Dalia Mogahed sarà la prima donna a varcare regolarmente la porta della Casa Bianca con il capo coperto da un velo stretto sotto il mento, per fede. Barack Obama l’ha appena nominata consigliere sull’islam. Farà parte di un nuovo comitato dal nome lungo: Advisory Council on Faith-Based and Neighborhood Partnerships. I suoi membri, 25, arrivano da tutte le comunità religiose degli Stati Uniti e lavoreranno al dialogo interreligioso. «Al presidente spiegherò che gli islamici non sono soltanto alla fonte del terrorismo, ma sono anche le sue principali vittime», ha detto lei. Mogahed, nata in Egitto e cresciuta in America, è presidente del Gallup Center for Muslim Studies, istituto di ricerca che fornisce numeri e sondaggi sull’opinione pubblica musulmana. Sulle sue analisi ha scritto un libro pieno di dati («Who Speaks on Behalf of Islam? What a Billion Muslims Really Think», con John Esposito, professore universitario accusato da alcuni d’essere apologeta del radicalismo islamico). La nomina ha suscitato già controversie online. Mogahed pensa infatti sia possibile la strada del dialogo con il gruppo islamista dei Fratelli musulmani, movimento cardine dell’islamismo mondiale. Dall’ideologia della Fratellanza, nata nel 1928 in Egitto e oggi fuorilegge al Cairo, sono nati gruppi terroristici come al Gamaa al Islamiya e Hamas, sulla lista nera di Washington e Bruxelles. «Gli Stati Uniti devono considerare quando e come parlare con movimenti politici che hanno un sostegno pubblico sostanziale e hanno rinunciato alla violenza». «I Fratelli musulmani potrebbero essere in questa categoria», è scritto in un rapporto, «Changing Course», del The Project on U.S. Engagement with the Muslim World, di cui Mogahed fa parte. Assieme, tra gli altri, a Madeleine Albright, ex segretario di Stato americano.
Quale sarà il suo primo consiglio al presidente Obama? «Gli dirò che il terrorismo è un nemico comune. Non è soltanto qualcosa che ha origine nel mondo musulmano, ma anche qualcosa di cui il mondo musulmano è vittima. Gli estremisti sono una piccola minoranza».
Per molti, la maggioranza moderata islamica non avrebbe fatto abbastanza per denunciare gli atti di terrorismo della minoranza. «La premessa che non ci siano state critiche non è reale. Quello che abbiamo trovato lavorando sui dati è che la maggior parte dei musulmani in diversi Paesi dice no alle violenze e alla domanda: “Cosa fanno i musulmani per migliorare le relazioni con l’Occidente?”, molti hanno risposto: “Cercano di controllare l’estremismo”. Quando agli abitanti di Pakistan, Marocco, Algeria chiedi: “Di cosa hai maggiormente paura?”, la riposta è: “Di essere vittima di un attacco terroristico”. I musulmani sono le principali vittime del terrorismo islamico e di conseguenza sono i più spaventati dal terrorismo islamico».
Qual è la sua opinione sul dialogo con gruppi come Hamas, Hezbollah? E con i Fratelli musulmani? «I nostri dati mostrano che molti musulmani non credono che il mio Paese sia serio quando parla di sostenere la democrazia nella loro parte di mondo. Per affrontare la questione, una commissione di cui ho fatto parte, in un rapporto, «Changing Course», ha consigliato al governo americano di parlare con qualsiasi gruppo sia pronto a rispettare pacificamente le norme del processo democratico».
Hamas e Hezbollah sono gruppi armati... «Ci sono condizioni da rispettare. Non c’è dialogo senza la rinuncia alla violenza. Nel caso di Hamas il rispetto delle richieste del Quartetto - Stati Uniti, Unione europea, Russia e Onu - (rinuncia alla violenza, smantellamento degli apparati terroristici e riconoscimento d’Israele, ndr)».
E i Fratelli musulmani? «Sarebbe possibile un approccio, per via della rinuncia alla violenza».
Cambierà la percezione degli Stati Uniti nel mondo arabo-musulmano con Obama? «Se ci saranno miglioramenti è perché non sta delegando ad altri la questione. Ma è troppo presto per dire se ci saranno o no; forse c’è un leggero cambiamento nella natura della conversazione all’interno dello spazio pubblico islamico: non ci si chiede più se l’America sia o no in guerra con una fede, l’islam. Ora il discorso è più focalizzato sulla politica. Si tratta di un cambiamento importante».
E prima, con la precedente amministrazione? «L’Amministrazione Bush aveva già iniziato a focalizzare la questione sulla politica e non sullo scontro tra religioni. Sono stati fatti errori all’inizio, nell’uso delle parole, non dal presidente ma da alcuni membri del partito».
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