Roma - Lavoratori tutti licenziabili nei primi tre anni e salario minimo stabilito dal governo. Se la proposta di legge fosse stata firmata da qualche esponente della maggioranza o, peggio, dal governo, ci sarebbero già tre milioni di manifestanti della Cgil al Circo Massimo; trasmissioni Rai con collegamenti in diretta dalle fabbriche, un nuovo referendum promosso da Di Pietro e le opposizioni mobilitate a ruota. Il fatto è che a proporre l’istituzione del «contratto unico di inserimento» è stato il Partito democratico. Provocatoriamente si potrebbe dire che questa sia l’unico punto fermo del Pd in tema di lavoro, visto che ci sono già tre testi depositati in Parlamento, tutti del partito di Pierluigi Bersani e, più o meno, tutti dello stesso tono. La ricetta, inizialmente avanzata dagli economisti Tito Boeri e Pietro Garibaldi, è ormai stata accettata da tutti nel principale partito di opposizione. La proposta principale è il disegno di legge n. 2.000 presentato al Senato. Il bello è che il primo firmatario è Paolo Nerozzi, senatore Pd, ex esponente di punta della Cgil. Lo stesso Nerozzi che ha bocciato la legge del governo sull’arbitrato dicendo che «l’articolo 18 dello Statuto non può diventare un optional ma deve essere applicato nella sua interezza», ha messo nero su bianco una proposta che - a detta di molti sindacalisti, in particolare della Cisl - passa un colpo di spugna su tutta la normativa che riguarda i licenziamenti. Miracoli della politica, tra i firmatari compare anche Franco Marini, senatore Pd, ma anche ex leader Cisl. I cardini della proposta sono due. La forma «tipica» di assunzione, cioè quella più o meno valida per tutti, diventa il contratto unico di ingresso. Che è molto diverso dall’assunzione così come la conosciamo ora. C’è infatti una prima fase, detta di ingresso, alla quale segue una di stabilizzazione. Per i primi tre anni, il lavoratore può essere licenziato e gli viene riconosciuta un’indennità pari a cinque giorni di retribuzione per ogni mese di prestazione lavorativa. Alla fine dei tre anni, se non viene riconfermato, riceve sei mesi di stipendio. Se viene confermato diventa un dipendente a tutti gli effetti e tutti i diritti riconosciuti. In sostanza, se con l’arbitrato - rafforzato da un recente decreto del governo - molti temono si favoriscano accordi economici sull’uscita dal lavoro dei dipendenti non graditi alle aziende, la proposta del Pd istituzionalizza per legge la libertà di licenziamento dietro compenso, anche se limitatamente ai primi tre anni di assunzione. L’obiettivo dichiarato da Nerozzi e dagli altri firmatari è nobile. Equità tra le generazioni, favorire chi ancora viene messo a lavorare con contratti atipici e metterlo nelle condizioni di entrare nel mondo del lavoro garantito. «Peccato sia già in vigore l’apprendistato - commenta il segretario Confederale della Cisl Giorgio Santini - che rispetto al contratto unico ha in più un contenuto formativo». E peccato che i tanto vituperati contratti a termine diano più garanzie. «Basterebbe fare funzionare i contratti che ci sono». Sul contratto la Cgil è in imbarazzo. Epifani è contrario, ma tiene i toni bassi. Tra i favorevoli esponenti della sinistra come Carlo Podda e la riformista Nicoletta Rocchi. L’altro punto importante della legge (e anche questo ha fatto arrabbiare la Cisl) è la previsione di un salario minimo, stabilito per legge, da applicare a tutti i contratti, compreso l’apprendistato, «sentite le parti sociali». Adesso sono le organizzazioni dei datori e dei lavoratori a decidere il salario. Che ci sia qualche problemino nella legge lo si capisce anche dalle differenze tra il testo depositato in Senato e quello invece presentato alla Camera, sempre dal Pd, prima firmataria Marianna Madia. Per i deputati democratici il salario minimo deve essere previsto solo per le categorie che non hanno un contratto di lavoro nazionale. Quindi praticamente nessuno. Il testo della Madia, prevede che le due fasi siano ben distinte e che la prima abbia un contenuto formativo. «Quello di Nerozzi è un contributo utile e ci sono tutte le condizioni per unificare tutte le proposte in una unica», assicura Cesare Damiano, firmatario della proposta Madia, ex ministro del Lavoro e capogruppo Pd in commissione Lavoro della Camera, dove sta dando battaglia contro il collegato lavoro che comprende anche l’arbitrato.
