E anche storie di baby-kamikaze, convertite, figlie, madri, mogli, vedove e fidanzate di Allah. Storia di Dxhennet, la vedova teenager esplosa nel cuore di Mosca.
Vendetta. Le kamikaze sono merce “facile”. Non hanno bisogno di addestramento e sono mosse dalla rabbia e dal dolore. È stato così anche per la diciassettenne che è saltata in aria alla stazione di Lubjanka. Ha fatto più di 20 morti. Suo marito, l'emiro del Daghestan, era stato ucciso tre mesi fa.
Ha il viso di una diciassettenne arrabbiata con il mondo e un nome che in arabo significa “Paradiso”. Dzhennet Abdurakhmanova lunedì scorso è stata uno dei due “angeli” vendicatori che si sono fatti esplodere nelle viscere di Mosca. Lei, imbottita di tre chili di tritolo, si è suicidata alla stazione di Lubjanka, sotto il quartier generale dei servizi segreti del Cremlino. Il suo bottino di sangue è di più di venti morti. Un'altra donna, 20 anni, pochi minuti dopo si faceva esplodere alla fermata di Park Kultury. Anche lei era giovane e vedova. Dzhennet veniva dal Daghestan, teatro di un attentato a Kizlyar (12 morti) subito dopo la strage moscovita. Era nata a Kostek, famosa per l'eccellenza nella lotta greco-romana. C'è un detto in Caucaso che recita: «Vinci a Kostek e vincerai in tutto il mondo». Un posto di lottatori, insomma, e - in alternativa - di guerriglieri che non temono la morte. Anzi, la cercano. Dzhennet ha fatto tutto in fretta nella sua breve vita. Sposa a 17 anni e da tre mesi vedova. Suo marito era Umalat Magomedov, meglio conosciuto come “l'emiro del Daghestan”, alias Albar. Il 31 dicembre del 2009 la sua macchina fu fermata per dei controlli di routine a un posto di blocco poco fuori Grozny. I quattro sul velivolo cominciarono a sparare. Restarono immediatamente uccisi dal fuoco incrociato. Albar era uno dei leader del gruppo terroristico capeggiato dall'emiro del Caucaso, Doku Umarov, che ha rivendicato i due attentati alla metro di Mosca. La sua morte, del tutto casuale, gettò Dzhennet nella disperazione, vedova a soli 17 anni. Due ragazzini con le pistole. Così li ritrae la loro ultima foto insieme. Secondo il quotidiano russo Kommersant si erano conosciuti su internet e si erano dati un appuntamento “al buio”. Sembra che, però, una volta incontrata Dzhennet, Umalat comprese di aver trovato il suo “Paradiso” personale e «con la forza la portò a casa sua». Si sposarono dopo poco. Enfants terribles del terrorismo, i due si sono immolati alla causa degli irredentisti ceceni, radicalizzati all'islam. Sulla foto Dzhennet agita in aria una pistola e ha lo sguardo perso da qualche parte, lontano dai suoi coetanei nel resto del mondo. Quelli che alla sua età sono ancora sui banchi di scuola e la guerra la conoscono perché vedono le immagini su internet o in tv, come se fosse un film. Non è ancora chiara la storia di Dzhennet, ma sembra che dopo la morte di Umalat la ragazza sia stata “accudita” dal wahabita Said Buriaza, che l'avrebbe convinta a sacrificare la sua stessa vita per vendicare il marito. Così, lunedì scorso alle 7.52 del mattino, “Paradiso” era vestita di nero e indossava una cintura esplosiva. Qualcuno a distanza ha attivato l'ordigno attraverso un cellulare. È stato un attimo e la stazione di Lubjanka si è trasformata in un inferno. “Paradiso” era già “lontana”, mentre suonavano le sirene delle ambulanze che prestavano i primi soccorsi ai feriti coperti di sangue che uscivano dal budello sotterraneo. Le cosiddette “vedove nere” sono utilizzate dalla rete del terrore internazionale sin dal 1993. Fecero la loro prima comparsa in Libano. Erano nella scuola di Beslan nel 2004, durante il mega sequestro finito in tragedia (331 morti) e anche nel teatro Dubrovka di Mosca nel 2002, in cui morirono 33 terroristi e 129 ostaggi. Le “fidanzate di Allah”, come le ha definite la giornalista russa Yulia Jusik, sono carne da macello “facile”. Non necessitano di addestramento, ma basta solo alimentare la loro rabbia per un marito perso o un figlio, un padre o una madre uccisi. Basta mettere loro addosso una bomba e farle esplodere da lontano, come in un videogame dell'orrore. Il libro della Jusik, una raccolta di diari di donne kamikaze e di interviste ai loro famigliari «non esiste più in Russia», dice al Riformista Mia Bloom, docente di studi internazionali e storia delle donne alla Penn State University, nonché autrice di numerosi saggi sul fenomeno delle donne-terroriste, il più famoso “Dying to kill: the allure of suicide terror” è un best-seller. Raggiunta telefonicamente, la professoressa Bloom si dice «preoccupata» che vi siano molte altre donne pronte a fare quello che ha fatto Dzhennet Abdurakhmanova: «Il conflitto in Cecenia conta circa 180 mila uomini morti. Tutti avevano mogli, fidanzate, madri, sorelle. Non tutte sono disposte a diventare kamikaze, ma molte di loro sicuramente sì». Ma cosa può spingere una teenager a farsi saltare in aria? Forse vengono imbottite di droghe? «No, non credo - ci dice Mia Bloom - le droghe forse vengono utilizzate durante il processo di brain-washing al quale vengono sottoposte, ma nel momento dell'attentato non devono essere sotto l'effetto di farmaci e alcol, altrimenti l'intera operazione rischia di essere compromessa». Oltre alla motivazione della “follia”, cosa c'è alla base di questo fenomeno? «Le donne che si fanno esplodere dimostrano alla società di poter contare di più morendo che non quando erano in vita. Vede, nel 2003 la Duma (il parlamento russo ndr) ha emanato una legge che autorizza i poliziotti a perquisire e “svestire” qualsiasi donna giri per strada con un velo. Le donne sono spesso malmenate, trattate come oggetti. Per questo il loro gesto kamikaze riscatta gli abusi di una vita». La vendetta gioca però un ruolo cruciale. «Sì. È dimostrato che in tutti i gruppi terroristici, dall'Irlanda del Nord alle Tigri Tamil nello Sri-Lanka le donne-bomba sono legate all'organizzazione tramite un'appartenenza di sangue (padri e fratelli) o un matrimonio». Così è stato anche per Dzhennet. Chissà a cosa stava pensando quando un dito distante l'ha resa una martire.
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