Si pensa a Rosarno, a un’altra banlieue, a una terra di nessuno abbruttita dal degrado e dalle vite di scarto di un esercito di immigrati fuori controllo: e invece via Padova è Milano, non una periferia ma una nuova frontiera, il luogo di un’integrazione difficile e forse fallita dove cresce un muro invisibile tra gli stranieri e noi. Marocchini, tunisini, arabi, turchi, cinesi, filippini, slavi, peruviani, colombiani, o latin king, come i rissosi assassini di ieri, si incrociano ogni giorno in una strada che nel giro di pochi anni è diventata l’enclave malata di una multietnicità che nessuno ha governato. In via Padova non bastano le risposte di pochi generosi cittadini a far fronte al concentrato di problemi che l’immigrazione spesso clandestina ha rovesciato sul quartiere: anno dopo anno sono cresciuti lo spaccio, il degrado, l’abusivismo, la povertà, lo sfruttamento, la prostituzione, e sono aumentati gruppi che i sociologi chiamano «deprivati», senza niente, disposti a tutto, immigrati destinati a crescere in una situazione di esclusione sociale. Vivono in dieci o dodici in osceni tuguri che non si possono chiamare case, due stanze squallide in affitto o in subaffitto, clandestini anche per gli amministratori di condominio che danno continuamente disdette dall’incarico perché non sanno a chi intestare le spese. E si trovano all’alba in piazzale Loreto, dove quando va bene ci sono i caporali che reclutano la manodopera in nero per i cantieri, mentre in via Padova si alzano le saracinesche dei pochi negozi italiani che ogni giorno raccolgono firme contro la sporcizia, i furti, la violenza che alimenta paura. Ci sono assenze istituzionali di riferimento e c’è anche un oscuramento di alcuni valori umani in questo quartiere dove Milano non sembra Milano: è lontano il sindaco, è lontana la giunta, sono lontani da anni gli amministratori e per molti cittadini la paura è diventata un sentimento dominante, come il rancore, il senso di abbandono, la sensazione di non essere ascoltati. Via Padova è diventata un rifugio, un porto franco per un esercito di immigrati, e qualcuno ha anche comprato casa, ha cercato l’integrazione con una comunità che ha cercato di favorire l’accoglienza attraverso gli oratori, i campi sportivi, le attività per i bambini. Ma non è bastato, non basta la buona volontà di un parroco o dei comitati di quartiere a fermare un’ondata di illegalità che nel tempo ha avuto partita vinta sui controlli, si è annessa stradine laterali, ha occupato palazzi. C’è poca polizia in strada, si lamentano i residenti, e i vigili hanno alzato bandiera bianca: «Non siamo in grado di effettuare controlli notturni per mancanza di risorse straordinarie» è stata la risposta di un comandante di zona ad un recente appello, nell’ottobre 2007. Era già finita l’illusione di una riconquista del territorio propagandata da una fiaccolata contro lo spaccio e il degrado voluta dal sindaco Moratti, contro l’«abbandono delle politiche di sicurezza del governo Prodi», finita con un corteo al quale aveva partecipato anche il leader Silvio Berlusconi. Su via Padova è calato il solito silenzio fino a questa notte di guerriglia, di morte e di furia selvaggia: rimbombano le voci della politica, adesso,si parla di rastrellamenti a pettine, casa per casa, come in tempo di guerra. Ma le urla non servono: in via Padova con la legalità da ripristinare c’è un tessuto sociale da ricostruire. Qui c’è lo specchio esasperato di una Milano futura: una città nella città da governare e non da subire.
Giangiacomo Schiavi
Via Padova - Dagli anni del boom alla criminalità straniera. Lo spaccio e le gang. La casbah di Milano cresciuta senza freni. Spaccio, prostituzione, abusivismo, degrado, etnie rivali che si disputano il territorio Il prete: tutto è cambiato.
