Roma - C’è chi, con mille giri di parole, dice che bisogna cambiare, quelli che se la prendono con queste sbandate «giovanilistiche». C’è invece chi pensa che si debba andare nel «territorio». Poi l’immancabile fondazione con annessa scuola di politica. Di quelle che il Pd sforna al ritmo di un paio all’anno, ma fino ad oggi non hanno battezzato nemmeno un consigliere circoscrizionale. Dire che siamo all’anno zero democratico sarebbe troppo generoso, perché, per la sinistra italiana, le settimane dopo le regionali 2010 sembrano tanto un normalissimo post elezioni; tra riti per esorcizzare la sconfitta, analisi in sinistrese e tentativi falliti di rovesciare gli equilibri di partito. Di rinascita dopo la crisi, nemmeno a parlarne. Per semplificare la vita a chi voglia farsi un’idea di cosa si sta muovendo nel principale partito di opposizione, raccogliamo schematicamente le posizioni degli esponenti Pd emergenti, attraverso le loro dichiarazioni più recenti. Il dato nuovo è una categoria che è ormai parte della politica contemporanea: l’invidia della Lega. Più o meno in coincidenza con i buoni risultati del Carroccio nelle regioni centrali rosse, dalla Toscana il neopresidente Enrico Rossi ha fatto arrivare un messaggio in stile Bossi. Prima la denuncia che nel partito centrale ci sono «troppi fighetti», poi un «avviso ai naviganti» di Roma: «Noi non vi comprendiamo». Quanto ci sia di vero nell’orgoglio regionale della sinistra non è dato saperlo, almeno per il momento. Di sicuro una sponda politica per questi mal di pancia resta quella di Sergio Chiamparino. Che ieri ha fornito la sua ricetta per il rilancio: «Bisogna cominciare dal rapporto con il territorio. Io credo che il Pd abbia sul territorio delle figure che rappresentano dei pezzi di società, io comincerei di lì per farli giocare come squadra e non solo come singoli». Tradotto, il vertice nazionale del Pd faccia un passo indietro e lasci spazio a governatori e sindaci. Quanto sia difficile fare politica con l’eredità del Pci alle spalle, si capisce invece dagli appelli di chi vorrebbe ribaltare la leadership del partito, ma poi dice di no. Veltroni ha commentato le elezioni con un invito a riconoscere la sconfitta, ma ha negato di avere voglia di mandare a casa Pierluigi Bersani: «La tendenza conte Ugolino per cui ogni risultato elettorale serve a distruggere la leadership è un vizio nefasto». Un paradosso, come quello che vede da una parte le rassicurazioni di Veltroni, secondo il quale la scuola di Democratica sarà «contro le correnti», e dall’altra i compagni di viaggio che frenano per paura di essere iscritti d’ufficio alla nuova macchina per fare la guerra a Bersani e D’Alema. Che le cose stiano così nel Pd lo sanno tutti. Ma i difensori dei due eterni rivali negano. Persino Giorgio Tonini torna a difendere l’ex segretario negando la rivolta degli aderenti a Democratica. D’altro canto loro, i vecchi «compagni di scuola», non temono la concorrenza di nessuno. Basta guardare la ricetta di uno degli astri nascenti del Pd, il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti, che propone di usare i tre anni di legislatura «per costruire finalmente un confronto che abbia al centro la nostra cultura politica, il progetto per l’Italia». Giorni fa Zingaretti aveva incrociato la spada con il sindaco di Firenze Matteo Renzi, che lo aveva tirato in ballo come esempio di scarso coraggio. Ma le schermaglie tra le giovani promesse non entusiasmano né la maggioranza né la minoranza del Pd. Per Giorgio Merlo: «È curioso che dopo la sconfitta elettorale riemerga, come d’incanto, l’eterna questione generazionale», agitata «da giovani esponenti che occupano, ormai da molti anni, i vertici apicali», una «collaudatissima e giovanissima nomenklatura di partito». È vero che non ci sono concorrenti a minacciare la leva venuta su nel Partito comunista degli anni Settanta. Ma il timore che il tema del ricambio generazionale emerga c’è. Si capisce da un altro allarme lanciato da un oppositore di Bersani: Beppe Fioroni. Per lui il «giovanilismo» è un «feticcio ridicolo». Pari solo «all’unanimismo». Tradotto: serve un altro leader, ma non cercatelo tra i giovani.
