martedì 22 marzo 2011
E chi la pensa diversamente...
Siamo proprio sicuri che la guerra convenga? di Daniel Pipes
L'inno ufficiale dei Marines americani inizia con le celebri parole «Dai saloni di Montezuma alle spiagge di Tripoli; combattiamo le patrie guerre, in terra, mare e ciel». Il riferimento a Tripoli allude alla battaglia di Derna del 1805, il primo combattimento oltreoceano delle truppe Usa e una decisiva vittoria americana. I recenti combattimenti in Libia inducono a una domanda: si dovrebbe di nuovo inviare i Marines sulle coste di Tripoli, questa volta non per proteggere le acque extraterritoriali, ma i rivoltosi libici insorti contro il loro governo e che chiedono aiuto visto che sono mitragliati a bassa quota dalle truppe fedeli a Muammar Gheddafi? Il mio primo istinto è quello di accettare di buon grado una no-fly zone, migliorando così i vantaggi per l'opposizione sul campo. Vari fattori incoraggiano questo istinto: la facile accessibilità della Libia dalle basi aeree americane e della Nato, la configurazione geografica pianeggiante e che presenta una rada vegetazione, la condanna semiuniversale delle azioni di Gheddafi, l'assoluta impellenza di rifornire di petrolio libico il mercato delle esportazioni e la probabilità che un simile intervento porrà fine al triste governo di un personaggio bizzarro e ripugnante che dura da 42 anni. Ma l'istinto non porta a una sana politica. Un atto di guerra richiede un contesto, delle linee guida e della coerenza. Per quanto facile l'operazione possa sembrare, Gheddafi potrebbe avere delle riserve di potere inaspettate che lo porterebbero a uno scontro lungo e complesso.
Se il Colonnello sopravvivesse, per esempio, potrebbe diventare più virulento. Per quanto ripugnante egli possa essere, i suoi avversari (gli islamisti?) potrebbero essere ancor più pericolosi anche per gli interessi americani. Più in generale, se ci si intromette in un conflitto interno si potrebbe avere più nemici che amici e inoltre, così facendo si alimenterebbero le teorie del complotto anti-americano. Inoltre, la potenza aerea libica non si è ancora dimostrata decisiva (il suo impatto è stato soprattutto psicologico) e non potrebbe essere determinante nel far sì che Gheddafi rimanga al potere. Imporre una no-fly-zone in Libia costituisce un precedente rispetto a situazioni dove le circostanze sono meno favorevoli (ad esempio la Corea del Nord). E chi seguirà l'esempio di Gheddafi e rinuncerà a produrre armi nucleari, se ciò facilita la perdita del proprio potere? Dietro il dibattito sulla Libia incombe lo spettro dell'Iraq e della "Freedom Agenda" di George W. Bush. I partigiani di Bush vedono la situazione come il momento della rivincita, mentre gli scettici si preoccupano delle conseguenze non volute. Se Barack Obama utilizzasse la forza in Libia, equivarrebbe a un'ammissione di errore per aver criticato aspramente le politiche di Bush in fatto di Medio Oriente. Sarebbe anche come dar seguito all'Iraq e all'Afghanistan impegnare le truppe americane a combattere le forze di un altro Paese a maggioranza musulmana, un impegno che Obama con la sua enfasi sul "rispetto reciproco" con i musulmani, deve essere restio ad assumersi.
Altrettanto fondamentale è l'imperativo di mettere le truppe americane in condizione di non subire danno né di combinare guai in nome di obiettivi umanitari per altri popoli: l'assistenza sociale non può essere lo scopo del governo Usa, piuttosto, le truppe devono sempre promuovere gli specifici interessi nazionali americani. Il fatto che l'esercito Usa, nella persona del Segretario alla Difesa Robert Gates, eviti di assumersi questo compito, sottolineando i suoi costi e i pericoli ("una grande operazione in un grande Paese"), è una proficua precauzione, soprattutto in considerazione degli errori dell'intelligence americana. Ma il fatto che i libici comincino a rivolgere l'attenzione agli islamisti per la leadership potrebbe trasformare la Libia in un'altra Somalia. L'arsenale americano permette a un presidente di ignorare gli altri Paesi e di sfruttarlo in modo unilaterale: ma è saggio farlo? I precedenti iracheni (1991, 2003) stanno a indicare che politicamente vale la pena incomodarsi ad ottenere l'appoggio di organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite, la Nato, la Lega araba, l'Unione africana o perfino l'Organizzazione della Conferenza islamica. Come osserva Jeffrey White del Washington Institute for Near East Policy, anche se una no-fly-zone è ciò che vuole l'opposizione, questa è solo una delle tante opzioni di cui Washington dispone. Tra le altre possibilità – dalla meno ambiziosa alla più pretenziosa – spiccano: fornire alle forze di opposizione appoggi logistici, aiuti di intelligence, hardware di comunicazione, addestramento e inviare loro armi; aiutarle a difendere le zone liberate; rendere inutilizzabili i campi d'aviazione libici; oppure combattere attivamente le forze del regime. Tenendo conto di queste riflessioni, che consiglio dare all'amministrazione Obama? Soccorrere l'opposizione libica offrendogli aiuto e, se necessario, intensificare questi aiuti. In Libia i motivi umanitari, politici ed economici convergono superando delle legittime esitazioni. Lavorando con l'avallo internazionale, il governo Usa dovrebbe svolgere il suo consueto ruolo di leadership e aiutare l'opposizione libica. Per quanto possa essere rischiosa questa linea di condotta, non fare nulla è ancor più pericoloso.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
1 commenti:
L'attuale amministrazione americana è in stato confusionale che la dice lunga sulla sua impreparazione e improvvisazione.
Posta un commento