Il buco nero della Somalia, in guerra da quasi vent'anni, inghiotte il 50% degli aiuti del Programma alimentare mondiale, agenzia dell'Onu con sede a Roma. Una gigantesca cresta equivalente a oltre 200 milioni di dollari che va ad ingrassare uomini d'affari senza scrupoli, personale delle Nazioni Unite e bande armate, compresi i talebani somali. In pratica solo la metà degli aiuti arriva agli affamati o ai civili bisognosi travolti dal conflitto, almeno 2 milioni di somali. Il resto viene trattenuto, come pedaggio, o venduto illegalmente per arricchire signorotti del business locale o comprare armi per i miliziani. L'ironia della sorte è che la flotta navale europea anti bucanieri, comandata fino ad aprile dal controammiraglio italiano Giovanni Gumiero, scorta le navi mercantili con gli aiuti dell'Onu al largo della Somalia per evitare gli abbordaggi dei corsari. Una volta sbarcate a terra, però, comincia la razzia che dimezza gli sforzi delle Nazioni Unite. L'impietosa denuncia arriva da un rapporto dell'Onu, al momento secretato, che verrà presentato al Consiglio di Sicurezza martedì prossimo. Le conclusioni invitano il segretario generale delle Nazioni Unite ad aprire un'inchiesta sulle operazioni in Somalia del Programma alimentare mondiale. Il New York Times ha anticipato stralci del rapporto che riporta la divisione della torta. Il 30% degli aiuti viene spartito fra partner locali e personale sul posto del Programma alimentare mondiale. Il 10% finisce nelle mani dei trasportatori degli aiuti. Gli investigatori dell'Onu calcolano che un rimanente 5-10% si trasformi in «pedaggio» per i gruppi armati che controllano l'area. Solo il 50% del cibo e altri generi di prima necessità raggiunge effettivamente la popolazione. Il resto viene venduto illegalmente o barattato. I principali responsabili della colossale frode umanitaria sono gli stessi personaggi che le agenzie umanitarie assoldano come contractor. Nel rapporto si legge che «un pugno di contractor somali ha formato un cartello dando vita a importanti figure di potere» grazie all'affare della distribuzione degli aiuti. «Alcuni utilizzano i profitti o gli stessi aiuti per armare gruppi di oppositori», come gli al Shebaab, i talebani somali, che si ispirano ad Al Qaida. Il rapporto fa anche dei nomi, primo fra tutti quello di Abdulkadir M. Nur, conosciuto con il soprannome di Eno. Sua moglie ricopre un ruolo chiave nella distribuzione in Somalia degli aiuti attraverso agenzie locali. Eno giura che non è vero nulla. Lo scorso settembre è stato difeso dallo stesso Sharif sheik Ahmed, il presidente del governo transitorio somalo, con tanto di accorata lettera inviata al segretario generale dell'Onu. Lo scorso gennaio gli Stati Uniti hanno bloccato decine di milioni di dollari di aiuti destinati alla Somalia meridionale per timore che finissero nelle mani degli Shebaab o nelle tasche dei profittatori. Una seconda parte del rapporto denuncia le collusioni delle autorità regionali del Puntland, una regione semi autonoma, del disgraziato paese del Corno d'Africa, con i pirati che infestano le coste somale. Non solo: funzionari e ministri del governo transitorio venderebbero i visti per l'Europa, ottenuti attraverso canali diplomatici, perché a Mogadiscio non funziona una sola ambasciata. La tariffa varia dai 10mila ai 15mila dollari e i beneficiari, in alcuni casi, sono gli stessi bucanieri o signori della guerra. Le autorità del Puntland replicano sostenendo di aver incarcerato 150 pirati lo scorso anno. Il governo transitorio minimizza sostenendo che lo scandalo dei visti riguarda solo un paio di persone. Un'altra forma di cresta sugli aiuti umanitari è la tariffa che bisogna pagare ai gruppi armati locali per venir scortati e sperare in un minimo di sicurezza. I talebani somali avevano ufficialmente imposto al Programma alimentare mondiale una gabella di 40mila dollari l'anno per la scorta nelle loro zone. Poi, però, non si accontentavano e hanno emesso un editto in dieci punti che l'agenzia dell'Onu avrebbe dovuto rispettare. Fra questi la proibizione a personale femminile di lavorare con gli aiuti, in stile mullah Omar. Le donne possono venir impiegate solo in ospedali o ambulatori. Gli Shebaab hanno pure accusato le organizzazioni umanitarie di favorire con gli aiuti gli «apostati», per un oscuro piano di conversione al cristianesimo. Inoltre si sono inventati che la produzione locale basta per sfamare la gente. In seguito all'ultimatum dei talebani, sui loro dieci comandamenti per gli interventi umanitari, l'Onu ha sospeso la distribuzione nelle zone più a rischio, come il sud del Paese. Si calcola che 360mila somali sono rimasti senza aiuti ma potrebbero arrivare ben presto a 1 milione.
