venerdì 30 aprile 2010

L'imam


Abu Imad, già imam del Centro islamico di viale Jenner, da ieri è nel carcere di San Vittore, a scontare la pena di tre anni e otto mesi di reclusione per associazione a delinquere aggravata da finalità di terrorismo. Ultimamente, mentre era in libertà, concedeva interviste dal tono rassicurante, in cui tentava di accreditarsi come uomo di pace, chiamato a giudicare le controversie sorte fra musulmani. In realtà, aveva messo in piedi una sorta di tribunale coranico, che giudicava in base alla sharia. L’autorità gli viene riconosciuta perché il ruolo di guida glielo aveva affidato nientemeno che Anwar Shaaban, il terrorista di Al Qaeda ucciso nel 1995 dalla polizia croata. E lui, tanto per ribadire la validità dell’investitura di fronte a un gruppo di egiziani che non sembrava intenzionato ad accettare il suo carisma religioso, aveva fatto ricorso al fucile mitragliatore. Una scena altamente drammatica, descritta ai pm milanesi Elio Ramondini e Massimo Meroni dai pentiti del gruppo che richiamano i metodi spicci di un commando formato da «dieci tunisini», che «trascinarono e rinchiusero Abu Khadija in un bagno». Non contento, il loro capobanda «Bouyhia Hamadi, un ex spacciatore di droga molto aggressivo e violento, divenuto uomo di fiducia di Abu Imad», per marcare il territorio, «si recò nell’ufficio di quest’ultimo o nella biblioteca e, tornato nel salone delle preghiere, minacciò gli egiziani con un kalashnikov prelevato in uno di quei luoghi». Visto come si svolgevano le dinamiche del confronto interno al cosiddetto luogo di culto, «la minaccia ebbe effetto, contribuì alla sconfitta e alla fuga dei sostenitori di Abu Khadija, il quale in seguito non ha dato più problemi». Nei confronti dei cosiddetti “infedeli” e dei nemici dell’islam, si agiva con ancora maggior determinazione. Lo testimoniano i manuali di guerriglia e i proclami ultrafondamentalisti di cui erano pieni sia l’abitazione dell’imam che il suo studio. Tutto era lecito per la causa di Allah, anche il reclutamento di kamikaze. «Abu Imad diceva che c’era bisogno di uomini per combattere il nemico e invitava i fratelli ad andare in Afghanistan. Questi discorsi li faceva quando erano presenti un numero ristretto di persone», spiegava tre anni fa, durante il processo che si stava svolgendo al tribunale di Milano, il collaboratore di giustizia Jelassi Riad. Chi non veniva arruolato per la guerra santa, comunque, poteva sostenere Al Qaeda «anche con aiuto economico», utilizzando le cassette per le offerte sparse per tutta la moschea, «dove tutti mettevano i soldi per aiutare le vedove dell’Afghanistan e i fratelli». Abu Imad, coinvolto anche nel primo processo milanese contro un gruppo di islamici, nell’ambito dell’indagine chiamata Sfinge, allora finì solamente indagato e non in carcere, in quanto la magistratura aveva ritenuto che avesse dato segnali di un suo allontanamento da «posizioni di radicalismo estremo» e, come scrisse il gip Guido Salvini, di «condivisione di scelte più moderate all’interno del rispetto delle regole di legalità del Paese che lo ospita». Anche per questo Arman Ahmed El Hissini Helmy (questo il vero nome di Abu Imad), è stato ritenuto dai giudici il promotore e il leader di una cellula salafita legata al Gspc, attiva in Lombardia e in particolare a Milano già prima dell'11 settembre 2001. La cellula aveva un programma «inquadrato in un progetto di jihad e che avrebbe pianificato azioni suicide in Italia e all’estero e dato supporto logistico a militanti da avviare nei campi d’addestramento in Afghanistan e in Iraq». Quanto agli altri suoi coimputati, due si sono visti confermare dalla Cassazione la condanna (la più alta a 10 anni), mentre per altri tre il processo in appello sarà da rifare perché la Suprema corte ha annullato la sentenza di secondo grado.

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