A volte succede che un semplice gesto sia capace di portare alla luce in tutta la sua flagranza questioni cruciali che in tante discussioni teoriche non cessano di apparire farraginose e astratte. È il caso della decisione — illuminata, buonista, regressiva, ipocrita? — presa dai gestori della piscina Siloe, di proprietà della Diocesi di Bergamo. I quali hanno stabilito che per un'ora, ogni giovedì mattina, gli spazi delle loro strutture simil-balneari verranno riservati alle donne islamiche, per permettere loro di stare al riparo dagli occhi maschili, come detta il Corano. Decisione che, è facile intuirlo, contiene in sé ogni sorta di ambivalenza: un segno di democrazia e tolleranza o, viceversa, il primo sintomo di complicità verso la ghettizzazione? Mai rischio di cerchiobottismo fu più comprensibile. Sì, ma. No, però. Fatto sta che, piaccia o non piaccia, dopo anni di battaglia, una mediatrice culturale tenace come Maida Ziarati, iraniana approdata in Italia 17 anni fa dopo aver conseguito una laurea a Londra, ha compiuto un passo importante verso quello che definisce un progetto di integrazione. D'ora in poi un gruppo di musulmane tunisine, marocchine, iraniane, egiziane e anche italiane potrà lasciare a casa eventuali burqini, ma soprattutto abbandonare i vestiti tradizionali, burqa e velo compresi, calzare una banale cuffia e nuotare in deshabillé nelle compiacenti acque orobiche messe del centro «Scala di Giacobbe». Che a pensarci bene sin dal nome rappresenta una forma di involontario ecumenismo, accostando uno dei Padri dell'Ebraismo all'oggetto sacro dall'alto del quale Maometto una notte ebbe dagli angeli guardiani la prima rivelazione dell'Aldilà, episodio che diede luogo nel Medioevo al famoso Libro della Scala. «All'inizio — dice trionfante Maida Ziaradi — alcune erano titubanti e timorose, qualcuna non aveva mai nuotato prima, altre hanno fatto un notevole sforzo mettendosi a gambe nude, qualcuna aveva addirittura il terrore dell'acqua e ora non si perde una sola lezione». Se le cose stanno così, è sicuramente una saggia decisione, quella di affidarsi a una maestra di nuoto. La vera preoccupazione delle natanti però — a sentire la signora Ziaradi — sulle prime non era tanto quella di riuscire a stare a galla, ma aveva ragioni ben più radicate: e coincideva con il vero e proprio terrore che ci fossero nei paraggi telecamere di sorveglianza. E varrà la pena notare che, giusto per una coincidenza che potrà far discutere a piacere i fautori come i detrattori della «Siloe», proprio in questi giorni in Arabia le autorità politiche hanno indetto una crociata contro le palestre femminili private, considerate offensive per il comune senso del pudore islamico. Le voci dei fautori e dei detrattori che vedono solo il nero o il bianco si sentono già rimbombare nell'aria. «Così si torna indietro, questo non è certo un modo per integrare, non dobbiamo legittimare le loro usanze ma fare in modo che accolgano le nostre», ha sentenziato Daniele Belotti, consigliere regionale e comunale per la Lega Nord. Altri potrebbero obiettare che in fondo sessanta minuti alla settimana non è una gran concessione. Ma significherebbe ridurre tutto a una faccenda di contabilità. Mentre la questione (ben lungi dall'essere una questione di costume nel senso proprio) ha ben altri contorni, che vanno a incrociare concetti molto dibattuti, negli ultimi anni, da filosofi, da antropologi e da schiere di politici dei vari fronti. Concetti che hanno suffissi ben noti in -zione, -ismo, -anza e simili: multiculturalismo, pluralismo, integrazione, tolleranza, mescolanza, convivenza, accoglienza, nelle loro più sottili declinazioni, dalla più ingenua e benevola alla più cinica. Ma qui si ricade all'ambivalenza iniziale, che si traduce in mille possibili domande destinate, forse, a non perdere mai il punto interrogativo. Da una parte: chi può privare gli altri delle proprie abitudini, quando queste non vanno a intaccare serie ragioni di moralità? Piuttosto che attraverso i divieti, non è meglio puntare su un'assimilazione lenta e paziente? Dall'altra: è realizzabile un'integrazione che prescinda dalla mescolanza? Seguendo il modello «Siloe» non si rischia per caso di costruire una società ghettizzata e blindata senza ritorno, dove gli ospiti, fingendo di accogliere le esigenze dell'altro, in realtà si mettono al sicuro nei loro bunker etnici? O forse ha ragione Tzvetan Todorov quando ricorda che la salvezza degli europei è sempre stata la capacità di capire, di essere mutevoli ed elastici?
(ha collaborato Diana Campini) Paolo Di Stefano
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