Poiché la fondazione americana Freedom house non solo ha collocato l’Italia al 73° posto in una classifica mondiale dell’informazione, ma l’ha declassata dall’élite dei Paesi liberi alla mediocrità dei semiliberi, dovrei sentirmi, come giornalista, umiliato. Sensazione questa che poteva essere soltanto aggravata dai servizi che l’Unità di ieri ha dedicato alla giovane pittrice iraniana Delara Darabi, impiccata per un crimine commesso quando era minorenne e per il quale si proclamava innocente, e alla resistente Yoana Sanchez tenuta in sostanziale detenzione dal regime cubano. Non occorreva molto sforzo per cogliere nelle pagine del quotidiano fondato da Antonio Gramsci l’allusione a somiglianze profonde tra la situazione di casa nostra e quelle dei regimi di Teheran e dell’Avana. (Osservo tra parentesi che hanno una bella faccia tosta, all’Unità, nel criticare le infrazioni di Fidel Castro ai diritti umani dopo averlo per decenni osannato). Sentirmi umiliato? Francamente non ci riesco. Men che meno in questo momento, mentre rimbomba su ogni foglio e in ogni telegiornale il tuono del divorzio di Veronica da Silvio, mentre poco ci manca che programmi della televisione pubblica addebitino al potere il terremoto d’Abruzzo, mentre i vignettisti faziosi assaporano un trionfale ritorno, mentre un «commando» editorial-pamphlettistico costruisce le sue fortune diffusionali ed economiche sull’attacco incessante a Berlusconi. Freedom house ha di sicuro i suoi dotti criteri e i suoi parametri. Nel mio piccolo oso contestarli. Chi abbia qualche uso di mondo, e si guardi attorno in Italia, capisce al volo che questo nostro Paese è un membro di pieno diritto - altro che parità con le isole Tonga - del club dei liberi. Lo scrivo pur essendo consapevole degli innumerevoli difetti che per altre ragioni e in altri campi l’Italia ha. Ma i galloni di democrazia autentica ce li meritiamo. So che gli schieramenti opposti, nel fervore delle polemiche, insistono in affermazioni che portano acqua al mulino di Freedom house. La sinistra - le cui motivazioni trovano porte aperte in tutti i centri studi e i salotti mondiali del politicamente corretto - sostiene che l’informazione italiana è condizionata perché un unico soggetto domina le televisioni, e in più alcuni organi di stampa. Il che potrebbe essere sostenuto ragionevolmente se da quei pulpiti mediatici fioccassero incensamenti al Cavaliere. Invece fioccano molte contestazioni e malignità. Tanto che il Cavaliere oppone agli argomenti del Pd e oltre un argomento uguale e contrario, quello d’una stampa che ha nei suoi confronti un’ostilità pregiudiziale. (Il che, senza esagerare, non mi sembra campato in aria). Un’informazione non libera per la sinistra e non libera per la destra è a mio avviso, e sarò forse banale in questa considerazione terra-terra, un’informazione libera. Con Montanelli ho avuto negli anni Settanta la convinzione che nei quotidiani vi fosse un pericolo di conformismo ipocrita nel nome di usurpati valori antifascisti. I comitati di redazione, ideologicamente tutti uguali, avrebbero voluto dei giornali che fossero a loro immagine e somiglianza. La colpa della pericolosa deriva - per combattere la quale nacque Il Giornale - non era delle strutture, era di giornalisti e cittadini troppo silenziosi, insomma la leggendaria maggioranza. Oggi quel rischio è passato. La società e con essa l’informazione hanno validi anticorpi per correggere gli unanimismi, e lo si è visto quando sono state sollevate delicate questioni etiche. Tutte le Delara Darabi e tutte le Yoana Sanchez del mondo avrebbero voluto vivere in Italia, altro che 73° posto. Un Paese ideale per i perseguitati. Purtroppo anche per i malavitosi, ma questo è un altro discorso.
