In Pakistan il fenomeno dei baby soldati continua a crescere in modo inarrestabile ormai da diversi anni. Hanno l’età in cui i bambini occidentali abbandonano i cartoni animati per passare ai videogiochi, vanno a scuola e fanno i compiti a casa dei loro amichetti. Ma per questi fanciulli di sette, dieci o dodici anni, la guerra non è più un gioco, ma una terribile realtà, fatta di sangue, odio e morte. Soltanto pochissimi si arruolano volontariamente, sia per povertà che per avere una chance di sopravivenza in più rispetto a chi non imbraccia il fucile, mentre la maggior parte viene rapita dalle proprie famiglie durante i raid compiuti nei villaggi dalle milizie talebane. Qualche giorno fa, l’autorevole Washington Post scriveva di un centro di addestramento per 86 baby terroristi nella Valle di Swat, nel nord-ovest del Paese. Secondo Zahid Hussain, editore del magazine Newsline e autore del libro “Frontline Pakistan”, circa il 90 per cento dei kamikaze pachistani è composto da giovani di età compresa fra i 15 e i 18 anni, educati fin dall’infanzia per diventare kamikaze, ladri o schiavi. Il corso per questi aspiranti (e inconsapevoli) attentatori suicidi comprende l’inevitabile lavaggio del cervello e un ferreo addestramento militare. Fra i sei e i quindici anni sono plagiati in nome dell’Islam, poi si dichiarano pronti a sacrificarsi nella lotta contro gli infedeli, secondo un progetto divino che non impedirebbe loro di uccidere persino i propri genitori, qualora Allah glielo ordinasse. Se all’inizio per molti può sembrare persino un gioco, con il passare del tempo le continue violenze e le atrocità cominciano a logorare le loro giovani menti. Spesso i comandanti, per evitare che fuggano, drogano i bambini con la marijuana o la polvere da sparo, che ha l’effetto di un allucinogeno e dà l’impressione di essere immuni dal freddo, dalla fame e dalle pallottole nemiche. Lo scorso luglio, una ventina di bambini sono stati liberati dalle forze di sicurezza pachistane sempre nella Valle di Swat. Il tenente Nadeem Ahmed, con il compito di gestire il ritorno degli sfollati nella provincia e nelle zone circostanti, allora dichiarò che i bambini rapiti potevano essere persino più di quattrocento e non esitò ad appellarsi ai genitori per chiedere di denunciarne la scomparsa. I kamikaze in erba furono condotti in campi di riabilitazione e lì aiutati ad inserirsi nuovamente in dei contesti familiari. Ma il percorso non fu (e non è) mai facile. Molti di loro si portano dietro un passato difficile, povertà, padri assenti e nessun punto di riferimento a cui rivolgersi, come scrive sul Post il neuropsichiatra Fericha Peracha, dopo aver studiato il caso degli 86 baby soldati della Valle di Swat. Oltre a ciò, subiscono il folle indottrinamento da parte degli addestratori talebani, quasi come se “fossero in trance”, secondo Sharmeen Obaid Chinoy, autore del documentario Children of the Taliban. E il maggiore Nasir Khan, anche lui di stanza nel Pakistan nordoccidentale, ricorda come i fanciulli, non appena liberati dal campo di addestramento qualche mese fa, non facessero altro che ripetere: “L’esercito pachistano è alleato con i Paesi occidentali ed è quindi nemico di Allah”. Come ha ricordato Arwa Damon, corrispondente della CNN da Islamabad, questi bambini sono persuasi anche dalla promessa del Paradiso: fiumi di latte e miele e giovani vergini in chiaro contrasto con il paesaggio brullo ed arido che li circonda. Il crescente fenomeno dei bambini soldato è una realtà orribile, probabilmente la peggiore nella guerra fra l’esercito di Islamabad e i militanti talebani. Ma non è l’unica. Sopra tutto nelle provincie nordoccidentali e nelle