venerdì 12 marzo 2010
Onu
Somalia, la grande truffa. Aiuti alimentari Onu nelle tasche dei miliziani di Fausto Biloslavo
Il buco nero della Somalia, in guerra da quasi vent'anni, inghiotte il 50% degli aiuti del Programma alimentare mondiale, agenzia dell'Onu con sede a Roma. Una gigantesca cresta equivalente a oltre 200 milioni di dollari che va ad ingrassare uomini d'affari senza scrupoli, personale delle Nazioni Unite e bande armate, compresi i talebani somali. In pratica solo la metà degli aiuti arriva agli affamati o ai civili bisognosi travolti dal conflitto, almeno 2 milioni di somali. Il resto viene trattenuto, come pedaggio, o venduto illegalmente per arricchire signorotti del business locale o comprare armi per i miliziani. L'ironia della sorte è che la flotta navale europea anti bucanieri, comandata fino ad aprile dal controammiraglio italiano Giovanni Gumiero, scorta le navi mercantili con gli aiuti dell'Onu al largo della Somalia per evitare gli abbordaggi dei corsari. Una volta sbarcate a terra, però, comincia la razzia che dimezza gli sforzi delle Nazioni Unite. L'impietosa denuncia arriva da un rapporto dell'Onu, al momento secretato, che verrà presentato al Consiglio di Sicurezza martedì prossimo. Le conclusioni invitano il segretario generale delle Nazioni Unite ad aprire un'inchiesta sulle operazioni in Somalia del Programma alimentare mondiale. Il New York Times ha anticipato stralci del rapporto che riporta la divisione della torta. Il 30% degli aiuti viene spartito fra partner locali e personale sul posto del Programma alimentare mondiale. Il 10% finisce nelle mani dei trasportatori degli aiuti. Gli investigatori dell'Onu calcolano che un rimanente 5-10% si trasformi in «pedaggio» per i gruppi armati che controllano l'area. Solo il 50% del cibo e altri generi di prima necessità raggiunge effettivamente la popolazione. Il resto viene venduto illegalmente o barattato. I principali responsabili della colossale frode umanitaria sono gli stessi personaggi che le agenzie umanitarie assoldano come contractor. Nel rapporto si legge che «un pugno di contractor somali ha formato un cartello dando vita a importanti figure di potere» grazie all'affare della distribuzione degli aiuti. «Alcuni utilizzano i profitti o gli stessi aiuti per armare gruppi di oppositori», come gli al Shebaab, i talebani somali, che si ispirano ad Al Qaida. Il rapporto fa anche dei nomi, primo fra tutti quello di Abdulkadir M. Nur, conosciuto con il soprannome di Eno. Sua moglie ricopre un ruolo chiave nella distribuzione in Somalia degli aiuti attraverso agenzie locali. Eno giura che non è vero nulla. Lo scorso settembre è stato difeso dallo stesso Sharif sheik Ahmed, il presidente del governo transitorio somalo, con tanto di accorata lettera inviata al segretario generale dell'Onu. Lo scorso gennaio gli Stati Uniti hanno bloccato decine di milioni di dollari di aiuti destinati alla Somalia meridionale per timore che finissero nelle mani degli Shebaab o nelle tasche dei profittatori. Una seconda parte del rapporto denuncia le collusioni delle autorità regionali del Puntland, una regione semi autonoma, del disgraziato paese del Corno d'Africa, con i pirati che infestano le coste somale. Non solo: funzionari e ministri del governo transitorio venderebbero i visti per l'Europa, ottenuti attraverso canali diplomatici, perché a Mogadiscio non funziona una sola ambasciata. La tariffa varia dai 10mila ai 15mila dollari e i beneficiari, in alcuni casi, sono gli stessi bucanieri o signori della guerra. Le autorità del Puntland replicano sostenendo di aver incarcerato 150 pirati lo scorso anno. Il governo transitorio minimizza sostenendo che lo scandalo dei visti riguarda solo un paio di persone. Un'altra forma di cresta sugli aiuti umanitari è la tariffa che bisogna pagare ai gruppi armati locali per venir scortati e sperare in un minimo di sicurezza. I talebani somali avevano ufficialmente imposto al Programma alimentare mondiale una gabella di 40mila dollari l'anno per la scorta nelle loro zone. Poi, però, non si accontentavano e hanno emesso un editto in dieci punti che l'agenzia dell'Onu avrebbe dovuto rispettare. Fra questi la proibizione a personale femminile di lavorare con gli aiuti, in stile mullah Omar. Le donne possono venir impiegate solo in ospedali o ambulatori. Gli Shebaab hanno pure accusato le organizzazioni umanitarie di favorire con gli aiuti gli «apostati», per un oscuro piano di conversione al cristianesimo. Inoltre si sono inventati che la produzione locale basta per sfamare la gente. In seguito all'ultimatum dei talebani, sui loro dieci comandamenti per gli interventi umanitari, l'Onu ha sospeso la distribuzione nelle zone più a rischio, come il sud del Paese. Si calcola che 360mila somali sono rimasti senza aiuti ma potrebbero arrivare ben presto a 1 milione.
