura. «E allora perché non porti il burqa?». «Perché sto bene così, non ne sento la necessità», continua Noura. Anche Imen porta il velo, perché è un obbligo religioso, come il digiuno, ma mostra una sicurezza minore, una convinzione più traballante nello stabilire ciò che è giusto e ciò che non lo è. «Non so se ci vedo qualcosa di male in una donna col burqa». «È una scelta sua. Perché dovresti vederci qualcosa di male? Se è obbligata ci vedo del male eccome, perché nessuno al mondo può obbligare un’altra persona a fare ciò che non vuole. Però se lei sta bene così nessuno ha il diritto di obiettare», le fa notare Noura. «Quindi non siete d’accordo con una legge che imponga il divieto del burqa?», domandiamo. La risposta di Imen mostra ancora una volta una innocenza genuina: «Se parliamo di una legge che vieti il viso coperto, non ci vedo nulla di male. Lo scopo della legge non è limitare una religione, discriminare una donna col burqa. Ma se lo scopo della legge è il divieto del burqa, allora è una discriminazione. Io non so decidere perché non mi tocca. Non lo so. Certo, avere il viso scoperto ti consente di avvicinarti di più, di comunicare più facilmente con la gente; sapendo che la gente un po’ ha dei pregiudizi... È come se dicessi: "Niente comunicazione". Se hai il viso coperto non so neanche chi sei. In una società così, in Italia, secondo me è meglio non metterlo. Anche per facilitare il contatto, l’integrazione. Non è un principio dell’Islam. Vietarlo non è contro la religione islamica, non è una discriminazione. In Francia, hanno vietato il velo: quella è una grandissima offesa, perché hanno vietato tutti i simboli religiosi. Il velo non è un simbolo. Hanno vietato una croce sul muro, la kippah degli ebrei e il velo. Il velo non è un simbolo. Hanno vietato il velo musulmano e non quello della suora. Non puoi paragonare un velo con una croce messa al muro. Mi potresti vietare il burqa che non è un simbolo, non un obbligo religioso come il velo». «E la croce, cosa pensi del divieto della croce?», le chiediamo. «Hanno vietato la croce, ma tale divieto non ti tocca in modo personale. Vietare il velo è come vietare una preghiera. Vietare la croce nella scuola ti tocca quando sei lì, quando sei per strada non ti tocca personalmente. Il velo è un modo di essere. Se ti toccano il crocefisso è diverso. Non è per minimizzarlo. Ma per noi è come scegliere: o praticare la religione o continuare ad andare a scuola. È una cosa delicata», insiste Noura. La conversazione sta toccando temi caldi e attuali. Le nostre tre interlocutrici sono categoriche e chiare nelle loro risposte. È il momento di passare a un altro tema clou: «E la poligamia?». La prima a rispondere è Noura. Il tema le interessa più da vicino essendo sposata. «È un precetto dell’islam. Io, sono sposata da poco, adesso non accetterei un’altra moglie per mio marito. Perché adesso mio marito non ha nessun motivo per sposare un’altra donna. Più avanti non lo so». «É una regola nell’islam e una soluzione in alcuni casi. Una donna può rifiutarsi, può divorziare. Non è un obbligo», precisa Imen. «Poi ci sono alcuni casi in cui la poligamia è una soluzione: quando la donna è sterile e l’uomo non vuole rinunciare a lei ma vuole dei figli. La poligamia è saltata fuori soprattutto nei periodi di guerra, tipo in Afghanistan ci sono mole donne che non possono lavorare o non viene concesso loro di lavorare, e come campano? Devono avere un uomo che si prenda cura di loro. Quindi si sposano di nuovo», aggiunge Noura. «Nei casi di guerra, la maggioranza dei caduti è composta da uomini, anche per far ricrescere la popolazione», aggiunge Imen. «Esiste anche in Europa solo che… Tra mogli e amanti. Almeno la poligamia ti dà i tuoi diritti», sorride Chaima. «Allora anche una donna può avere più uomini?», chiediamo quasi provocando. «No. Innanzitutto per la natura della donna. È difficile trovare una donna che vuole più uomini. Poi, un esempio: un uomo sposa due donne, fanno entrambe un figlio, si sa chi è il padre e chi è la madre. Se una donna sposa più uomini, come si fa a sapere chi è il padre? Ogni volta si ricorre all’esame del Dna?».
