domenica 28 marzo 2010

Amnesty international

"Da pol Pot a Jenin, la bancarotta morale quotidiana di Amnesty" di Giulio Meotti

Roma. Nei suoi gloriosi cinquant’anni di attività, Amnesty International ha raccolto tante lodi e riconoscimenti, oltre a un premio Nobel per la Pace. Eppure la paladina dell’umanitarismo, che dice di battersi per la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, non è al di sopra di ogni sospetto. Giorni fa persino lo scrittore Salman Rushdie, esponente della stessa cultura liberal a cui Amnesty si richiama, ha accusato l’organizzazione di “bancarotta morale”. Perché Amnesty ha utilizzato come testimonial Moazzam Begg, ex prigioniero di Guantanamo e sostenitore dei talebani e di al Qaida. Un declino non da poco per l’organizzazione che all’inizio si è battuta per eroi della libertà come Vaclav Havel e Andrei Sakharov. Due vittime del Gulag sovietico accostate proprio a Guantanamo, “il Gulag dei nostri tempi” secondo l’infelice definizione di Irene Khan, segretario generale di Amnesty. Come se si potesse paragonare il carcere per terroristi all’inferno sovietico dove sono morti milioni fra sacerdoti, dissidenti, kulaki e gente comune. Una storica ambasciatrice americana all’Onu come Jeanne Kirkpatrick ha definito “ipocrita” Amnesty per i suoi colpevoli silenzi su tragedie politiche del Novecento che non hanno scaldato i cuori umanitaristi, come quelle in Angola e Nicaragua e come il genocidio cambogiano di Pol Pot. E quando in Etiopia e in Sudan migliaia di persone morivano per fame e tortura, Amnesty aveva come principale ossessione l’abolizione della pena di morte negli Stati Uniti. Non governativa e basata sul volontariato, Amnesty è stata un pilastro dell’opposizione all’Amministrazione Bush, di cui ha osteggiato in numerose sedi la “guerra al terrore”, perché “lungi dal trasformare il mondo in un posto più sicuro lo ha reso più pericoloso”. Senza contare che Amnesty contribuì alla campagna del democratico John Kerry. Non è esattamente questa l’imparzialità che per statuto Amnesty si impone. L’organizzazione ha chiesto all’Amministrazione Obama di “sospendere immediatamente gli aiuti militari a Israele”. Ma non ha trovato il tempo di chiedere, en passant, anche un embargo delle armi verso Hamas: è incapace di distinguere fra Israele e i suoi aggressori, fra una democrazia quantunque imperfetta e un movimento terrorista che inculca nei propri figli l’amore per la morte. Anche il settimanale britannico Economist ha accusato Amnesty di “riservare più pagine agli abusi dei diritti umani in Gran Bretagna e Stati Uniti di quanti non ne dedichi a Bielorussia e Arabia Saudita”. Nel 2002, quando le forze di difesa israeliane, dopo due anni di attentati suicidi, andarono a stanare i terroristi dentro i Territori palestinesi, l’accusa – poi rivelatasi completamente falsa – che avessero compiuto un “massacro” a Jenin fu alimentata proprio da Amnesty, col risultato di scatenare giornali e tv in tutto il mondo. In Inghilterra l’ufficio di Amnesty ha sposato le tesi più estremiste dell’antisionismo. Amnesty non è soltanto pregiudizio politico. E’ anche ideologia antinatalista. Ha infatti elevato l’aborto a “diritto umano”. Nessuna lobby abortista era mai arrivata a tanto. Amnesty sostiene la diffusione dell’aborto procurato nel mondo, soprattutto nel Terzo mondo. Non a caso è stata ribattezzata “Abortion International”. Sono lontani i tempi in cui il fondatore Peter Benenson faceva conoscere al mondo la storia del tunisino Maurice Audin, ucciso in Algeria dai paracadutisti francesi, o della moglie di Pasternak, Olga Ivinskaya, a cui Mosca rese la vita impossibile. Oggi la candela nel filo spinato di Amnesty, più che l’icona dei diritti umani, è il marchio di una visione selettiva della storia per cui ci sono molti torti, ma alcuni sono più torti di altri.

1 commenti:

Massimo ha detto...

In realtà non ho mai stimato Amnesty International, proprio per il suo strabismo (che non è certo quello di Venere ... ).