mercoledì 21 aprile 2010

Svizzera e integrazione


Il sì degli elettori svizzeri all'iniziativa sulla costruzione di minareti ha istituzionalizzato una nuova frontiera tra 'noi' e gli 'altri', nella fattispecie i musulmani. Il cammino verso la costruzione di un'identità comune, che non escluda le minoranze, è più impervio che mai.

«Oggi l'Europa si trova in un momento storico molto particolare. I musulmani rappresentano un test sul modo in cui il Vecchio Continente affronterà la sfida della creazione di una società pluralista e multiculturale, dove possano coabitare diversi tipi di differenze, in particolare religiose». È quanto afferma Hisham A. Hellyer, professore all'Università di Warwick, in Gran Bretagna, e autore di un libro sui musulmani d'Europa (Muslims of Europe: the 'other' Europeans, Edinburgh University Press, 2009), tra i partecipanti a una conferenza sul tema organizzata a Neuchâtel dal Forum svizzero per lo studio delle migrazioni e della popolazione.

Interrogarsi su «cosa siamo»

Almeno per il momento, l'Europa sembra voler affrontare questa sfida a suon di divieti e agitando in ogni occasione lo spettro della radicalizzazione di parte della popolazione musulmana. Una scelta però «troppo facile», che – su impulso in particolare dell'estrema destra – fornisce risposte rapide e semplici a una realtà che però è molto più complessa.  I profondi e veloci cambiamenti a cui è stata confrontata l'Europa negli ultimi 20 anni, rendono necessaria una ridefinizione di cos'è la società europea.

«Finora ho sentito molti politici e giornalisti insistere soprattutto su cosa 'noi non siamo', ma ne ho visti pochi discutere su 'cosa siamo'». E la presenza dei musulmani – spesso descritti come una sorta di quinta colonna che vuole conquistare l'Europa – è in fondo una scappatoia perfetta per non affrontare questa domanda. Per Hisham Hellyer in Europa si dovrebbe cercare di ridefinire la propria identità piuttosto che creare nuove frontiere (warwick.ac.uk)

'Noi' e gli 'altri'

La Svizzera e l'Europa intera dovrebbero però rendersi conto che i musulmani «oggi sono 'noi' e non gli 'altri'». «In Inghilterra, ad esempio, gran parte della popolazione musulmana rifiuta il termine di minoranza, poiché si sente parte della maggioranza», prosegue Hellyer. In Svizzera l'accettazione dell'iniziativa contro la costruzione di nuovi minareti ha reso questa presa di coscienza molto più difficile: «Questa votazione ha istituzionalizzato e reso durevole la frontiera tra 'noi' e gli 'altri'», osserva Janine Dahinden, direttrice dell'istituto d'analisi dei processi sociali dell'Università di Neuchâtel.

Agli 'altri', ormai, si domanda solo una cosa: di integrarsi, termine che durante i dibattiti che hanno preceduto e seguito la votazione è stato spesso e volentieri usato come sinonimo di adattamento o di assimilazione. Ma fino a dove deve spingersi questo adattamento? Bisogna saper parlare alla perfezione la lingua del posto? Possedere determinate risorse economiche, sociali e culturali? Oppure rinunciare al proprio modo di vivere e di praticare la propria religione?

«Dopo il voto sui minareti, il dibattito pubblico è costruito in termini che fanno sì che un musulmano che domanda un'eccezione nell'applicazione di una legge per gestire meglio certe pratiche religiose, è subito guardato con sospetto e la sua lealtà è rimessa in discussione. E ciò è problematico», analizza Matteo Gianni, professore all'Università di Ginevra. Naturalmente non si tratta di eccezioni in materia di diritti fondamentali – puntualizza – bensì che riguardano il modo di vivere l'Islam, come ad esempio la macellazione rituale o la questione dei cimiteri (in Svizzera la competenza è dei comuni o dei cantoni e solo nei cimiteri di alcune città è stato riservato uno spazio per le persone di fede musulmana).

Quali vie d'uscita?

Il modello politico ed istituzionale svizzero potrebbe però fornire soluzioni interessanti per distaccarsi da questa logica dell'adattamento ad ogni costo. Con l'obiettivo di incorporare la popolazione musulmana nella società, lasciandole il margine di manovra più ampio possibile. «Questo modello ha avuto successi riconosciuti da tutti nella gestione delle minoranze territorializzate, attraverso ad esempio il federalismo o la democrazia diretto», spiega Matteo Gianni.

Un sistema spesso criticato perché ritenuto non dei più efficaci, ma a cui non si può imputare di non godere di ampia legittimità, poiché coinvolge un gran numero di attori che devono mettersi d'accordo. «Quando però si parla di minoranze non territorializzate – deplora Gianni – questa logica di rafforzamento del denominatore comune manca completamente. Non esiste nessun obbligo statale in tal senso, non c'è nessun principio di riconoscimento della differenza».

Perché allora non «riprendere parte delle soluzioni già messe in atto storicamente e che hanno dato buoni risultati, per ripensare il multiculturalismo e gestire forme di intese ragionevoli?». «Penso che la Svizzera abbia dei passi da compiere nella gestione delle differenze culturali dovute ai flussi migratori – conclude Gianni. Questo permetterebbe, oltretutto, di dare una più grande legittimità al funzionamento del proprio sistema politico in materia di multiculturalismo. Ma questo passa da una riflessione di fondo sul senso dell'integrazione, quindi sul senso del vivere assieme che dovrebbe orientare le future scelte politiche elvetiche».

Daniele Mariani, swissinfo.ch

2 commenti:

Maria Luisa ha detto...

io ho l'impressione che siano loro gli islamici a voler essere considerati "gli altri", fino a quando concessione dopo concessione da parte nostra , potranno dire "noi".Credo che gli Europei sappiano benissimo quale sia la loro identità, sono i politicanti che stanno tentando di stravolgerla

Eleonora ha detto...

Concordo con te. Purtroppo ciò che scrivi sui politicanti è vero. Pur di restare nel politically correctness, annullano le nostre identità.