È l’otto marzo, ed è molto triste ma significativo che l’Europa lo debba festeggiare con l’oltraggiosa riflessione sul burqa che, nella ricorrenza, Thomas Hammarberg ha presentato sul giornale più liberal d’Inghilterra, il Guardian, il solito che sostiene soprattutto i diritti degli estremisti e dei terroristi. Di Hammarberg ho un recente ricordo personale: una visita nella sua stanza della delegazione italiana al Consiglio d’Europa in cui gli furono porte forti rimostranze per una sua visita in incognito sul nostro terreno nazionale ai campi rom e per le sue aggressive conclusioni consegnate direttamente a Repubblica in un’intervista invece di elaborarle e discuterle, come si usa, in sede politica prima di pubblicizzarle. Fu gelido e formale, ceruleo, corretto e scostante quanto si può immaginare possa un tipo come lui con l’Italia d’oggi, anche se la delegazione era bipartisan; ricordo di essere rimasta ipnotizzata per alcuni secondi dai suoi piedi, infilati, forse per dimostrare un fiero rifiuto del cuoio, invece che nelle scarpe, in pantofole di stoffa. Il suo commento adesso potrebbe essere che ho violato, parlando dei suoi piedi, la sua privacy, perché è quella che sembra stargli molto a cuore quando ne parla come uno dei principali diritti umani violati se si proibisse alle donne musulmane di indossare il burqa. Sì, per lui proibire il burqa è una invasione della privacy, e, certo, di quale privacy: quella che proibisce, fa oggetto di vergogna tutto quanto il corpo della donna, dall’espressione facciale alle scarpe. Dunque, per Hammarberg proibirlo, come stanno facendo vari Stati europei, sarebbe incompatibile con la Convenzione europea dei diritti umani, e ciò gli risulta ben più insopportabile che non vedere un essere umano vilificato e annullato, e anche tormentato fisicamente quanto può esserlo una donna col burqa. Sarebbe stato bello se prima di parlare Hammerberg avesse letto il passaggio di «Mille splendidi soli» in cui Khaled Hosseini racconta: «Mariam non aveva mai indossato il burqa, Rashid dovette aiutarla... il pesante copricapo imbottito le stringeva la testa. Era strano vedere il mondo attraverso una grata. Si esercitò a camminare ma incespiscava continuamente nell’orlo. La innervosiva non poter vedere di lato ed era sgradevole sentirsi soffocare dal tessuto che le copriva la bocca...». Insomma, come si capisce qui, tanti diritti umani vengono violati dal burqa, fra cui quello essenziale alla libertà di movimento, quello alla salute (il pesante tessuto tutto appoggiato e stretto sulla testa crea gravissimi disturbi, confusione mentale, disturbi all’udito), e infine viola quello che per noi è il primo dei diritti, ovvero essere se stesse, e non un sacco di stoffa senza volto. Hammarberg dice che la proibizione metterebbe a rischio l’identità personale. Ma di quale identità parla, dato che essa, celata nel burqa, viene cancellata? Dove è la donna dentro il burqa? Chi mi garantisce che essa è ancora là, intera nella sua personalità, nei suoi sentimenti, col suo sguardo e i suoi gesti? Chi? Il maschio che l’accompagna e la sorveglia per strada o dentro il ristorante? È altrettanto crudele quanto lo era per i colonialisti che praticavano la schiavitù pensando che fosse un diritto dell’uomo bianco il ritenere che le nostre formalistiche teorie dei diritti umani giustifichino il tormento delle donne imprigionate nel burqa. Lo sceicco Mohammed Tantawi, imam dell’Egitto, autorità sunnita eminente, visitando una scuola del Cairo ha chiesto a una ragazza col velo di toglierselo e le disse «Il niqab è una tradizione, non c’è nesso con la religione». L’imam ha dunque istruito la ragazza a non indossare mai più il velo e ha promesso una fatwa contro il suo uso nelle scuole. Ha anche concesso l’uso del fazzoletto legato sotto il mento, il hijab. Ma il burqa... il suo uso è sempre stato messo in discussione dall’islam moderato come una acquisizione recente del più estremo islamismo. Quando si presenta in Europa, è un manifesto di aggressività, un’azione affermativa in cui la donna, suo malgrado, diventa lo show familiare o di clan. Fadela Amara, un’attivista dei diritti delle donne musulmane e ora ministro in Francia, dice che fermare il burqa significa anche fermare il diffondersi del «cancro dell’islam radicale che distorce completamente il messaggio islamico». E qui viene il punto della sicurezza evocato dal Commissario per i Diritti Umani. Phyllis Chesler spiega: «Seguite il burqa: dove lo troverete, probabilmente vi è abituale violenza contro le donne, abuso di bambini, delitto d’onore, poligamia, odio patologico per gli ebrei, gli indu, gli americani e vari altri infedeli. Vi si possono trovare anche cellule terroriste e sostenitori