MONASTIR— Le prime a irrompere sulla scena sono state le mucche. Un po’ recalcitranti, affannate, stupefatte di trovarsi in mezzo a tutta quella confusione, a quella gente strana. Poi sono arrivate le pecore, le oche, le galline. Muggiti, belati, starnazzi inframmezzati alle grida dei mercanti che srotolano stoffe colorate, offrono profumi e vasi di terracotta. Polvere ovunque, vento, gran baccano, gran movimento nel ribat di Harthema. L’antica fortezza bianca, a picco sul mare, già sfondo bipartisan dell’ortodosso Gesù di Zeffirelli come dell’irriverente Brian di Nazareth dei Monty Python, ospita ora il set italiano di Io sono con te, il nuovo film di Guido Chiesa, prodotto da Magda Film, Colorado Film e Rai Cinema, budget 3 milioni di euro girato tutto in Tunisia, in varie quanto suggestive locations capaci di trasformarsi senza fatica in altri luoghi fuori dal tempo. Per esempio la Galilea di duemila anni fa, dove un’adolescente di nome Maria, si ritrova incinta senza sapere né come né perché. «Una storia ben nota, raccontata però in modo diverso - spiega il regista, già autore di Il partigiano Johnny, Lavorare con lentezza, Le pere di Adamo -. Perché Maria stavolta non ha nulla di "celestiale", non è la creatura predestinata e sottomessa a un inspiegabile destino. Qui non entra in campo nessuna annunciazione, non ci sono angeli nè stelle comete. Nulla che possa attenuare lo choc di una ragazzina che scopre di aspettare un bambino senza aver conosciuto uomo. Ma Maria è una ragazza forte, coraggiosa. Accoglie quel figlio come figlio suo prima ancora che di Dio. E’ un dono. A lei basta». Più perplesso all’inizio è Giuseppe, l’uomo che la vuol sposare. «La ama, non dubita di lei, ma accettare quella gravidanza "contro natura" non gli è facile. Qualche dubbio gli viene». Si può capire. «Eppure, senza scomodare interventi divini, la scienza ha dimostrato la possibilità effettiva della partenogenesi... Ma il film non vuole entrare in questi meandri. Vuole solo proporre una rilettura della Natività capace di parlare a credenti e non. Di porre al centro di quel misterioso evento non il soprannaturale ma l’umano, profondissimo, legame che si può stabilire tra madre e figlio. Un vincolo primario, determinante. Più quel nodo d’amore e di fiducia è stato forte, più quel bambino diventerà un uomo libero, sicuro e indipendente». Il segreto sta nel titolo, Io sono con te. Senza se e senza ma. Una maternità intesa come fusione totale suona però irrealistica nel mondo di oggi, dove la donna lavora, ha una vita sociale... «E difatti quanti bambini nevrotici, fragili, spaventati. Quante madri stressate, che cercano di compensare le loro assenze coprendoli di folli consumi», ragiona Chiesa, che di figli ne ha tre, inseparabili dalla madre, Nicoletta Micheli, autrice non a caso del soggetto del film e co-sceneggiatrice. La scena del mercato nel forte di Monastir precede quella di Gesù nel Tempio. A interpretarlo un bambino bellissimo, occhi scuri e intelligenti. «Trovarlo non è stato facile - racconta -. Per i musulmani Gesù è uno dei Profeti e i Profeti non possono venir rappresentati. Così molte famiglie si sono tirate indietro. Poi ho avuto la fortuna di incontrare il piccolo Mohamed Idoudi. I suoi mi hanno detto sì. Un piccolo Gesù perfetto». Di raro fascino anche Rabeb Srairi: delle tre Marie previste dal copione, bambina, adulta e anziana, lei è quella di mezzo. Avvolta in un manto a righe (costumi suggestivi, tessuti a mano, ideati da Valentina Taviani) si aggira con Giuseppe (il franco-algerino Mustapha Benstiti). Ai nomi arabi del cast si aggiungono nomi italiani: Giorgio Colangeli e Fabrizio Gifuni sono due dei Magi (un terzo è il polacco Jerzy Stuhr), Carlo Cecchi è Erode. Giuseppe e Maria cercano il bambino scomparso. Ma Gesù è nel Tempio, intento a discutere con i dottori vestiti di nero e i sacerdoti con le tuniche bianche. Tutti muniti di barbe autorevoli quanto fluenti. «Abbiamo rischiato di non poter girare la scena - rivela Chiesa -. Qualche giorno fa è arrivato a Monastir il presidente tunisino Zine El-Abidine Ben Ali. E come segno di rispetto, tutti i maschi si sono tagliati le barbe. Per noi una sciagura. Metterle finte non ci piaceva, si vede... Alla fine, per salvare la situazione, siamo dovuti andare in un villaggio vicino a recuperare un po’ di uomini ancora forniti delle loro barbe "doc" e convincerli a venire sul set».
Giuseppina Manin
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