MILANO — Quando vedono la polizia, ingoiano. Pallette di pellicola trasparente, le tengono sotto la lingua. Costano da 30 a 50 euro. Contengono cocaina, a volte sono «pacchi»: solo gesso. La vendono nei cortili, negli androni. La mattina invece svolazzano sui marciapiedi rettangolini di Domopak d’alluminio, bruciacchiati al centro. Servono per scaldare l’eroina e fumarla. La droga muove un bel pezzo dell’economia di queste strade disperate. Strade di balordi e poveri cristi. Centinaia di spacciatori lavorano in via Padova e traverse, da piazzale Loreto al primo ponte, prima periferia di Milano. Meno di un chilometro. E decine di palazzi andati in malora. Da ieri sembra finita in cancrena pure la convivenza, che non è mai stata un granché. Dice in serata Mahmoud Asfa, imam della moschea di via Padova: «Faccio un appello alla mia comunità perché non cerchi la vendetta». Storica zona di immigrazione dal Sud, questo quartiere di Milano. Palazzi di ringhiera, dove si ammassava la forza lavoro del boom economico, famiglie siciliane, pugliesi, calabresi. Case senza bagno (all’epoca) e ragazzini nei cortili. Padri in fabbrica. Falck, Breda. Erano gli anni Cinquanta e Sessanta: di quell’epoca, oggi, rimangono gli anziani, le vedove e i pochi cittadini che dicono «usciamo solo per fare la spesa e poi rimaniamo in casa». Gente che si è ritirata di fronte allo spaccio, la prostituzione, l’abusivismo. Via Crespi, Arquà, Clitumno, Marco Aurelio: potrebbero essere il posto ideale per un seminario di studio sulla totale assenza di governo dell’immigrazione. Spiega il parroco di San Giovanni Crisostomo, don Piero Cecchi: «La gente non era pronta a un’immigrazione così veloce e numerosa». Ora ci sono troppe fratture da ricucire. E questo a Milano lo sanno tutti, da almeno dieci anni. L’ultimo rischio è che la conflittualità latente esploda in una legge del taglione, eccitata dal sangue di quel ragazzo morto ieri sull’asfalto. Sulla deriva criminale di questa zona si muovono in molti. Romeni e albanesi, che lavorano di più con la cocaina; maghrebini, che smerciano soprattutto il fumo; sudamericani. Ogni gruppo per anni ha lavorato da solo. Con le mazze e i coltelli si sono contesi portoni, sottotetti occupati per gli «imboschi», pezzi di strada per lo spaccio. Oggi pare che si stiano mischiando. E le alleanze che si stringono e si sciolgono si portano dietro il rischio di intrighi, traditori, vendette. Poi c’è la prostituzione, quella di livello più basso, ed è un altro giro criminale che s’intreccia agli altri. L’anno scorso i poliziotti del commissariato Villa San Giovanni, solo loro, hanno fatto oltre 150 arresti. Anche se poi a rovinare l’esistenza di chi vive in queste strade c’è la crisi di convivenza sulle cose più semplici. I gruppetti che si ubriacano per strada, litigano, urlano. Gli inquilini di via Crespi hanno affisso centinaia di fogli A4 ai muri con un semplice avviso: «Non sporcare, non buttare bottiglie, non strillare di notte, non mangiare sui marciapiedi». In questa stessa via otto vetrine su dieci sono di market e ristoranti etnici (Bangladesh, Egitto, Marocco). Sugli autobus, un passeggero su sette non paga. È la media peggiore della città: quasi 7 mila multe negli ultimi sei mesi. Per la Camera di commercio, via Padova è la strada più straniera di Milano: 1.311 imprese intestate a immigrati, più di una su tre. E questo, di per sé, non sarebbe un male. Se non fosse che in queste comunità, isolate e compresse in uno spazio ridotto, le leggi della strada contano più del resto. E le liti finiscono spesso a coltellate, a cocci di bottiglia spaccati. Gli adolescenti sono la fascia più esposta e più pericolosa. Più a rischio per la droga e l’alcol. Sono i più sradicati e i più isolati, esclusi da una città che a quattro fermate di metrò sfoggia il lusso di via Montenapoleone, ma che per loro resta inaccessibile. Il gruppo è la risposta più immediata: per i giovani sudamericani assume la forma più strutturata della pandilla, della gang; per gli arabi non ha codici, né segni di riconoscimento. Ma la rabbia è identica. La scintilla per picchiarsi, spesso, è una parola o un’occhiata. Ora c’è anche un morto da vendicare.
Andrea Galli e Gianni Santucci
4 commenti:
Tutti articoli buonisti. Partono dal presupposto che si possa "integrare" e che sia colpa della giunta milanese che non ha saputo farlo. Intendiamoci, De Corato e la Moratti hanno le loro colpe: non hanno adottato la linea dura di sbatterli fuori. Ma integrare cosa, se rischiano di essere addirittura più numerosi degli autoctoni? Il problema è lasciare mano libera alle espulsioni. Ma tutti questi drogati ovviamente saranno GRASSO CHE COLA per i vari Don Mazzi e preti vari con annesse Onlus. E della paura dei cittadini italiani se ne strafottono tutti.
Certo che la Moratti e i vari governi locali precedenti hanno le loro colpe. Tutti ce le hanno le colpe, soprattutto chi ANCORA continua a blaterare di integrazione. Andiamolo a domandare a chi in quelle zone ci vive e smettiamola di domandare agli esterni terzomondisti di merda. De Corato una cosa giusta l'ha detta, il fatto che le forze dell'ordine lavorano e poi i magistrati che dovrebbero firmare le espulsioni, bhe, quelli lavorano un pò meno. Il problema grosso è tutto lì.
Mgistratura sì, ma non solo. L'elenco completo della premiata Confraternita Immigrazionista lo trovi da me. Ora non ho voglia di ripeterlo.
Oh, ma figurati Nessie, come se non sapessimo già chi rema contro noi poveri coglioni di italiani. Poi passo a leggerti con calma.
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