del terrore. Dunque, se si bandisce il burqa questo può ricondurre a casa loro, dove il terrorismo è accettato, gruppi estremisti». Il burqa è anche un comodo mezzo per nascondere qualsiasi cosa negli aeroporti o in altri luogi pubblici, ed è accaduto più volte. Tutte le argomentazioni di Hammarberg, svedese, di fatto contengono un gelido distacco alla propria identità, una deriva da se stessi, la perdita dell’affezione alla libertà della donna, così nostra, conquistata con tante faticose lotte in Europa. Vedere la libertà come il diritto di infilarsi in un sacco che nega l’esistenza femminile, è come accettare la crescita di delitti d’onore. È come accettare il reingresso surrettizio della poligamia (a Parigi 400mila persone vivono in famiglie poligamiche), è come restare silenti di fronte alla crescita delle corti islamiche a Londra... Non è un argomento serio che sia preferibile evitare imposizioni perché altrimenti le donne in burqa non potranno più circolare: meglio dieci donne musulmane in più libere per strada e in ufficio, che una sofferente e avvolta nel burqa, normativa e assertiva verso le altre donne. La necessità familiare la costringerà prima o poi a uscire senza burqa. Ed è anche irrilevante l’idea che qualcuno possa sospettare chi vieta il burqa di islamofobia come dice Hammarberg. Le parole magiche non sono mai esistite, esiste la verità: il burqa fa male a chi lo indossa, fa male all’islam, fa malissimo a chi lo accetta passivamente, tanto più in nome dei diritti umani.
"Il velo islamico ci cancellerà" di Souad Sbai
La donna, secondo gli estremisti radicali, è una creatura sostanzialmente “impura”, il suo corpo è impuro, perfino la sua mente è incompleta. Da tali pregiudizi scaturisce la necessità di marchiare la sua diversità e sottometterla al potere maschile. E qui torna la questione del velo. D’altra parte, il ritorno di fiamma del velo è parte di una complessa strategia di manipolazione della comunità musulmana con finalità antioccidentali. In Italia esiste dal 1975 una legge che vieta di girare con il volto completamente coperto. Negli ultimi anni il quesito se vietarlo, completamente o non, nei luoghi pubblici è tornato d’attualità. Ci si è limitati a porre la questione sul piano del “buon senso”, fermandosi alla raccomandazione di consentire l’identificazione. Quindi, l’Italia si trova in una posizione mediana tra la laicità di Stati del tutto contrari al velo, Turchia, Tunisia e Marocco, e la tendenza teocratica, presente in Arabia Saudita, Iran, Pakistan, Afghanistan, o presso i FratelliMusulmani, che impone alla donne di coprirsi il volto. Però, chi in Italia legittima in blocco l’uso e il significato del velo o addirittura lo magnifica o ne fa un problema di centimetri di pelle da scoprire, mostra di non avere ancora compreso quale sia la vera posta in gioco. Molti predicatori al servizio dell’Islam radicale sostengono che l’Italia tra dieci anni sarà islamizzata. Se queste sono le guide religiose che spadroneggiano nelle moschee del nostro paese, non è solo della libertà delle donne musulmane che ci dobbiamo preoccupare. In gioco è la libertà di tutti. Bisogna, perciò, domandarsi: ma non è proprio il velo che incoraggia la discriminazione? Costituisce o no un ostacolo al processo di emancipazione e di integrazione dell’immigrazione femminile? LE SCUOLE CORANICHE Lezione numero 1: «Tutte le religioni esistenti sulla terra non hanno alcun valore. L’unica vera religione è quella islamica, le altre sono inutili, ripugnanti e ingannevoli per chi le pratica». Lezione numero 2: «L’intero universo è composto da diavoli ed esseri umani che devono abbracciare l’Islam, abbandonando le loro false religioni altrimenti finiranno tutti all’inferno». Lezione numero 3: «Il profeta disse: “non vengo ascoltato da cristiani ed ebrei, che, dopo la loro morte, conosceranno solo fiamme e tormenti”». Non sono i brani di un sermone ascoltato in chissà quale moschea di estremisti: sono, parola per parola, gli insegnamenti che vengono impartiti ai bambini degli istituti elementari nelle scuole coraniche. Queste scritte circolano tranquillamente nelle scuole islamiche d’Italia, con tanto di minareti e moschee in copertina. Compilate non da musulmani qualunque ma dal Ministero dell’Educazione di alcuni Paesi radicali, ovvero dalle istituzioni di un Paese che sostiene e finanzia molte delle nostre moschee e anche molte di queste scuole. Basta prendersi il disturbo di tradurle, per scoprire pagina dopo pagina, in un crescendo ben congegnato, quale sia l’ideologia che le ispira e quali nozioni di base verranno trasmesse ai bambini che dovranno diventare un giorno cittadini italiani.
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