martedì 16 febbraio 2010
Perle di fare futuro
Velo e poligamia: le ragioni dei Giovani Musulmani di Tonia Garofano
"Giovani Musulmani d’Italia" è un’associazione giovanile, fondata nel settembre del 2001 da un gruppo di giovani musulmani: un’associazione costituita da giovani e indirizzata a giovani dalle origini più disparate: dall’Africa al Medio Oriente, dall’Asia all’America, dall’Europa all’Oceania. L’associazione, tra i cui fondatori troviamo molti giovani cresciuti nei campi estivi dell’Ucoii, si propone di raggruppare tutti i musulmani di età compresa tra i 14 e i 30 anni presenti nel nostro paese: l’obiettivo ultimo è l’inserimento di tali giovani all’interno della società italiana, giovani che, "ponte tra 2 mondi", possiedono una grande ricchezza, che «se ben orientata li rende il miglior trait d'union da e per l’Italia, concorrendo così nella costituzione di una società finalmente interculturale, internazionale ed armonica», recita la voce “Chi siamo” sul sito. Abbiamo incontrato a Roma tre membri dell’associazione, tre giovani donne musulmane di religione islamica, tre ferventi credenti e osservanti: Noura, figlia di padre egiziano e madre marocchina, da poco laureata in Economia e Cooperazione per lo sviluppo internazionale, da poco sposata con un somalo che vive e lavora in Kenya, un musulmano credente e osservante. «Non avrei mai potuto sposare un non musulmano praticante. Io sono molto praticante e il mio essere praticante non potrebbe essere capito e sopportato da un ragazzo non musulmano. Faccio cinque preghiere ogni giorno, digiuno tutto il Ramadan, faccio tante altre cose… Un cattolico percepisce un obbligo in un’altra maniera», ci dice sicura. Del resto, i matrimoni misti sono un problema: «Anche di cultura sono un problema, figuriamoci di religione. Perché ad esempio se nasce un figlio, tocca battezzarlo o circonciderlo?». Imen è tunisina, in Italia da 10 anni. Anche lei studia Economia e cooperazione per lo sviluppo internazionale. È fidanzata con un marocchino. «Non sposerei mai un cattolico, un italiano musulmano sì. Visto che sono praticante non posso sposare un non musulmano. Neanche uno che si converte solo per sposarmi», conferma. Anche Chaima è tunisina. Ha 25 anni, vive a Roma da quando ne aveva 8 e si è da pochissimo laureata in Economia della cooperazione. Fidanzata con un italiano, papà giordano e mamma italiana, conferma l’idea delle sue amiche: «Non sposerei un cattolico». Noura, Imen e Chaima portano il velo: «Va di moda», provoca innocentemente Imen. «È uno dei precetti dell’Islam. Un dovere divino dettato nel Corano per salvaguardare la donna, per proteggerla», aggiunge Noura. «Attenua il problema degli sguardi maligni altrui. Mi sento più sicura vestendomi con un abito lungo, non troppo stretto, non scollato perché magari non mi piace essere guardata con occhi maliziosi da un uomo. Così io mi sento salvaguardata, protetta. Il velo serve a prevenire ogni provocazione. Questo in piccolo. In grande, il compito del velo è quello di salvaguardare la società perché, magari, se la donna fosse più coperta, se si mostrasse solo al suo uomo, ci sarebbero meno stupri, meno tradimenti». La risposta ci meraviglia: colpevolizzare la donna per il suo abbigliamento potrebbe equivalere a trasformare la vittima di uno stupro in colpevole, a giustificare lo stupratore. «No, no. Ognuno è libero di vestire come vuole e nessuno può ledere questa libertà. Però io dico, essendo una musulmana, mi sento più sicura, più protetta. Faccio un esempio banale. Se un uomo cammina per strada, vede una donna scollata, magari è sposato, fa dei pensieri su quella donna, va a casa e ignora la moglie. È un esempio banale, ma succede. Il velo aiuta a evitare anche questo», si affretta a precisare Noura. «E il burqa?». «Il burqa è una scelta in più che una donna dovrebbe fare. Una scelta facoltativa. Nell’Islam ciò che è dovuto è il velo. Il velo è un obbligo, il burqa una scelta. In realtà il velo è un obbligo, però basato su una scelta. Nel Corano c’è scritto che io devo portare il velo. Ma sono io a deciderlo. Non devono essere mio padre o mio fratello a costringermi, in quel caso non varrebbe neanche. Se porto il velo e a un certo punto non mi basta, posso scegliere di coprirmi di più». Nel corso del nostro viaggio alla scoperta del vasto universo delle seconde generazioni è la prima volta che ci troviamo di fronte a una