giovedì 15 aprile 2010
Il contratto di Bersani
Il contratto di Bersani: tutti precari per 3 anni di Antonio Signorini
Roma - Lavoratori tutti licenziabili nei primi tre anni e salario minimo stabilito dal governo. Se la proposta di legge fosse stata firmata da qualche esponente della maggioranza o, peggio, dal governo, ci sarebbero già tre milioni di manifestanti della Cgil al Circo Massimo; trasmissioni Rai con collegamenti in diretta dalle fabbriche, un nuovo referendum promosso da Di Pietro e le opposizioni mobilitate a ruota. Il fatto è che a proporre l’istituzione del «contratto unico di inserimento» è stato il Partito democratico. Provocatoriamente si potrebbe dire che questa sia l’unico punto fermo del Pd in tema di lavoro, visto che ci sono già tre testi depositati in Parlamento, tutti del partito di Pierluigi Bersani e, più o meno, tutti dello stesso tono. La ricetta, inizialmente avanzata dagli economisti Tito Boeri e Pietro Garibaldi, è ormai stata accettata da tutti nel principale partito di opposizione. La proposta principale è il disegno di legge n. 2.000 presentato al Senato. Il bello è che il primo firmatario è Paolo Nerozzi, senatore Pd, ex esponente di punta della Cgil. Lo stesso Nerozzi che ha bocciato la legge del governo sull’arbitrato dicendo che «l’articolo 18 dello Statuto non può diventare un optional ma deve essere applicato nella sua interezza», ha messo nero su bianco una proposta che - a detta di molti sindacalisti, in particolare della Cisl - passa un colpo di spugna su tutta la normativa che riguarda i licenziamenti. Miracoli della politica, tra i firmatari compare anche Franco Marini, senatore Pd, ma anche ex leader Cisl. I cardini della proposta sono due. La forma «tipica» di assunzione, cioè quella più o meno valida per tutti, diventa il contratto unico di ingresso. Che è molto diverso dall’assunzione così come la conosciamo ora. C’è infatti una prima fase, detta di ingresso, alla quale segue una di stabilizzazione. Per i primi tre anni, il lavoratore può essere licenziato e gli viene riconosciuta un’indennità pari a cinque giorni di retribuzione per ogni mese di prestazione lavorativa. Alla fine dei tre anni, se non viene riconfermato, riceve sei mesi di stipendio. Se viene confermato diventa un dipendente a tutti gli effetti e tutti i diritti riconosciuti. In sostanza, se con l’arbitrato - rafforzato da un recente decreto del governo - molti temono si favoriscano accordi economici sull’uscita dal lavoro dei dipendenti non graditi alle aziende, la proposta del Pd istituzionalizza per legge la libertà di licenziamento dietro compenso, anche se limitatamente ai primi tre anni di assunzione. L’obiettivo dichiarato da Nerozzi e dagli altri firmatari è nobile. Equità tra le generazioni, favorire chi ancora viene messo a lavorare con contratti atipici e metterlo nelle condizioni di entrare nel mondo del lavoro garantito. «Peccato sia già in vigore l’apprendistato - commenta il segretario Confederale della Cisl Giorgio Santini - che rispetto al contratto unico ha in più un contenuto formativo». E peccato che i tanto vituperati contratti a termine diano più garanzie. «Basterebbe fare funzionare i contratti che ci sono». Sul contratto la Cgil è in imbarazzo. Epifani è contrario, ma tiene i toni bassi. Tra i favorevoli esponenti della sinistra come Carlo Podda e la riformista Nicoletta Rocchi. L’altro punto importante della legge (e anche questo ha fatto arrabbiare la Cisl) è la previsione di un salario minimo, stabilito per legge, da applicare a tutti i contratti, compreso l’apprendistato, «sentite le parti sociali». Adesso sono le organizzazioni dei datori e dei lavoratori a decidere il salario. Che ci sia qualche problemino nella legge lo si capisce anche dalle differenze tra il testo depositato in Senato e quello invece presentato alla Camera, sempre dal Pd, prima firmataria Marianna Madia. Per i deputati democratici il salario minimo deve essere previsto solo per le categorie che non hanno un contratto di lavoro nazionale. Quindi praticamente nessuno. Il testo della Madia, prevede che le due fasi siano ben distinte e che la prima abbia un contenuto formativo. «Quello di Nerozzi è un contributo utile e ci sono tutte le condizioni per unificare tutte le proposte in una unica», assicura Cesare Damiano, firmatario della proposta Madia, ex ministro del Lavoro e capogruppo Pd in commissione Lavoro della Camera, dove sta dando battaglia contro il collegato lavoro che comprende anche l’arbitrato.