mercoledì 7 aprile 2010
Pd
Tra "territorio" e "giovanilismo" al Pd restano solo le chiacchiere di Antonio Signorini
Roma - C’è chi, con mille giri di parole, dice che bisogna cambiare, quelli che se la prendono con queste sbandate «giovanilistiche». C’è invece chi pensa che si debba andare nel «territorio». Poi l’immancabile fondazione con annessa scuola di politica. Di quelle che il Pd sforna al ritmo di un paio all’anno, ma fino ad oggi non hanno battezzato nemmeno un consigliere circoscrizionale. Dire che siamo all’anno zero democratico sarebbe troppo generoso, perché, per la sinistra italiana, le settimane dopo le regionali 2010 sembrano tanto un normalissimo post elezioni; tra riti per esorcizzare la sconfitta, analisi in sinistrese e tentativi falliti di rovesciare gli equilibri di partito. Di rinascita dopo la crisi, nemmeno a parlarne. Per semplificare la vita a chi voglia farsi un’idea di cosa si sta muovendo nel principale partito di opposizione, raccogliamo schematicamente le posizioni degli esponenti Pd emergenti, attraverso le loro dichiarazioni più recenti. Il dato nuovo è una categoria che è ormai parte della politica contemporanea: l’invidia della Lega. Più o meno in coincidenza con i buoni risultati del Carroccio nelle regioni centrali rosse, dalla Toscana il neopresidente Enrico Rossi ha fatto arrivare un messaggio in stile Bossi. Prima la denuncia che nel partito centrale ci sono «troppi fighetti», poi un «avviso ai naviganti» di Roma: «Noi non vi comprendiamo». Quanto ci sia di vero nell’orgoglio regionale della sinistra non è dato saperlo, almeno per il momento. Di sicuro una sponda politica per questi mal di pancia resta quella di Sergio Chiamparino. Che ieri ha fornito la sua ricetta per il rilancio: «Bisogna cominciare dal rapporto con il territorio. Io credo che il Pd abbia sul territorio delle figure che rappresentano dei pezzi di società, io comincerei di lì per farli giocare come squadra e non solo come singoli». Tradotto, il vertice nazionale del Pd faccia un passo indietro e lasci spazio a governatori e sindaci. Quanto sia difficile fare politica con l’eredità del Pci alle spalle, si capisce invece dagli appelli di chi vorrebbe ribaltare la leadership del partito, ma poi dice di no. Veltroni ha commentato le elezioni con un invito a riconoscere la sconfitta, ma ha negato di avere voglia di mandare a casa Pierluigi Bersani: «La tendenza conte Ugolino per cui ogni risultato elettorale serve a distruggere la leadership è un vizio nefasto». Un paradosso, come quello che vede da una parte le rassicurazioni di Veltroni, secondo il quale la scuola di Democratica sarà «contro le correnti», e dall’altra i compagni di viaggio che frenano per paura di essere iscritti d’ufficio alla nuova macchina per fare la guerra a Bersani e D’Alema. Che le cose stiano così nel Pd lo sanno tutti. Ma i difensori dei due eterni rivali negano. Persino Giorgio Tonini torna a difendere l’ex segretario negando la rivolta degli aderenti a Democratica. D’altro canto loro, i vecchi «compagni di scuola», non temono la concorrenza di nessuno. Basta guardare la ricetta di uno degli astri nascenti del Pd, il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti, che propone di usare i tre anni di legislatura «per costruire finalmente un confronto che abbia al centro la nostra cultura politica, il progetto per l’Italia». Giorni fa Zingaretti aveva incrociato la spada con il sindaco di Firenze Matteo Renzi, che lo aveva tirato in ballo come esempio di scarso coraggio. Ma le schermaglie tra le giovani promesse non entusiasmano né la maggioranza né la minoranza del Pd. Per Giorgio Merlo: «È curioso che dopo la sconfitta elettorale riemerga, come d’incanto, l’eterna questione generazionale», agitata «da giovani esponenti che occupano, ormai da molti anni, i vertici apicali», una «collaudatissima e giovanissima nomenklatura di partito». È vero che non ci sono concorrenti a minacciare la leva venuta su nel Partito comunista degli anni Settanta. Ma il timore che il tema del ricambio generazionale emerga c’è. Si capisce da un altro allarme lanciato da un oppositore di Bersani: Beppe Fioroni. Per lui il «giovanilismo» è un «feticcio ridicolo». Pari solo «all’unanimismo». Tradotto: serve un altro leader, ma non cercatelo tra i giovani.
