La condanna del padre non è una guerra di religione ma semplice giustizia. Che cosa c'entra Allah se un uomo uccide sua figlia? di Sergio Talamo
La Corte di Cassazione ha detto basta a un'ipocrisia colossale che copre fatti infami. Nel motivare la conferma a 30 anni di carcere per il padre di Hina Saleem, la ventenne pachistana-bresciana che voleva amare un ragazzo italiano, e che per questo nel 2006 venne massacrata dal padre e dai parenti e poi seppellita nel giardino, la Corte ha affermato che la religione non c'entra e le tradizioni locali neppure. A muovere la mano dell'omicida e del suo clan è stato «un patologico e distorto rapporto di possesso parentale», per cui la figlia che disobbedisce è un disonore, quindi va punita, colpita, cancellata come se non fosse più una persona. Una sentenza che cambia la storia? Non si può mai dire, prima che la storia si sia pronunciata. Certo, c'è da sperare nei prossimi decenni ci si ricordi di quel giorno del febbraio 2010 in cui la Corte di Cassazione tolse ogni alibi alla barbarie di presunti padri, che affermano di picchiare e uccidere in nome della famiglia, della tradizione o della religione. E una sorta di triade Dio, patria e famiglia in versione islamica, che somiglia tanto a quella originaria di certa Italia arretrata dove in nome di quei valori i figli, ma soprattutto le figlie e le mogli, erano privati di diritti, libertà, dignità. La storia di Hina è simile a mille altre. È il volto di un’Italia dove accadono cose turpi - umiliazioni, violenze, mutilazioni - coperte non solo dalle mura di casa ma anche da un altro ancor più invalicabile muro: quello di un finto rispetto della religione altrui. Pur di lavarsene le mani, si imbastice una facile sociologia per cui il confronto fra fedi diverse equivarrebbe a lasciar assassinare una ragazza innocente o lasciarne schiavizzare un’altra; o chiudere gli occhi sui bambini costretti a mendicare, o sui neonati esposti come animali, al gelo e sotto il solleone. Tutto questo in Italia. Nel ventunesimo secolo. Un altro caso recente è quello di Sanaa, 18 anni, un fiore di gioventù e fiducia nella vita. Il teatro del crimine questa volta è Pordenone. Suo padre la minaccia, poi le tende un agguato, la trascina per i capelli, la accoltella alla gola, infine prende una bottiglia e, mentre lei sta morendo, gliela spacca sulla testa. Quando tutto è finito, dice «era la mia vergogna», «era una settimana che ci provavo». Cosa c’entra Dio, qualunque dio, con questa orrenda vendetta di un uomo contro una figlia che si ribella alla sua ignoranza? Una figlia che vuole la nostra stessa libertà, quella per cui tanti italiani sono morti, e che oggi non sappiamo difendere? Una figlia della nuova Italia che ci chiedeva protezione, mentre noi abbiamo tollerato che nel nostro evoluto Nord nascesse un sud più spietato e barbarico di quello che avevamo un secolo fa? La schiavitù, lo insegna la storia, non ha bisogno di leggi o religioni. In certe culture coincide con il normale andare delle cose. È ora di capire che nella mente di certi uomini la religione è solo il lasciapassare del dominio feroce e arbitrario contro chi è più debole. È il salvacondotto per edificare un lager personale in cui sono rinchiusi bambini e donne. Non è quindi la guerra di religione il nostro dovere. Ma la guerra alla violenza dell’uomo che non si sente soggetto alla legge, fingendo che lo voglia il suo dio.
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