Se nelle amministrative di giugno gli elettori si comportassero come alle politiche, le province governate dal Pd scenderebbero da 50 a 15. Per carità, non facciamone un dramma. Ma il 6 e il 7 di giugno non si vota solo per l’Europa. Di mezzo ci sono 4200 comuni, 219 con più di 15.000 abitanti e 30 capoluogo, alcuni dei quali per un motivo o per l’altro importantissimi. E 64 province. Per carità, non facciamone un dramma. Ma di queste 64 province oggi più di 50 sono governate dal centrosinistra, solo 10 dal centrodestra. E si capisce. Le elezioni amministrative del 2004 per il centrosinistra furono un trionfo, per il centrodestra, ancora percorso dalle divisioni tra Forza Italia e la Lega, un disastro. Persino al Nord. Altri tempi. Adesso, leggiamo sull’Unità in un documentatissimo articolo di Andrea Carugati, nel Pd cominciano a preoccuparsi per le elezioni provinciali persino di più che per le elezioni europee. Perché, ragiona il responsabile per gli enti locali Paolo Fontanelli, se a giugno gli elettori si comportassero come nelle politiche (e, dal punto di vista del Pd, c’è da temere che si comportino molto peggio), sarebbe un disastro. Al Nord, ma non soltanto al Nord. Della cinquantina di amministrazioni provinciali attuali, al Pd ne resterebbero 15. Quasi tutte concentrate in quelle che una volta si chiamavano Regioni rosse. Per carità, non facciamone un dramma. Le province sono quasi universalmente considerate dei carrozzoni inutili: Ugo La Malfa ne chiedeva la soppressione più di 40 anni fa, a maggior ragione i riformatori più coerenti si indignano oggi perché non vengono abolite. Ma perderne 35 o giù di lì in una botta sola per il Pd sarebbe un bel guaio lo stesso. Persino se nelle elezioni europee riuscisse a contenere i danni. E non solo perché basterebbe la vista di Emilio Fede che in tv, quasi a simboleggiare un passaggio d’epoca, appone sulla carta d’Italia 35 bandierine del Pdl su province sin qui amministrate dal centrosinistra a gettare nella costernazione più nera militanti ed elettori. Per carità, non facciamone un dramma. Però, fossimo nei dirigenti del Pd, alle preoccupazioni di Fontanelli daremmo molto ascolto. In politica i simboli e, come si dice adesso, l’immagine contano, eccome. Ma qui non si tratta solo di simboli e di immagine. Ci sarà pure un motivo se quelli della Lega, che sono dei politici eminentemente pratici, al solo sentir parlare di superamento delle province reagiscono con lo stesso, efficacissimo fuoco di sbarramento con cui hanno replicato alla proposta di accorpare il referendum sulla legge elettorale alle elezioni del 7 giugno. Potranno anche essere inutili, o peggio, le province. Ma in termini di consenso e di potere sono importanti. E perderne una trentina, specie per un partito che voglia essere radicato nel territorio, e che si affidi in larga misura a dei professionisti della politica (tradizionali o di tipo nuovo in questo caso non conta), vuol dire lasciare senz’arte né parte un esercito di assessori, di eletti, di presidenti e di consiglieri di enti pubblici e semipubblici, di consulenti e via di questo passo, con tutte le conseguenze del caso. Se i partiti fossero delle associazioni culturali, e gli elettori votassero solo per motivi d’opinione, il problema non sarebbe poi così terribile. Ma le cose sono un tantino più complicate: e sarebbe il caso di ricordarselo. Per carità, non facciamone un dramma. I dirigenti del Pd interpellati dall’Unità dichiarano di fare comunque affidamento, oltre che sulle nuove candidature (auguri), sulla buona qualità degli amministratori uscenti. L’argomento è storicamente fondato, perché è grazie alla buona amministrazione che, molto spesso, il centrosinistra nelle elezioni locali è riuscito a sfangarla anche quando, sul piano politico, gli soffiava addosso un forte vento contrario. Stavolta, però, il vento contrario non è forte: è fortissimo. E difficilmente il Pd può pensare di potergli resistere da solo, o quasi, in nome di una vocazione maggioritaria che, se non è più conclamata come nel recente passato, non è stata neanche realisticamente archiviata. Solo nella metà delle province (e dei comuni) in cui si vota il Pd si presenta nella coalizione del 2004 e del 2006. Spesso manca all’appello Rifondazione comunista, talvolta l’Italia dei Valori, più raramente Sinistra e Libertà; e, quanto all’Udc, sempre dall’Unità apprendiamo che «al Nazareno ci si consola constatando che Casini correrà da solo in moltissime realtà, dal Piemonte al Veneto alla Puglia, togliendo voti preziosi alla destra». Certo il Pd non poteva venire a capo in poche settimane di una questione chiave per la sua identità e il suo futuro come quella delle alleanze. Ma la scelta di non scegliere gli complica terribilmente la vita. Anche nelle province. Utili o inutili che siano.
Paolo Franchi
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