Roma - C’è chi, con mille giri di parole, dice che bisogna cambiare, quelli che se la prendono con queste sbandate «giovanilistiche». C’è invece chi pensa che si debba andare nel «territorio». Poi l’immancabile fondazione con annessa scuola di politica. Di quelle che il Pd sforna al ritmo di un paio all’anno, ma fino ad oggi non hanno battezzato nemmeno un consigliere circoscrizionale. Dire che siamo all’anno zero democratico sarebbe troppo generoso, perché, per la sinistra italiana, le settimane dopo le regionali 2010 sembrano tanto un normalissimo post elezioni; tra riti per esorcizzare la sconfitta, analisi in sinistrese e tentativi falliti di rovesciare gli equilibri di partito. Di rinascita dopo la crisi, nemmeno a parlarne. Per semplificare la vita a chi voglia farsi un’idea di cosa si sta muovendo nel principale partito di opposizione, raccogliamo schematicamente le posizioni degli esponenti Pd emergenti, attraverso le loro dichiarazioni più recenti. Il dato nuovo è una categoria che è ormai parte della politica contemporanea: l’invidia della Lega. Più o meno in coincidenza con i buoni risultati del Carroccio nelle regioni centrali rosse, dalla Toscana il neopresidente Enrico Rossi ha fatto arrivare un messaggio in stile Bossi. Prima la denuncia che nel partito centrale ci sono «troppi fighetti», poi un «avviso ai naviganti» di Roma: «Noi non vi comprendiamo». Quanto ci sia di vero nell’orgoglio regionale della sinistra non è dato saperlo, almeno per il momento. Di sicuro una sponda politica per questi mal di pancia resta quella di Sergio Chiamparino. Che ieri ha fornito la sua ricetta per il rilancio: «Bisogna cominciare dal rapporto con il territorio. Io credo che il Pd abbia sul territorio delle figure che rappresentano dei pezzi di società, io comincerei di lì per farli giocare come squadra e non solo come singoli». Tradotto, il vertice nazionale del Pd faccia un passo indietro e lasci spazio a governatori e sindaci. Quanto sia difficile fare politica con l’eredità del Pci alle spalle, si capisce invece dagli appelli di chi vorrebbe ribaltare la leadership del partito, ma poi dice di no. Veltroni ha commentato le elezioni con un invito a riconoscere la sconfitta, ma ha negato di avere voglia di mandare a casa Pierluigi Bersani: «La tendenza conte Ugolino per cui ogni risultato elettorale serve a distruggere la leadership è un vizio nefasto». Un paradosso, come quello che vede da una parte le rassicurazioni di Veltroni, secondo il quale la scuola di Democratica sarà «contro le correnti», e dall’altra i compagni di viaggio che frenano per paura di essere iscritti d’ufficio alla nuova macchina per fare la guerra a Bersani e D’Alema. Che le cose stiano così nel Pd lo sanno tutti. Ma i difensori dei due eterni rivali negano. Persino Giorgio Tonini torna a difendere l’ex segretario negando la rivolta degli aderenti a Democratica. D’altro canto loro, i vecchi «compagni di scuola», non temono la concorrenza di nessuno. Basta guardare la ricetta di uno degli astri nascenti del Pd, il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti, che propone di usare i tre anni di legislatura «per costruire finalmente un confronto che abbia al centro la nostra cultura politica, il progetto per l’Italia». Giorni fa Zingaretti aveva incrociato la spada con il sindaco di Firenze Matteo Renzi, che lo aveva tirato in ballo come esempio di scarso coraggio. Ma le schermaglie tra le giovani promesse non entusiasmano né la maggioranza né la minoranza del Pd. Per Giorgio Merlo: «È curioso che dopo la sconfitta elettorale riemerga, come d’incanto, l’eterna questione generazionale», agitata «da giovani esponenti che occupano, ormai da molti anni, i vertici apicali», una «collaudatissima e giovanissima nomenklatura di partito». È vero che non ci sono concorrenti a minacciare la leva venuta su nel Partito comunista degli anni Settanta. Ma il timore che il tema del ricambio generazionale emerga c’è. Si capisce da un altro allarme lanciato da un oppositore di Bersani: Beppe Fioroni. Per lui il «giovanilismo» è un «feticcio ridicolo». Pari solo «all’unanimismo». Tradotto: serve un altro leader, ma non cercatelo tra i giovani.
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