risposta tanto netta e la curiosità, l’interesse, la voglia di approfondire hanno la meglio. «Una donna coperta non ti sembra negata? E perché una donna e non un uomo?», insistiamo. «Perché si sa, una donna è più provocante», è la risposta quasi candida di Noura. «E allora perché non porti il burqa?». «Perché sto bene così, non ne sento la necessità», continua Noura. Anche Imen porta il velo, perché è un obbligo religioso, come il digiuno, ma mostra una sicurezza minore, una convinzione più traballante nello stabilire ciò che è giusto e ciò che non lo è. «Non so se ci vedo qualcosa di male in una donna col burqa». «È una scelta sua. Perché dovresti vederci qualcosa di male? Se è obbligata ci vedo del male eccome, perché nessuno al mondo può obbligare un’altra persona a fare ciò che non vuole. Però se lei sta bene così nessuno ha il diritto di obiettare», le fa notare Noura. «Quindi non siete d’accordo con una legge che imponga il divieto del burqa?», domandiamo. La risposta di Imen mostra ancora una volta una innocenza genuina: «Se parliamo di una legge che vieti il viso coperto, non ci vedo nulla di male. Lo scopo della legge non è limitare una religione, discriminare una donna col burqa. Ma se lo scopo della legge è il divieto del burqa, allora è una discriminazione. Io non so decidere perché non mi tocca. Non lo so. Certo, avere il viso scoperto ti consente di avvicinarti di più, di comunicare più facilmente con la gente; sapendo che la gente un po’ ha dei pregiudizi... È come se dicessi: "Niente comunicazione". Se hai il viso coperto non so neanche chi sei. In una società così, in Italia, secondo me è meglio non metterlo. Anche per facilitare il contatto, l’integrazione. Non è un principio dell’Islam. Vietarlo non è contro la religione islamica, non è una discriminazione. In Francia, hanno vietato il velo: quella è una grandissima offesa, perché hanno vietato tutti i simboli religiosi. Il velo non è un simbolo. Hanno vietato una croce sul muro, la kippah degli ebrei e il velo. Il velo non è un simbolo. Hanno vietato il velo musulmano e non quello della suora. Non puoi paragonare un velo con una croce messa al muro. Mi potresti vietare il burqa che non è un simbolo, non un obbligo religioso come il velo». «E la croce, cosa pensi del divieto della croce?», le chiediamo. «Hanno vietato la croce, ma tale divieto non ti tocca in modo personale. Vietare il velo è come vietare una preghiera. Vietare la croce nella scuola ti tocca quando sei lì, quando sei per strada non ti tocca personalmente. Il velo è un modo di essere. Se ti toccano il crocefisso è diverso. Non è per minimizzarlo. Ma per noi è come scegliere: o praticare la religione o continuare ad andare a scuola. È una cosa delicata», insiste Noura. La conversazione sta toccando temi caldi e attuali. Le nostre tre interlocutrici sono categoriche e chiare nelle loro risposte. È il momento di passare a un altro tema clou: «E la poligamia?». La prima a rispondere è Noura. Il tema le interessa più da vicino essendo sposata. «È un precetto dell’islam. Io, sono sposata da poco, adesso non accetterei un’altra moglie per mio marito. Perché adesso mio marito non ha nessun motivo per sposare un’altra donna. Più avanti non lo so». «É una regola nell’islam e una soluzione in alcuni casi. Una donna può rifiutarsi, può divorziare. Non è un obbligo», precisa Imen. «Poi ci sono alcuni casi in cui la poligamia è una soluzione: quando la donna è sterile e l’uomo non vuole rinunciare a lei ma vuole dei figli. La poligamia è saltata fuori soprattutto nei periodi di guerra, tipo in Afghanistan ci sono mole donne che non possono lavorare o non viene concesso loro di lavorare, e come campano? Devono avere un uomo che si prenda cura di loro. Quindi si sposano di nuovo», aggiunge Noura. «Nei casi di guerra, la maggioranza dei caduti è composta da uomini, anche per far ricrescere la popolazione», aggiunge Imen. «Esiste anche in Europa solo che… Tra mogli e amanti. Almeno la poligamia ti dà i tuoi diritti», sorride Chaima. «Allora anche una donna può avere più uomini?», chiediamo quasi provocando. «No. Innanzitutto per la natura della donna. È difficile trovare una donna che vuole più uomini. Poi, un esempio: un uomo sposa due donne, fanno entrambe un figlio, si sa chi è il padre e chi è la madre. Se una donna sposa più uomini, come si fa a sapere chi è il padre? Ogni volta si ricorre all’esame del Dna?».
