Ma che tristezza vedere il Corriere della Sera che fu di Oriana Fallaci ridursi allo scimmiottamento di Repubblica. In prima pagina ieri, proprio sotto la testata di via Solferino, c’era uno di quei titoli che di solito imbellettano il quotidiano rivale e cugino: «Il leader xenofobo si scopre meticcio. L’olandese Wilders e gli antenati musulmani». Per chi non lo sapesse Geert Wilders è un signore di 46 anni, presidente del Partito per la libertà. Alle recenti elezioni europee la sua sigla ha ottenuto il 17% dei voti, diventando il secondo partito olandese. Il punto, però, è che Wilders di xenofobo non ha proprio nulla. È l’etichetta che gli ha messo addosso un certo establishment politico e culturale europeo, ossessionato dal politicamente corretto e sempre pronto a liquidare con etichette facili e infami chi si pone il problema dell’integrazione degli immigrati islamici. E la «notizia» che dallo studio degli antenati di Wilders, compiuto da una solerte antropologa olandese, saltino fuori «meticci dalla pelle scura», probabilmente musulmani (è lo “scoop” pubblicato ieri dal Corriere) non dice nulla, anzi è imbecille e razzista essa stessa, dato che Wilders non ha mai teorizzato la purezza della razza. Per dire: quando chiede che l’Olanda resti «agli olandesi» include tra questi ultimi anche gli immigrati dalle ex-colonie delle Indie orientali, che proprio ariani non sono.Non a caso, se le élites del vecchio continente si ostinano a insultarlo e mentre in Gran Bretagna - patria delle libertà - a Wilders è stato negato il permesso di entrare, oltreoceano le fondazioni più prestigiose lo ospitano con tutti gli onori. Un anno fa è stato chiamato a New York dal think tank conservatore Hudson Institute per tenere una conferenza e raccontare cosa accade dalle nostre parti. Wilders ha dipinto un quadro fosco: «Un totale di 54 milioni di musulmani vive adesso in Europa. L’Università di San Diego ha calcolato che un impressionante venticinque per cento della popolazione europea sarà musulmano tra appena dodici anni. Bernard Lewis ha predetto una maggioranza musulmana entro la fine di questo secolo. Questi sono i numeri. E i numeri non sarebbero preoccupanti se gli immigrati musulmani avessero un forte desiderio di assimilarsi. Ma ci sono pochi segnali che lo facciano credere. Il centro di ricerche Pew ha riportato che metà dei musulmani francesi ritengono che la loro lealtà all’Islam sia maggiore della loro lealtà alla Francia. Un terzo dei musulmani francesi non ha nulla da obiettare di fronte agli attentati suicidi. Il British Centre for Social Cohesion ha riferito che un terzo dei musulmani britannici sono in favore di un califfato mondiale. Uno studio olandese fa sapere che metà degli islamici olandesi ammettono di “comprendere” gli attentati dell’11 settembre». I musulmani, ha proseguito Wilders dinanzi alla sua platea americana, «chiedono quello che chiamano “rispetto”. Ed ecco come noi gli diamo questo rispetto: le nostre elites sono pronte a cedere. Ad arrendersi». Wilders, insomma, è preoccupato per l’erosione delle libertà occidentali causata dall’immigrazione islamica di massa in Europa. Vuole impedire che, nel giro di qualche decennio, il chador diventi il capo d’abbigliamento femminile più indossato nel vecchio continente. È uno che si scandalizza - ce ne fossero, a destra come a sinistra - quando, nella Amsterdam un tempo tollerantissima o in altre grandi città del nord Europa, gang di giovani musulmani insultano e picchiano in pubblico gli omosessuali. Si indigna, Wilders, quando nei sobborghi delle città europee le donne non islamiche sono insultate dagli immigrati perché girano per strada a volto scoperto. È uno dei pochi politici europei che vede le stesse cose che vedono i suoi elettori e parla la loro stessa lingua - non quella serie di suoni vuoti e frasi fatte che siamo abituati a sentire dagli euroburocrati di Bruxelles e dai nostri stessi politici. Al birignao di costoro, Wilders ha risposto a novembre in un’intervista al Wall Street Journal: «Dobbiamo svegliarci e dire a noi stessi: non sei uno xenofobo, non sei un razzista, non sei un pazzo se dici “La mia cultura è meglio della vostra”. Una cultura basata sulla cristianità, il giudaismo e l’umanesimo è migliore. Guardate come trattiamo le donne, guardate come trattiamo gli apostati, guardate come ci comportiamo con la separazione tra Chiesa e Stato. Posso darvi cinquecento esempi per cui la nostra cultura è migliore». Il leader del Partito olandese per la libertà è anche l’autore di Fitna, un film-documentario sull’Islam zeppo di cose risapute: gli attentati terroristici in Europa e negli Stati Uniti, l’indottrinamento antisemita dei piccoli palestinesi, gli imam che invitano i fedeli a conquistare l’Europa, il trend demografico che nel giro di qualche generazione minaccia di ridurre in minoranza gli “autoctoni” europei, le impiccagioni pubbliche degli omosessuali nell’Iran di Mahmoud Ahmadinejad. Risapute, ma comunque sufficienti a procurare al suo autore numerose minacce di morte da parte dei musulmani. Dinanzi alle quali, manco a dirlo, i leader internazionali - iniziando dal segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon - si sono fatti notare non per la solidarietà nei confronti di Wilders, né per la difesa della libertà d’espressione, ma per la ferma condanna di Fitna, ovviamente prima ancora che potessero vederlo. Resta da dire che il modello dichiarato di Wilders è Oriana Fallaci («lei aveva capito la pericolosità dell’invasione islamica») e che proprio a lui, lo scorso febbraio, è stato assegnato il premio per la libertà di pensiero dedicato alla scrittrice fiorentina. Sulla prima pagina del Corriere della Sera la Fallaci scrisse i suoi articoli più importanti. Sono passati pochi anni, ma sembra un secolo: ora, sotto quella testata, le stesse idee sono accusate di xenofobia.
Post scriptum. Interessante la prefazione di Ferruccio de Bortoli alla prima edizione economica de «La Rabbia e l'Orgoglio» di Oriana Fallaci, pubblicata oggi sul Corriere. Segnalo in particolare un passaggio: "Il suo direttore, si fa per dire, il sottoscritto, ebbe il piccolo merito di convincerla a scrivere, dopo l’Undici Settembre e un silenzio decennale, ma il grande torto di seguire poi le maledette regole del politicamente corretto. «L’Italia si divide nel nome di Oriana» titolammo il giorno dopo la pubblicazione del suo articolo. Un titolo corretto, ma freddo, distaccato".
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