domenica 19 aprile 2009

Il voto

Pd e province: lo spettro del numero 15. Nelle amministrative di giugno le province governate dal Pd potrebbero scendere da 50 a 15.

Se nelle amministrative di giugno gli elettori si comportassero come alle politiche, le province governate dal Pd scenderebbero da 50 a 15. Per carità, non facciamone un dramma. Ma il 6 e il 7 di giu­gno non si vota solo per l’Euro­pa. Di mezzo ci sono 4200 co­muni, 219 con più di 15.000 abi­tanti e 30 capoluogo, alcuni dei quali per un motivo o per l’altro importantissimi. E 64 province. Per carità, non facciamone un dram­ma. Ma di queste 64 province oggi più di 50 sono governate dal centrosinistra, so­lo 10 dal centrodestra. E si capisce. Le ele­zioni amministrative del 2004 per il cen­trosinistra furono un trionfo, per il cen­trodestra, ancora percorso dalle divisio­ni tra Forza Italia e la Lega, un disastro. Persino al Nord. Altri tempi. Adesso, leg­giamo sull’Unità in un documentatissi­mo articolo di Andrea Carugati, nel Pd cominciano a preoccuparsi per le elezio­ni provinciali persino di più che per le elezioni europee. Perché, ragiona il re­sponsabile per gli enti locali Paolo Fonta­nelli, se a giugno gli elettori si compor­tassero come nelle politiche (e, dal pun­to di vista del Pd, c’è da temere che si comportino molto peggio), sarebbe un disastro. Al Nord, ma non soltanto al Nord. Della cinquantina di amministra­zioni provinciali attuali, al Pd ne reste­rebbero 15. Quasi tutte concentrate in quelle che una volta si chiamavano Re­gioni rosse. Per carità, non facciamone un dram­ma. Le province sono quasi universal­mente considerate dei carrozzoni inutili: Ugo La Malfa ne chiedeva la soppressio­ne più di 40 anni fa, a maggior ragione i riformatori più coerenti si indignano og­gi perché non vengono abolite. Ma per­derne 35 o giù di lì in una botta sola per il Pd sarebbe un bel guaio lo stesso. Per­sino se nelle elezioni europee riuscisse a contenere i danni. E non solo perché ba­sterebbe la vista di Emilio Fede che in tv, quasi a simboleggiare un passaggio d’epoca, appone sulla carta d’Italia 35 bandierine del Pdl su province sin qui amministrate dal centrosinistra a gettare nella costernazione più nera militanti ed elettori. Per carità, non facciamone un dram­ma. Però, fossimo nei dirigenti del Pd, alle preoccupazioni di Fontanelli darem­mo molto ascolto. In politica i simboli e, come si dice adesso, l’immagine conta­no, eccome. Ma qui non si tratta solo di simboli e di immagine. Ci sarà pure un motivo se quelli della Lega, che sono dei politici eminentemente pratici, al solo sentir parlare di superamento delle pro­vince reagiscono con lo stesso, efficacis­simo fuoco di sbarramento con cui han­no replicato alla proposta di accorpare il referendum sulla legge elettorale alle ele­zioni del 7 giugno. Potranno anche esse­re inutili, o peggio, le province. Ma in ter­mini di consenso e di potere sono impor­tanti. E perderne una trentina, specie per un partito che voglia essere radicato nel territorio, e che si affidi in larga misu­ra a dei professionisti della politica (tra­dizionali o di tipo nuovo in questo caso non conta), vuol dire lasciare senz’arte né parte un esercito di assessori, di elet­ti, di presidenti e di consiglieri di enti pubblici e semipubblici, di consulenti e via di questo passo, con tutte le conse­guenze del caso. Se i partiti fossero delle associazioni culturali, e gli elettori votas­sero solo per motivi d’opinione, il proble­ma non sarebbe poi così terribile. Ma le cose sono un tantino più complicate: e sarebbe il caso di ricordarselo. Per carità, non facciamone un dram­ma. I dirigenti del Pd interpellati dal­l’Unità dichiarano di fare comunque affi­damento, oltre che sulle nuove candida­ture (auguri), sulla buona qualità degli amministratori uscenti. L’argomento è storicamente fondato, perché è grazie al­la buona amministrazione che, molto spesso, il centrosinistra nelle elezioni lo­cali è riuscito a sfangarla anche quando, sul piano politico, gli soffiava addosso un forte vento contrario. Stavolta, però, il vento contrario non è forte: è fortissi­mo. E difficilmente il Pd può pensare di potergli resistere da solo, o quasi, in no­me di una vocazione maggioritaria che, se non è più conclamata come nel recen­te passato, non è stata neanche realistica­mente archiviata. Solo nella metà delle province (e dei comuni) in cui si vota il Pd si presenta nella coalizione del 2004 e del 2006. Spesso manca all’appello Rifon­dazione comunista, talvolta l’Italia dei Valori, più raramente Sinistra e Libertà; e, quanto all’Udc, sempre dall’Unità ap­prendiamo che «al Nazareno ci si conso­la constatando che Casini correrà da so­lo in moltissime realtà, dal Piemonte al Veneto alla Puglia, togliendo voti prezio­si alla destra». Certo il Pd non poteva ve­nire a capo in poche settimane di una questione chiave per la sua identità e il suo futuro come quella delle alleanze. Ma la scelta di non scegliere gli complica terribilmente la vita. Anche nelle provin­ce. Utili o inutili che siano.

Paolo Franchi

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