zone tribali, le violenze ai danni dei minori sono all’ordine del giorno, con abusi sessuali, omicidi mirati, sequestri e suicidi soltanto come esempi. L’intervento del governo pachistano sarà quindi fondamentale per investire in nuovi centri di riabilitazione, per aiutare questi ex baby kamikaze a reinserirsi nella società, anche attraverso corsi alternativi come lo sport. Che l’obiettivo non sia impossibile lo dimostra il caso dello Sri Lanka, dove il governo ha istituito diverse scuole come parte integrante di un programma di riabilitazione per i bambini rapiti dalle Tigri di Liberazione del Tamil. Anche l’International Cricket Coucil, l’associazione di Cricket nazionale e l’Unicef, che più volte ha denunciato il caso dei baby soldato, si sono uniti in questo progetto, a testimonianza del principio per cui ogni bambino ha diritto a vivere la propria infanzia. Questi giovani kamikaze, purtroppo, non sono presenti soltanto in Pakistan. Secondo un recente rapporto di Amnesty International, sono quasi 300 mila i bambini pronti ad impugnare un kalashnikov, un mitragliatore, schiavizzati in sessanta Paesi da eserciti regolari, ribelli o milizie per guerre religiose, etniche e regionali. Negli ultimi anni è stata l’Africa a detenere il primato. In Sudan, ad esempio, da più di trent’anni il Nord musulmano combatte il Sud cristiano e animista e i minori fanno parte del bottino di guerra delle truppe regolari del governo di Khartoum. E ci sono anche le bambine soldato. In Uganda e in Etiopia, infatti, le ragazze costituiscono un terzo dei minori che combattono nei conflitti armati, e spesso sono rapite per essere assegnate come mogli ai comandanti. La tragedia dei baby terroristi è raccontata egregiamente dallo scrittore Ishmael Beah, che nel libro “Memorie di un soldato bambino” (Neri Pozza, 2008) ricorda la sua lunga esperienza di guerra in Sierra Leone, iniziata nel 1991 e terminata soltanto dieci anni dopo. Beah parla della fame, dei lunghi cammini da un villaggio all’altro, della dipendenza dalle droghe, e della guerriglia notturna con una semplicità tale da gelare il sangue di chi legge. “Una delle maggiori fonti di disagio del mio viaggio era non sapere quando e dove sarebbe finito”, scrive Beah, dedicando il libro a tutti i figli della Sierra Leone derubati della loro infanzia e diventati troppo presto guerriglieri, carnefici e vittime.
sabato 10 aprile 2010
Dove sono Onu e Unicef?
In Pakistan cresce il fenomeno dei bambini soldato al servizio dei talebani di Gaia Pandolfi
In Pakistan il fenomeno dei baby soldati continua a crescere in modo inarrestabile ormai da diversi anni. Hanno l’età in cui i bambini occidentali abbandonano i cartoni animati per passare ai videogiochi, vanno a scuola e fanno i compiti a casa dei loro amichetti. Ma per questi fanciulli di sette, dieci o dodici anni, la guerra non è più un gioco, ma una terribile realtà, fatta di sangue, odio e morte. Soltanto pochissimi si arruolano volontariamente, sia per povertà che per avere una chance di sopravivenza in più rispetto a chi non imbraccia il fucile, mentre la maggior parte viene rapita dalle proprie famiglie durante i raid compiuti nei villaggi dalle milizie talebane. Qualche giorno fa, l’autorevole Washington Post scriveva di un centro di addestramento per 86 baby terroristi nella Valle di Swat, nel nord-ovest del Paese. Secondo Zahid Hussain, editore del magazine Newsline e autore del libro “Frontline Pakistan”, circa il 90 per cento dei kamikaze pachistani è composto da giovani di età compresa fra i 15 e i 18 anni, educati fin dall’infanzia per diventare kamikaze, ladri o schiavi. Il corso per questi aspiranti (e inconsapevoli) attentatori