Roma - Lavoratori tutti licenziabili nei primi tre anni e salario minimo stabilito dal governo. Se la proposta di legge fosse stata firmata da qualche esponente della maggioranza o, peggio, dal governo, ci sarebbero già tre milioni di manifestanti della Cgil al Circo Massimo; trasmissioni Rai con collegamenti in diretta dalle fabbriche, un nuovo referendum promosso da Di Pietro e le opposizioni mobilitate a ruota. Il fatto è che a proporre l’istituzione del «contratto unico di inserimento» è stato il Partito democratico. Provocatoriamente si potrebbe dire che questa sia l’unico punto fermo del Pd in tema di lavoro, visto che ci sono già tre testi depositati in Parlamento, tutti del partito di Pierluigi Bersani e, più o meno, tutti dello stesso tono. La ricetta, inizialmente avanzata dagli economisti Tito Boeri e Pietro Garibaldi, è ormai stata accettata da tutti nel principale partito di opposizione. La proposta principale è il disegno di legge n. 2.000 presentato al Senato. Il bello è che il primo firmatario è Paolo Nerozzi, senatore Pd, ex esponente di punta della Cgil. Lo stesso Nerozzi che ha bocciato la legge del governo sull’arbitrato dicendo che «l’articolo 18 dello Statuto non può diventare un optional ma deve essere applicato nella sua interezza», ha messo nero su bianco una proposta che - a detta di molti sindacalisti, in particolare della Cisl - passa un colpo di spugna su tutta la normativa che riguarda i licenziamenti. Miracoli della politica, tra i firmatari compare anche Franco Marini, senatore Pd, ma anche ex leader Cisl. I cardini della proposta sono due. La forma «tipica» di assunzione, cioè quella più o meno valida per tutti, diventa il contratto unico di ingresso. Che è molto diverso dall’assunzione così come la conosciamo ora. C’è infatti una prima fase, detta di ingresso, alla quale segue una di stabilizzazione. Per i primi tre anni, il lavoratore può essere licenziato e gli viene riconosciuta un’indennità pari a cinque giorni di retribuzione per ogni mese di prestazione lavorativa. Alla fine dei tre anni, se non viene riconfermato, riceve sei mesi di stipendio. Se viene confermato diventa un dipendente a tutti gli effetti e tutti i diritti riconosciuti. In sostanza, se con l’arbitrato - rafforzato da un recente decreto del governo - molti temono si favoriscano accordi economici sull’uscita dal lavoro dei dipendenti non graditi alle aziende, la proposta del Pd istituzionalizza per legge la libertà di licenziamento dietro compenso, anche se limitatamente ai primi tre anni di assunzione. L’obiettivo dichiarato da Nerozzi e dagli altri firmatari è nobile. Equità tra le generazioni, favorire chi ancora viene messo a lavorare con contratti atipici e metterlo nelle condizioni di entrare nel mondo del lavoro garantito. «Peccato sia già in vigore l’apprendistato - commenta il segretario Confederale della Cisl Giorgio Santini - che rispetto al contratto unico ha in più un contenuto formativo». E peccato che i tanto vituperati contratti a termine diano più garanzie. «Basterebbe fare funzionare i contratti che ci sono». Sul contratto la Cgil è in imbarazzo. Epifani è contrario, ma tiene i toni bassi. Tra i favorevoli esponenti della sinistra come Carlo Podda e la riformista Nicoletta Rocchi. L’altro punto importante della legge (e anche questo ha fatto arrabbiare la Cisl) è la previsione di un salario minimo, stabilito per legge, da applicare a tutti i contratti, compreso l’apprendistato, «sentite le parti sociali». Adesso sono le organizzazioni dei datori e dei lavoratori a decidere il salario. Che ci sia qualche problemino nella legge lo si capisce anche dalle differenze tra il testo depositato in Senato e quello invece presentato alla Camera, sempre dal Pd, prima firmataria Marianna Madia. Per i deputati democratici il salario minimo deve essere previsto solo per le categorie che non hanno un contratto di lavoro nazionale. Quindi praticamente nessuno. Il testo della Madia, prevede che le due fasi siano ben distinte e che la prima abbia un contenuto formativo. «Quello di Nerozzi è un contributo utile e ci sono tutte le condizioni per unificare tutte le proposte in una unica», assicura Cesare Damiano, firmatario della proposta Madia, ex ministro del Lavoro e capogruppo Pd in commissione Lavoro della Camera, dove sta dando battaglia contro il collegato lavoro che comprende anche l’arbitrato.
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1 commenti:
Guarda, non arrivo neanche alla fine! Si capisce subito che è la solita minestra per rendere ancora più incerto il futuro dei giovani e non toccare un capello dei privilegiati sindacali: è triste rendersi conto che il conflitto tra nonni e nipoti sarà sempre più teso!
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