mercoledì 21 aprile 2010

Matrimoni


L’odissea delle donne musulmane che vivono nel nostro Paese Per sposarsi, costrette a esibire il «passaggio all’islam» del fidanzato «Questi obblighi confermano la nostra condizione di inferiorità anche in Italia».  E «inquinano» i dati sulle conversioni: quante quelle per motivi matrimoniali?

«Sono una ragazza marocchina che appartiene ai cosiddetti immigrati di seconda generazione. Ho 22 anni, quando arrivai in Italia ne avevo 6, per questo non parlo correttamente quella che tutti chiamano la mia lingua madre, cioè l'arabo. Il mio fidanzato Alessandro è italiano, abbiamo deciso di sposarci civilmente, ma tra i documenti che l'ambasciata marocchina mi ha chiesto per ottenere il nulla osta al matrimonio, c'è anche un certificato che attesti la conversione del mio ragazzo all'islam. Dato che siamo in Italia e la Costituzione garantisce la libertà religiosa, che senso ha tutto ciò? Non è una violazione di questa libertà?». Karima si considera vittima di un'ingiustizia, ma molte altre ragazze che vivono qui e sono cittadine di Paesi islamici si trovano nella sua stessa condizione. Oltre al Marocco, anche Egitto, Tunisia, Algeria (solo per citare gli Stati di tradizione musulmana da cui proviene il maggior numero di donne emigrate in Italia) esigono la conversione all'islam del nubendo per concedere il nulla osta alle loro cittadine che vogliono sposarsi civilmente. «È una conseguenza del peso della sharia sui codici dei Paesi islamici - spiega la professoressa Roberta Aluffi, docente di diritto musulmano all'università di Torino -. Mentre in Italia l'appartenenza religiosa dei nubendi è irrilevante per il matrimonio civile, in quei Paesi si scontra con l'impedimento per diversità di fede. La donna musulmana non può sposare un non musulmano, un divieto che invece non vale per i maschi. Da qui le richieste dei cosiddetti certificati di conversione da parte delle autorità consolari dei Paesi di origine».

Karima non si dà pace: «Non ho fatto del male a nessuno, lavoro onestamente come impiegata, voglio solo sposare la persona che amo e condurre un'esistenza tranquilla e serena. E quando avrò dei figli, insegnerò loro che gli esseri mani sono tutti uguali e che ognuno merita rispetto e libertà. Ma adesso mi sento una straniera in quella che considero la mia patria di adozione».

Karima ha chiesto aiuto a Dounia Ettaib, presidente di Admi, un'associazione che tutela le donne magrebine. «Questi casi sono in aumento, attualmente ne stiamo seguendo venti solo a Milano - spiega Dounia -. Sono la conferma bruciante della condizione di inferiorità a cui sono costrette le donne nei nostri Paesi e della mancanza di libertà con la quale devono fare i conti anche quando vivono in emigrazione. Diciamolo chiaro: sono trattate come cittadine di serie B».

Fakhita Ahwari si è sposata con Salvatore Bruneo nel 1981, in Marocco. Tra le carte che ha dovuto esibire, il consenso del padre (che da qualche anno, con il nuovo codice di famiglia approvato sotto il regno di Mohammed VI, non è più necessario) e il certificato di conversione. «Fu una semplice formalità. Gli chiesero soltanto di pronunciare la shahada (la professione di fede islamica) e di enunciare i cinque pilastri della fede musulmana, il tutto si concluse in pochi minuti. Dopo il matrimonio celebrato in Marocco, l'abbiamo registrato in Italia».

Anche da noi è relativamente facile ottenere il certificato che spalanca le porte al matrimonio con una donna musulmana. Solitamente viene richiesto al nubendo di pronunciare la professione di fede nel Dio unico e in Maometto suo profeta, di elencare i cinque pilastri della fede islamica e di impegnarsi a educare i figli secondo la religione musulmana. Il documento che attesta la conversione viene inviato all'ambasciata, che dopo averlo approvato lo rispedisce al consolato, dando di fatto il semaforo verde al matrimonio.

Al di là degli aspetti burocratici, si pongono problemi sostanziali. Ad esempio, la relativa facilità con cui vengono rilasciati i certificati di conversione (nelle rappresentanze consolari o in alcune moschee) pone più di un interrogativo sul numero dei cosiddetti convertiti all'islam, visto che molti di loro compiono questo passo più per adempiere a esigenze di tipo burocratico che per una reale convinzione spirituale e interiore. Quanti sono i musulmani «autentici» tra le centinaia di uomini che ogni anno vengono ufficialmente annoverati tra gli italiani che hanno deciso di seguire gli insegnamenti di Maometto?

Fakhita, che è responsabile di un'altra associazione per la tutela delle donne marocchine - Acmed - ha seguito vari casi di ragazze marocchine che si sono scontrate con la necessità di esibire il certificato di conversione del fidanzato per ottenere il nulla osta dalle autorità consolari del loro Paese. «Ma spesso l'uomo si rifiuta di piegarsi a questa richiesta, che potrebbe anche essere vissuto come un atto più formale che sostanziale. Non accetta di 'fingere' la sua conversione: è una questione di principio». E allora cosa succede? «Succede che i due decidono di 'ripiegare' sulla convivenza senza alcun legame giuridico, oppure si lasciano».

Ma c'è chi non si è arreso ed è ricorso alle vie legali perché gli venisse riconosciuto un diritto di libertà. Casi finiti nelle aule di un tribunale civile, e che hanno rappresentato una piccola-grande svolta in questa complessa problematica. È accaduto a Khalfallh Sallohua Bet Khemaies, tunisina, e a Luigi Del Marro che hanno presentato ricorso al Tribunale di Roma. È successo a T. H., marocchina, e all'italiano A. P. in quello di Viterbo. Entrambe le cause, istruite dall'avvocato Paolo Liberati, si sono concluse con una sentenza che ha ordinato all'ufficiale di stato civile di procedere alla pubblicazione del matrimonio anche in assenza del certificato di conversione all'islam del nubendo (vedere intervista in questa pagina). Il rifiuto di concedere il nulla osta al matrimonio da parte delle autorità consolari è stato dichiarato in contrasto con i principi di libertà religiosa e di uguaglianza affermati dalla Costituzione italiana. Ma per vedersi riconosciuti questi principi elementari, le donne musulmane sono costrette a pagarsi un avvocato.

2 commenti:

Maria Luisa ha detto...

Non c'è costrizione nella religione, dicono i seguaci della religione di paceamoretolleranza

E' assurdo siamo in Italia ed un italiano non può essere costretto a cambiare religione per le paturnie di un altro stato.

Eleonora ha detto...

Tutto è assurdo. Ed è ancora più assurdo che vengano "gentilmente" concesse simili schifezze.

Le donne nell'islam sono uguali all'uomo. Si, certo, certo.