suicidi comprende l’inevitabile lavaggio del cervello e un ferreo addestramento militare. Fra i sei e i quindici anni sono plagiati in nome dell’Islam, poi si dichiarano pronti a sacrificarsi nella lotta contro gli infedeli, secondo un progetto divino che non impedirebbe loro di uccidere persino i propri genitori, qualora Allah glielo ordinasse. Se all’inizio per molti può sembrare persino un gioco, con il passare del tempo le continue violenze e le atrocità cominciano a logorare le loro giovani menti. Spesso i comandanti, per evitare che fuggano, drogano i bambini con la marijuana o la polvere da sparo, che ha l’effetto di un allucinogeno e dà l’impressione di essere immuni dal freddo, dalla fame e dalle pallottole nemiche. Lo scorso luglio, una ventina di bambini sono stati liberati dalle forze di sicurezza pachistane sempre nella Valle di Swat. Il tenente Nadeem Ahmed, con il compito di gestire il ritorno degli sfollati nella provincia e nelle zone circostanti, allora dichiarò che i bambini rapiti potevano essere persino più di quattrocento e non esitò ad appellarsi ai genitori per chiedere di denunciarne la scomparsa. I kamikaze in erba furono condotti in campi di riabilitazione e lì aiutati ad inserirsi nuovamente in dei contesti familiari. Ma il percorso non fu (e non è) mai facile. Molti di loro si portano dietro un passato difficile, povertà, padri assenti e nessun punto di riferimento a cui rivolgersi, come scrive sul Post il neuropsichiatra Fericha Peracha, dopo aver studiato il caso degli 86 baby soldati della Valle di Swat. Oltre a ciò, subiscono il folle indottrinamento da parte degli addestratori talebani, quasi come se “fossero in trance”, secondo Sharmeen Obaid Chinoy, autore del documentario Children of the Taliban. E il maggiore Nasir Khan, anche lui di stanza nel Pakistan nordoccidentale, ricorda come i fanciulli, non appena liberati dal campo di addestramento qualche mese fa, non facessero altro che ripetere: “L’esercito pachistano è alleato con i Paesi occidentali ed è quindi nemico di Allah”. Come ha ricordato Arwa Damon, corrispondente della CNN da Islamabad, questi bambini sono persuasi anche dalla promessa del Paradiso: fiumi di latte e miele e giovani vergini in chiaro contrasto con il paesaggio brullo ed arido che li circonda. Il crescente fenomeno dei bambini soldato è una realtà orribile, probabilmente la peggiore nella guerra fra l’esercito di Islamabad e i militanti talebani. Ma non è l’unica. Sopra tutto nelle provincie nordoccidentali e nelle zone tribali, le violenze ai danni dei minori sono all’ordine del giorno, con abusi sessuali, omicidi mirati, sequestri e suicidi soltanto come esempi. L’intervento del governo pachistano sarà quindi fondamentale per investire in nuovi centri di riabilitazione, per aiutare questi ex baby kamikaze a reinserirsi nella società, anche attraverso corsi alternativi come lo sport. Che l’obiettivo non sia impossibile lo dimostra il caso dello Sri Lanka, dove il governo ha istituito diverse scuole come parte integrante di un programma di riabilitazione per i bambini rapiti dalle Tigri di Liberazione del Tamil. Anche l’International Cricket Coucil, l’associazione di Cricket nazionale e l’Unicef, che più volte ha denunciato il caso dei baby soldato, si sono uniti in questo progetto, a testimonianza del principio per cui ogni bambino ha diritto a vivere la propria infanzia. Questi giovani kamikaze, purtroppo, non sono presenti soltanto in Pakistan. Secondo un recente rapporto di Amnesty International, sono quasi 300 mila i bambini pronti ad impugnare un kalashnikov, un mitragliatore, schiavizzati in sessanta Paesi da eserciti regolari, ribelli o milizie