giovedì 22 aprile 2010

Su Nick Clegg


Fa tenerezza che abbiano sempre un peluche di riserva, da abbracciare nel momento del bisogno. Adesso tocca a Nick Clegg, leader dei liberaldemocratici inglesi. Ma in principio fu Bill Clinton. Era il 1996, l’Ulivo italiano era appena nato e quelli che lo avevano fatto già sognavano l’Ulivo mondiale. A guidarlo, ovviamente, sarebbe stato il nuovo Kennedy, da poco insediato alla Casa Bianca. Il sogno iniziò ad ammosciarsi mentre Monica Lewinsky si alzava da sotto il tavolo dello Studio Ovale. La mazzata finale all’American Idol la dette lo stesso Clinton, entrando in guerra contro la Serbia. Massimo D’Alema e il suo governo erano con lui, ma metà della sinistra stava ancora lì, a cantare “Give peace a chance”, quando sopra le loro teste rombarono i B-52 a stelle e strisce. Erano segni premonitori. Avrebbero dovuto far capire alla sinistra italiana che era meglio accontentarsi di chi aveva in casa, senza farsi prendere da smanie esotiche, che non sai mai come vanno a finire. Ma quelli niente.

Si guardarono un po’ intorno, poi scelsero il più figo della piazza: il premier inglese Tony Blair, inventore del New Labour. L’uomo che aveva fatto uscire la sinistra britannica dal coma profondo in cui l’avevano spedita undici anni di conservatorismo firmati Margaret Thatcher. Blair ci stava. Eccome. Propose anche di creare una internazionale del centrosinistra alla quale avrebbero dovuto partecipare quei partiti, come i democratici americani, estranei alla tradizione socialista. Walter Veltroni era in brodo di giuggiole, e sulla scia di Blair proponeva di trasformare la vecchia Internazionale socialista in “Internazionale dei democratici e dei socialisti”: vuoi mettere.

L’Ulivo planetario era lì, dietro l’angolo, se leggevi Repubblica potevi toccarlo con mano. Riformista, moderno, un po’ eccitava e un po’ spaventava la sinistra italiana. Che comunque, ancora una volta, era pronta a concedersi allo straniero. D’Alema? Giuliano Amato? Ma per carità, i Ds italiani avevano già scelto le camicie botton down e gareggiavano a chi appariva più “new labour”. Il welfare delle garanzie? Roba vecchia, da anticaglia cigiellina, ferma alla questione operaia. La nuova frontiera era il welfare delle opportunità, era il ceto medio. Meglio se medio-alto.

Poi, però, come nelle canzoni di Francesco De Gregori, succede che «la storia non si ferma davvero davanti a un portone», nemmeno se è quello di Downing Street. Perché va bene essere riformisti, ma questo Blair parla come la Thatcher. Va bene anche essere filo-atlantici, ma l’asse iracheno con il presidente repubblicano George W. Bush, quello proprio no. Se ne accorge per primo il compagno Fabio Mussi. Strano esponente di sinistra, costui: ai broker di Londra continua a preferire i portuali di Livorno. Dice: «Blair merita rispetto, ma non può essere la nostra musa». Dopo un po’, sarà il suo collega Cesare Salvi a chiedere l’epurazione del leader britannico dall’Internazionale socialista: «Blair assume sempre di più il ruolo di leader della destra europea, liberista nel campo economico e sociale e militarista in quello delle relazioni internazionali». E fuori due.

Ma la voglia resta. Con tutta la buona volontà, un elettore mica può eccitarsi davanti a Piero Fassino. Gli occhioni ammiccanti di José Luis Rodríguez Zapatero, che evocano trasgressioni latine, arrivano al momento giusto. Il compagno Maurizio Crozza traduce in musica il desiderio: «Zapatero, Zapatera, l’un per cento de tu carisma me serve aquì». Appena arrivato, Zapatero ritira le truppe spagnole dall’Iraq, legalizza i matrimoni tra omosessuali, fa impazzire il Vaticano, apre le porte agli immigrati. La sinistra italiana ha deciso, l’anti-Berlusconi è lui.

I primi segni che qualcosa non va arrivano dalle due enclave spagnole in Africa, Ceuta e Melilla, militarizzate dal nuovo governo socialista. Qui, tra pallottole e filo spinato, muoiono decine di nordafricani che provano a entrare nel territorio spagnolo. Ma il disastro vero è quello dell’economia: con lui la disoccupazione supera il 19%, livello che non era toccato dal 1997. E l’istituto di statistica europeo fa sapere che l’Italietta di Berlusconi, con tutti i suoi difetti, sta per superare la Spagna nella classifica del reddito pro-capite. Inutile allo scopo: anche Zapatero è andato.

Meno male che, nel frattempo, alla Casa Bianca è arrivato un democratico nero. È giovane e bello, specchiarsi in lui ripaga delle apparizioni di Pier Luigi Bersani a Ballarò. Con Barack Obama niente sarà più come prima. O almeno è quello che pensano. Fin quando non scoprono che a) Obama intende ritirare con molta calma i soldati dall’Iraq; b) in compenso ne spedisce subito altri in Afghanistan, dove si bombarda e si spara più di prima; c) la chiusura della prigione di Guantanamo, simbolo delle nefandezze di Bush, è rimandata a data imprecisata; d) la Cia è libera di continuare a rapire i sospetti di terrorismo in giro per il mondo. Queste, e altre mosse, gli guadagnano il nomignolo di Barack W. Bush. Non bastasse, costui ostenta pure una certa confidenza con Berlusconi. Se solo arrivasse qualcuno nuovo, a cui concedersi...

Massì, forse gli inglesi non erano così male. Questo Clegg, ad esempio. Classe 1967, belloccio, laico, cosmopolita, ha già preso le distanze dalle «guerre illegali» degli Stati Uniti. Dice di voler andare oltre la destra e la sinistra, che suona sempre bene. Si può provare. Mezzo Pd è già lì che fa il tifo. E se va male anche con lui, salterà fuori qualcun altro: l’importante è non smettere di sognare.

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