Il buco nero della Somalia, in guerra da quasi vent'anni, inghiotte il 50% degli aiuti del Programma alimentare mondiale, agenzia dell'Onu con sede a Roma. Una gigantesca cresta equivalente a oltre 200 milioni di dollari che va ad ingrassare uomini d'affari senza scrupoli, personale delle Nazioni Unite e bande armate, compresi i talebani somali. In pratica solo la metà degli aiuti arriva agli affamati o ai civili bisognosi travolti dal conflitto, almeno 2 milioni di somali. Il resto viene trattenuto, come pedaggio, o venduto illegalmente per arricchire signorotti del business locale o comprare armi per i miliziani. L'ironia della sorte è che la flotta navale europea anti bucanieri, comandata fino ad aprile dal controammiraglio italiano Giovanni Gumiero, scorta le navi mercantili con gli aiuti dell'Onu al largo della Somalia per evitare gli abbordaggi dei corsari. Una volta sbarcate a terra, però, comincia la razzia che dimezza gli sforzi delle Nazioni Unite. L'impietosa denuncia arriva da un rapporto dell'Onu, al momento secretato, che verrà presentato al Consiglio di Sicurezza martedì prossimo. Le conclusioni invitano il segretario generale delle Nazioni Unite ad aprire un'inchiesta sulle operazioni in Somalia del Programma alimentare mondiale. Il New York Times ha anticipato stralci del rapporto che riporta la divisione della torta. Il 30% degli aiuti viene spartito fra partner locali e personale sul posto del Programma alimentare mondiale. Il 10% finisce nelle mani dei trasportatori degli aiuti. Gli investigatori dell'Onu calcolano che un rimanente 5-10% si trasformi in «pedaggio» per i gruppi armati che controllano l'area. Solo il 50% del cibo e altri generi di prima necessità raggiunge effettivamente la popolazione. Il resto viene venduto illegalmente o barattato. I principali responsabili della colossale frode umanitaria sono gli stessi personaggi che le agenzie umanitarie assoldano come contractor. Nel rapporto si legge che «un pugno di contractor somali ha formato un cartello dando vita a importanti figure di potere» grazie all'affare della distribuzione degli aiuti. «Alcuni utilizzano i profitti o gli stessi aiuti per armare gruppi di oppositori», come gli al Shebaab, i talebani somali, che si ispirano ad Al Qaida. Il rapporto fa anche dei nomi, primo fra tutti quello di Abdulkadir M. Nur, conosciuto con il soprannome di Eno. Sua moglie ricopre un ruolo chiave nella distribuzione in Somalia degli aiuti attraverso agenzie locali. Eno giura che non è vero nulla. Lo scorso settembre è stato difeso dallo stesso Sharif sheik Ahmed, il presidente del governo transitorio somalo, con tanto di accorata lettera inviata al segretario generale dell'Onu. Lo scorso gennaio gli Stati Uniti hanno bloccato decine di milioni di dollari di aiuti destinati alla Somalia meridionale per timore che finissero nelle mani degli Shebaab o nelle tasche dei profittatori. Una seconda parte del rapporto denuncia le collusioni delle autorità regionali del Puntland, una regione semi autonoma, del disgraziato paese del Corno d'Africa, con i pirati che infestano le coste somale. Non solo: funzionari e ministri del governo transitorio venderebbero i visti per l'Europa, ottenuti attraverso canali diplomatici, perché a Mogadiscio non funziona una sola ambasciata. La tariffa varia dai 10mila ai 15mila dollari e i beneficiari, in alcuni casi, sono gli stessi bucanieri o signori della guerra. Le autorità del Puntland replicano sostenendo di aver incarcerato 150 pirati lo scorso anno. Il governo transitorio minimizza sostenendo che lo scandalo dei visti riguarda solo un paio di persone. Un'altra forma di cresta sugli aiuti umanitari è la tariffa che bisogna pagare ai gruppi armati locali per venir scortati e sperare in un minimo di sicurezza. I talebani somali avevano ufficialmente imposto al Programma alimentare mondiale una gabella di 40mila dollari l'anno per la scorta nelle loro zone. Poi, però, non si accontentavano e hanno emesso un editto in dieci punti che l'agenzia dell'Onu avrebbe dovuto rispettare. Fra questi la proibizione a personale femminile di lavorare con gli aiuti, in stile mullah Omar. Le donne possono venir impiegate solo in ospedali o ambulatori. Gli Shebaab hanno pure accusato le organizzazioni umanitarie di favorire con gli aiuti gli «apostati», per un oscuro piano di conversione al cristianesimo. Inoltre si sono inventati che la produzione locale basta per sfamare la gente. In seguito all'ultimatum dei talebani, sui loro dieci comandamenti per gli interventi umanitari, l'Onu ha sospeso la distribuzione nelle zone più a rischio, come il sud del Paese. Si calcola che 360mila somali sono rimasti senza aiuti ma potrebbero arrivare ben presto a 1 milione.
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