per guerre religiose, etniche e regionali. Negli ultimi anni è stata l’Africa a detenere il primato. In Sudan, ad esempio, da più di trent’anni il Nord musulmano combatte il Sud cristiano e animista e i minori fanno parte del bottino di guerra delle truppe regolari del governo di Khartoum. E ci sono anche le bambine soldato. In Uganda e in Etiopia, infatti, le ragazze costituiscono un terzo dei minori che combattono nei conflitti armati, e spesso sono rapite per essere assegnate come mogli ai comandanti. La tragedia dei baby terroristi è raccontata egregiamente dallo scrittore Ishmael Beah, che nel libro “Memorie di un soldato bambino” (Neri Pozza, 2008) ricorda la sua lunga esperienza di guerra in Sierra Leone, iniziata nel 1991 e terminata soltanto dieci anni dopo. Beah parla della fame, dei lunghi cammini da un villaggio all’altro, della dipendenza dalle droghe, e della guerriglia notturna con una semplicità tale da gelare il sangue di chi legge. “Una delle maggiori fonti di disagio del mio viaggio era non sapere quando e dove sarebbe finito”, scrive Beah, dedicando il libro a tutti i figli della Sierra Leone derubati della loro infanzia e diventati troppo presto guerriglieri, carnefici e vittime.
In Pakistan il fenomeno dei baby soldati continua a crescere in modo inarrestabile ormai da diversi anni. Hanno l’età in cui i bambini occidentali abbandonano i cartoni animati per passare ai videogiochi, vanno a scuola e fanno i compiti a casa dei loro amichetti. Ma per questi fanciulli di sette, dieci o dodici anni, la guerra non è più un gioco, ma una terribile realtà, fatta di sangue, odio e morte. Soltanto pochissimi si arruolano volontariamente, sia per povertà che per avere una chance di sopravivenza in più rispetto a chi non imbraccia il fucile, mentre la maggior parte viene rapita dalle proprie famiglie durante i raid compiuti nei villaggi dalle milizie talebane. Qualche giorno fa, l’autorevole Washington Post scriveva di un centro di addestramento per 86 baby terroristi nella Valle di Swat, nel nord-ovest del Paese. Secondo Zahid Hussain, editore del magazine Newsline e autore del libro “Frontline Pakistan”, circa il 90 per cento dei kamikaze pachistani è composto da giovani di età compresa fra i 15 e i 18 anni, educati fin dall’infanzia per diventare kamikaze, ladri o schiavi. Il corso per questi aspiranti (e inconsapevoli) attentatori suicidi comprende l’inevitabile lavaggio del cervello e un ferreo addestramento militare. Fra i sei e i quindici anni sono plagiati in nome dell’Islam, poi si dichiarano pronti a sacrificarsi nella lotta contro gli infedeli, secondo un progetto divino che non impedirebbe loro di uccidere persino i propri genitori, qualora Allah glielo ordinasse. Se all’inizio per molti può sembrare persino un gioco, con il passare del tempo le continue violenze e le atrocità cominciano a logorare le loro giovani menti. Spesso i comandanti, per evitare che fuggano, drogano i bambini con la marijuana o la polvere da sparo, che ha l’effetto di un allucinogeno e dà l’impressione di essere immuni dal freddo, dalla fame e dalle pallottole nemiche. Lo scorso luglio, una ventina di bambini sono stati liberati dalle forze di sicurezza pachistane sempre nella Valle di Swat. Il tenente Nadeem Ahmed, con il compito di gestire il ritorno degli sfollati nella provincia e nelle zone circostanti, allora dichiarò che i bambini rapiti potevano essere persino più di quattrocento e non esitò ad appellarsi ai genitori per chiedere di denunciarne la scomparsa. I kamikaze in erba furono condotti in campi di riabilitazione e lì aiutati ad inserirsi nuovamente in dei contesti familiari. Ma il percorso non fu (e non è) mai