"Giovani Musulmani d’Italia" è un’associazione giovanile, fondata nel settembre del 2001 da un gruppo di giovani musulmani: un’associazione costituita da giovani e indirizzata a giovani dalle origini più disparate: dall’Africa al Medio Oriente, dall’Asia all’America, dall’Europa all’Oceania. L’associazione, tra i cui fondatori troviamo molti giovani cresciuti nei campi estivi dell’Ucoii, si propone di raggruppare tutti i musulmani di età compresa tra i 14 e i 30 anni presenti nel nostro paese: l’obiettivo ultimo è l’inserimento di tali giovani all’interno della società italiana, giovani che, "ponte tra 2 mondi", possiedono una grande ricchezza, che «se ben orientata li rende il miglior trait d'union da e per l’Italia, concorrendo così nella costituzione di una società finalmente interculturale, internazionale ed armonica», recita la voce “Chi siamo” sul sito. Abbiamo incontrato a Roma tre membri dell’associazione, tre giovani donne musulmane di religione islamica, tre ferventi credenti e osservanti: Noura, figlia di padre egiziano e madre marocchina, da poco laureata in Economia e Cooperazione per lo sviluppo internazionale, da poco sposata con un somalo che vive e lavora in Kenya, un musulmano credente e osservante. «Non avrei mai potuto sposare un non musulmano praticante. Io sono molto praticante e il mio essere praticante non potrebbe essere capito e sopportato da un ragazzo non musulmano. Faccio cinque preghiere ogni giorno, digiuno tutto il Ramadan, faccio tante altre cose… Un cattolico percepisce un obbligo in un’altra maniera», ci dice sicura. Del resto, i matrimoni misti sono un problema: «Anche di cultura sono un problema, figuriamoci di religione. Perché ad esempio se nasce un figlio, tocca battezzarlo o circonciderlo?». Imen è tunisina, in Italia da 10 anni. Anche lei studia Economia e cooperazione per lo sviluppo internazionale. È fidanzata con un marocchino. «Non sposerei mai un cattolico, un italiano musulmano sì. Visto che sono praticante non posso sposare un non musulmano. Neanche uno che si converte solo per sposarmi», conferma. Anche Chaima è tunisina. Ha 25 anni, vive a Roma da quando ne aveva 8 e si è da pochissimo laureata in Economia della cooperazione. Fidanzata con un italiano, papà giordano e mamma italiana, conferma l’idea delle sue amiche: «Non sposerei un cattolico». Noura, Imen e Chaima portano il velo: «Va di moda», provoca innocentemente Imen. «È uno dei precetti dell’Islam. Un dovere divino dettato nel Corano per salvaguardare la donna, per proteggerla», aggiunge Noura. «Attenua il problema degli sguardi maligni altrui. Mi sento più sicura vestendomi con un abito lungo, non troppo stretto, non scollato perché magari non mi piace essere guardata con occhi maliziosi da un uomo. Così io mi sento salvaguardata, protetta. Il velo serve a prevenire ogni provocazione. Questo in piccolo. In grande, il compito del velo è quello di salvaguardare la società perché, magari, se la donna fosse più coperta, se si mostrasse solo al suo uomo, ci sarebbero meno stupri, meno tradimenti». La risposta ci meraviglia: colpevolizzare la donna per il suo abbigliamento potrebbe equivalere a trasformare la vittima di uno stupro in colpevole, a giustificare lo stupratore. «No, no. Ognuno è libero di vestire come vuole e nessuno può ledere questa libertà. Però io dico, essendo una musulmana, mi sento più sicura, più protetta. Faccio un esempio banale. Se un uomo cammina per strada, vede una donna scollata, magari è sposato, fa dei pensieri su quella donna, va a casa e ignora la moglie. È un esempio banale, ma succede. Il velo aiuta a evitare anche questo», si affretta a precisare Noura. «E il burqa?». «Il burqa è una scelta in più che una donna dovrebbe fare. Una scelta facoltativa. Nell’Islam ciò che è dovuto è il velo. Il velo è un obbligo, il burqa una scelta. In realtà il velo è un obbligo, però basato su una scelta. Nel Corano c’è scritto che io devo portare il velo. Ma sono io a deciderlo. Non devono essere mio padre o mio fratello a costringermi, in quel caso non varrebbe neanche. Se porto il velo e a un certo punto non mi basta, posso scegliere di coprirmi di più». Nel corso del nostro viaggio alla scoperta del vasto universo delle seconde generazioni è la prima volta che ci troviamo di fronte a una risposta tanto netta e la curiosità, l’interesse, la voglia di approfondire hanno la meglio. «Una donna coperta non ti sembra negata? E perché una donna e non un uomo?», insistiamo. «Perché si sa, una donna è più