venerdì 19 febbraio 2010

Punti di vista

Confermata la condanna a 30 anni per il padre. Hina, i giudici negano le "attenuanti religiose" e per una volta fanno bene conversazione con Nicolò Zanon di Fabrizia B.

Ha sgozzato la figlia di appena 20 anni e, come vuole la tradizione, ha seppellito il suo corpo avvolto con un lenzuolo bianco nel giardino di casa perché non la riteneva una buona musulmana e perché lei voleva vivere all’occidentale. Ma, al di là delle apparenze, nel terribile omicidio di Hina – uno di quei casi che rimarrà nella memoria di tutti gli italiani e resterà tra le vicende di cronaca più strazianti degli ultimi tempi – la cultura e la religione non c’entrano nulla. Almeno è quanto ha sostenuto il Tribunale di Brescia e, ieri, ha confermato la Corte di Cassazione che nelle sue motivazioni ritiene che il padre era stato invece spinto da “un patologico e distorto rapporto di possesso parentale”. Nelle ragioni della sentenza di condanna a 30 anni di carcere contro Saleem Mohammed, l’uomo che nell'agosto del 2006 uccise la figlia con l’aiuto dei cognati, si legge che il padre avrebbe sfogato “la riprovazione furiosa del comportamento negativo della propria figlia”, che voleva vivere liberamente la sua vita convivendo con il fidanzato, non perché mosso da “ragioni o consuetudini religiose o culturali, bensì sulla rabbia per la sottrazione al proprio reiterato divieto paterno”. Secondo la Suprema Corte la barbara uccisione della ragazza non è da ricercarsi nei motivi di religione quanto nel “rapporto fra Hina e la sua famiglia e soprattutto nella inaccettabile concezione, travalicante i pur presenti profili religiosi e di costume rinvenibile anche in contesti diversi, che l'imputato Saleem aveva del rapporto padre-figlia come possesso-dominio”, nonché “nell’atteggiamento spesso intimidatorio e violento di costui nei confronti della figlia che non sottostava ai suoi voleri e rivendicava margini di autonomia”. Condividendo le motivazioni dei giudici d’appello, la Suprema Corte ha respinto la richiesta dell’omicida di ottenere le circostanze attenuanti (tra cui, le motivazioni culturali e religiose) confermando che i motivi del suo delitto furono “abietti” e che il trattamento sanzionatorio ricevuto con rito abbreviato è stato, quindi, adeguato. E’ stata poi ridotta da 30 a 17 anni la condanna di reclusione per Khalid e Zahid Mahmood, i due fratelli sposati con le sorelle di Hina che parteciparono all’aggressione della ragazza nella casa paterna, impedendole di fuggire mentre il padre la inseguiva con il coltello. A loro, invece, il tribunale ha concesso le attenuanti. Sono bastati pochi minuti perché su vari siti Internet e sui maggiori quotidiani nazionali si scatenasse un ampio dibattito. Nonostante la sentenza confermi la condanna a 30 anni con l’aggravante generico di “futile motivo”, moltissimi lettori e blogger si domandano com’è possibile che “la motivazione culturale e religiosa” – come accade nel caso di un padre che sgozza la figlia perché non segue la tradizione musulmana – possa essere considerata dalla giurisprudenza tuttalpiù un’attenuante e non un’aggravante. “Qualcuno dice nel forum che i motivi religiosi danno diritto all'attenuante nel caso di omicidio. Allora non capisco perché continuino a dare la caccia a Bin Laden”, commenta ironicamente un lettore anonimo sul Corriere.it mentre Marco Piccardi scrive sul Giornale che “trent'anni sono pochi per una bestia di padre che ammazza la propria figlia”. C’è chi si domanda infatti se davvero sia giusto considerare “futile” allo stesso modo il gesto omicida di un uomo che viene influenzato da dei dogmi di una cultura e da una religione oppressiva e la reazione istigata magari da un brutto sguardo o dalla risposta brusca di una figlia. “L’attenuante di motivazione religiosa o culturale non è prevista dal nostro regolamento ma è una tendenza discrezionale sempre più in voga tra certi giudici”, ci spiega Nicolò Zanon, docente di Diritto Costituzionale presso l'Università di Milano. Non mancano infatti nel nostro sistema sentenze in cui i giudici abbiano riconosciuto questo tipo di attenuante all’omicida. Il 26 ottobre 2009, per esempio, la Corte d’Appello di Trieste riconobbe ad un cittadino algerino uno sconto di pena perché “vulnerabile geneticamente” dovuto all’essersi trovato di fronte alla necessità “di coniugare il rispetto della propria fede islamica integralista con il modello comportamentale occidentale, determinando nell’uomo un importante deficit nella sua capacità di intendere e di volere”. “In pratica – continua Zanon – l’attenuante culturale o religiosa apre alla possibilità di dover tener conto di tradizioni culturali e credi diversi in nome della tolleranza e del solito relativismo dilagante”. Nel caso concreto della vicenda di Hina, il giurista ci spiega che uccidere una persona per veder riconosciuta la propria autorità paterna (seppur forgiata da una certa cultura o religione) è, secondo il nostro sistema giuridico, di per sé futile e per questo motivo non serve un’aggravante specifica per le motivazioni religiose o culturali. “Aprendo un dibattito sulla modifica del codice penale per prevedere un’aggravante di ragioni religiose culturali si rischia di cadere nell’estremo opposto e condannare genericamente i principi religiosi e morali. Inoltre – aggiunge il costituzionalista – vedo seri problemi di costituzionalità e di violazione dell’articolo 3 della Costituzione, quello che vieta qualunque discriminazione religiosa”. Secondo Zanon, infine, in fondo c'è una questione ideologica: “Dare rilevanza giuridica ad aspetti esterni al codice penale non solo è profondamente illiberale ma aumenta quello spazio di arbitrarietà e discrezionalità al giudice che potrebbe portare ad ancora più pericolose derive di relativismo multiculturale”. Non resta che sperare, quindi, che la sentenza sull’omicidio di Hina faccia scuola e che non ci si avventuri più a legittimare attenuanti culturali e religiose in caso di omicidio.

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