facile. Molti di loro si portano dietro un passato difficile, povertà, padri assenti e nessun punto di riferimento a cui rivolgersi, come scrive sul Post il neuropsichiatra Fericha Peracha, dopo aver studiato il caso degli 86 baby soldati della Valle di Swat. Oltre a ciò, subiscono il folle indottrinamento da parte degli addestratori talebani, quasi come se “fossero in trance”, secondo Sharmeen Obaid Chinoy, autore del documentario Children of the Taliban. E il maggiore Nasir Khan, anche lui di stanza nel Pakistan nordoccidentale, ricorda come i fanciulli, non appena liberati dal campo di addestramento qualche mese fa, non facessero altro che ripetere: “L’esercito pachistano è alleato con i Paesi occidentali ed è quindi nemico di Allah”. Come ha ricordato Arwa Damon, corrispondente della CNN da Islamabad, questi bambini sono persuasi anche dalla promessa del Paradiso: fiumi di latte e miele e giovani vergini in chiaro contrasto con il paesaggio brullo ed arido che li circonda. Il crescente fenomeno dei bambini soldato è una realtà orribile, probabilmente la peggiore nella guerra fra l’esercito di Islamabad e i militanti talebani. Ma non è l’unica. Sopra tutto nelle provincie nordoccidentali e nelle zone tribali, le violenze ai danni dei minori sono all’ordine del giorno, con abusi sessuali, omicidi mirati, sequestri e suicidi soltanto come esempi. L’intervento del governo pachistano sarà quindi fondamentale per investire in nuovi centri di riabilitazione, per aiutare questi ex baby kamikaze a reinserirsi nella società, anche attraverso corsi alternativi come lo sport. Che l’obiettivo non sia impossibile lo dimostra il caso dello Sri Lanka, dove il governo ha istituito diverse scuole come parte integrante di un programma di riabilitazione per i bambini rapiti dalle Tigri di Liberazione del Tamil. Anche l’International Cricket Coucil, l’associazione di Cricket nazionale e l’Unicef, che più volte ha denunciato il caso dei baby soldato, si sono uniti in questo progetto, a testimonianza del principio per cui ogni bambino ha diritto a vivere la propria infanzia. Questi giovani kamikaze, purtroppo, non sono presenti soltanto in Pakistan. Secondo un recente rapporto di Amnesty International, sono quasi 300 mila i bambini pronti ad impugnare un kalashnikov, un mitragliatore, schiavizzati in sessanta Paesi da eserciti regolari, ribelli o milizie per guerre religiose, etniche e regionali. Negli ultimi anni è stata l’Africa a detenere il primato. In Sudan, ad esempio, da più di trent’anni il Nord musulmano combatte il Sud cristiano e animista e i minori fanno parte del bottino di guerra delle truppe regolari del governo di Khartoum. E ci sono anche le bambine soldato. In Uganda e in Etiopia, infatti, le ragazze costituiscono un terzo dei minori che combattono nei conflitti armati, e spesso sono rapite per essere assegnate come mogli ai comandanti. La tragedia dei baby terroristi è raccontata egregiamente dallo scrittore Ishmael Beah, che nel libro “Memorie di un soldato bambino” (Neri Pozza, 2008) ricorda la sua lunga esperienza di guerra in Sierra Leone, iniziata nel 1991 e terminata soltanto dieci anni dopo. Beah parla della fame, dei lunghi cammini da un villaggio all’altro, della dipendenza dalle droghe, e della guerriglia notturna con una semplicità tale da gelare il sangue di chi legge. “Una delle maggiori fonti di disagio del mio viaggio era non sapere quando e dove sarebbe finito”, scrive Beah, dedicando il libro a tutti i figli della Sierra Leone derubati della loro infanzia e diventati troppo presto guerriglieri, carnefici e vittime.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
0 commenti:
Posta un commento