provocante», è la risposta quasi candida di Noura. «E allora perché non porti il burqa?». «Perché sto bene così, non ne sento la necessità», continua Noura. Anche Imen porta il velo, perché è un obbligo religioso, come il digiuno, ma mostra una sicurezza minore, una convinzione più traballante nello stabilire ciò che è giusto e ciò che non lo è. «Non so se ci vedo qualcosa di male in una donna col burqa». «È una scelta sua. Perché dovresti vederci qualcosa di male? Se è obbligata ci vedo del male eccome, perché nessuno al mondo può obbligare un’altra persona a fare ciò che non vuole. Però se lei sta bene così nessuno ha il diritto di obiettare», le fa notare Noura. «Quindi non siete d’accordo con una legge che imponga il divieto del burqa?», domandiamo. La risposta di Imen mostra ancora una volta una innocenza genuina: «Se parliamo di una legge che vieti il viso coperto, non ci vedo nulla di male. Lo scopo della legge non è limitare una religione, discriminare una donna col burqa. Ma se lo scopo della legge è il divieto del burqa, allora è una discriminazione. Io non so decidere perché non mi tocca. Non lo so. Certo, avere il viso scoperto ti consente di avvicinarti di più, di comunicare più facilmente con la gente; sapendo che la gente un po’ ha dei pregiudizi... È come se dicessi: "Niente comunicazione". Se hai il viso coperto non so neanche chi sei. In una società così, in Italia, secondo me è meglio non metterlo. Anche per facilitare il contatto, l’integrazione. Non è un principio dell’Islam. Vietarlo non è contro la religione islamica, non è una discriminazione. In Francia, hanno vietato il velo: quella è una grandissima offesa, perché hanno vietato tutti i simboli religiosi. Il velo non è un simbolo. Hanno vietato una croce sul muro, la kippah degli ebrei e il velo. Il velo non è un simbolo. Hanno vietato il velo musulmano e non quello della suora. Non puoi paragonare un velo con una croce messa al muro. Mi potresti vietare il burqa che non è un simbolo, non un obbligo religioso come il velo». «E la croce, cosa pensi del divieto della croce?», le chiediamo. «Hanno vietato la croce, ma tale divieto non ti tocca in modo personale. Vietare il velo è come vietare una preghiera. Vietare la croce nella scuola ti tocca quando sei lì, quando sei per strada non ti tocca personalmente. Il velo è un modo di essere. Se ti toccano il crocefisso è diverso. Non è per minimizzarlo. Ma per noi è come scegliere: o praticare la religione o continuare ad andare a scuola. È una cosa delicata», insiste Noura. La conversazione sta toccando temi caldi e attuali. Le nostre tre interlocutrici sono categoriche e chiare nelle loro risposte. È il momento di passare a un altro tema clou: «E la poligamia?». La prima a rispondere è Noura. Il tema le interessa più da vicino essendo sposata. «È un precetto dell’islam. Io, sono sposata da poco, adesso non accetterei un’altra moglie per mio marito. Perché adesso mio marito non ha nessun motivo per sposare un’altra donna. Più avanti non lo so». «É una regola nell’islam e una soluzione in alcuni casi. Una donna può rifiutarsi, può divorziare. Non è un obbligo», precisa Imen. «Poi ci sono alcuni casi in cui la poligamia è una soluzione: quando la donna è sterile e l’uomo non vuole rinunciare a lei ma vuole dei figli. La poligamia è saltata fuori soprattutto nei periodi di guerra, tipo in Afghanistan ci sono mole donne che non possono lavorare o non viene concesso loro di lavorare, e come campano? Devono avere un uomo che si prenda cura di loro. Quindi si sposano di nuovo», aggiunge Noura. «Nei casi di guerra, la maggioranza dei caduti è composta da uomini, anche per far ricrescere la popolazione», aggiunge Imen. «Esiste anche in Europa solo che… Tra mogli e amanti. Almeno la poligamia ti dà i tuoi diritti», sorride Chaima. «Allora anche una donna può avere più uomini?», chiediamo quasi provocando. «No. Innanzitutto per la natura della donna. È difficile trovare una donna che vuole più uomini. Poi, un esempio: un uomo sposa due donne, fanno entrambe un figlio, si sa chi è il padre e chi è la madre. Se una donna sposa più uomini, come si fa a sapere chi è il padre? Ogni volta si ricorre all’esame del Dna?».
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
2 commenti:
Mai sentite tante stronzate tutte insieme... e queste sarebbero integrate qui in Italia? Le 'future italiane'??? Mammaiuto...!!!
Già, già, e questi sono "i nuovi italiani" che gli ex di An decantano tanto. La generazione Balotelli.
Posta un commento