lunedì 4 maggio 2009
Freedom house e la libertà
La leggenda di un'italia "semilibera" di Mario Cervi
Poiché la fondazione americana Freedom house non solo ha collocato l’Italia al 73° posto in una classifica mondiale dell’informazione, ma l’ha declassata dall’élite dei Paesi liberi alla mediocrità dei semiliberi, dovrei sentirmi, come giornalista, umiliato. Sensazione questa che poteva essere soltanto aggravata dai servizi che l’Unità di ieri ha dedicato alla giovane pittrice iraniana Delara Darabi, impiccata per un crimine commesso quando era minorenne e per il quale si proclamava innocente, e alla resistente Yoana Sanchez tenuta in sostanziale detenzione dal regime cubano. Non occorreva molto sforzo per cogliere nelle pagine del quotidiano fondato da Antonio Gramsci l’allusione a somiglianze profonde tra la situazione di casa nostra e quelle dei regimi di Teheran e dell’Avana. (Osservo tra parentesi che hanno una bella faccia tosta, all’Unità, nel criticare le infrazioni di Fidel Castro ai diritti umani dopo averlo per decenni osannato). Sentirmi umiliato? Francamente non ci riesco. Men che meno in questo momento, mentre rimbomba su ogni foglio e in ogni telegiornale il tuono del divorzio di Veronica da Silvio, mentre poco ci manca che programmi della televisione pubblica addebitino al potere il terremoto d’Abruzzo, mentre i vignettisti faziosi assaporano un trionfale ritorno, mentre un «commando» editorial-pamphlettistico costruisce le sue fortune diffusionali ed economiche sull’attacco incessante a Berlusconi. Freedom house ha di sicuro i suoi dotti criteri e i suoi parametri. Nel mio piccolo oso contestarli. Chi abbia qualche uso di mondo, e si guardi attorno in Italia, capisce al volo che questo nostro Paese è un membro di pieno diritto - altro che parità con le isole Tonga - del club dei liberi. Lo scrivo pur essendo consapevole degli innumerevoli difetti che per altre ragioni e in altri campi l’Italia ha. Ma i galloni di democrazia autentica ce li meritiamo. So che gli schieramenti opposti, nel fervore delle polemiche, insistono in affermazioni che portano acqua al mulino di Freedom house. La sinistra - le cui motivazioni trovano porte aperte in tutti i centri studi e i salotti mondiali del politicamente corretto - sostiene che l’informazione italiana è condizionata perché un unico soggetto domina le televisioni, e in più alcuni organi di stampa. Il che potrebbe essere sostenuto ragionevolmente se da quei pulpiti mediatici fioccassero incensamenti al Cavaliere. Invece fioccano molte contestazioni e malignità. Tanto che il Cavaliere oppone agli argomenti del Pd e oltre un argomento uguale e contrario, quello d’una stampa che ha nei suoi confronti un’ostilità pregiudiziale. (Il che, senza esagerare, non mi sembra campato in aria). Un’informazione non libera per la sinistra e non libera per la destra è a mio avviso, e sarò forse banale in questa considerazione terra-terra, un’informazione libera. Con Montanelli ho avuto negli anni Settanta la convinzione che nei quotidiani vi fosse un pericolo di conformismo ipocrita nel nome di usurpati valori antifascisti. I comitati di redazione, ideologicamente tutti uguali, avrebbero voluto dei giornali che fossero a loro immagine e somiglianza. La colpa della pericolosa deriva - per combattere la quale nacque Il Giornale - non era delle strutture, era di giornalisti e cittadini troppo silenziosi, insomma la leggendaria maggioranza. Oggi quel rischio è passato. La società e con essa l’informazione hanno validi anticorpi per correggere gli unanimismi, e lo si è visto quando sono state sollevate delicate questioni etiche. Tutte le Delara Darabi e tutte le Yoana Sanchez del mondo avrebbero voluto vivere in Italia, altro che 73° posto. Un Paese ideale per i perseguitati. Purtroppo anche per i malavitosi, ma questo è un altro discorso.
Poiché la fondazione americana Freedom house non solo ha collocato l’Italia al 73° posto in una classifica mondiale dell’informazione, ma l’ha declassata dall’élite dei Paesi liberi alla mediocrità dei semiliberi, dovrei sentirmi, come giornalista, umiliato. Sensazione questa che poteva essere soltanto aggravata dai servizi che l’Unità di ieri ha dedicato alla giovane pittrice iraniana Delara Darabi, impiccata per un crimine commesso quando era minorenne e per il quale si proclamava innocente, e alla resistente Yoana Sanchez tenuta in sostanziale detenzione dal regime cubano. Non occorreva molto sforzo per cogliere nelle pagine del quotidiano fondato da Antonio Gramsci l’allusione a somiglianze profonde tra la situazione di casa nostra e quelle dei regimi di Teheran e dell’Avana. (Osservo tra parentesi che hanno una bella faccia tosta, all’Unità, nel criticare le infrazioni di Fidel Castro ai diritti umani dopo averlo per decenni osannato). Sentirmi umiliato? Francamente non ci riesco. Men che meno in questo momento, mentre rimbomba su ogni foglio e in ogni telegiornale il tuono del divorzio di Veronica da Silvio, mentre poco ci manca che programmi della televisione pubblica addebitino al potere il terremoto d’Abruzzo, mentre i vignettisti faziosi assaporano un trionfale ritorno, mentre un «commando» editorial-pamphlettistico costruisce le sue fortune diffusionali ed economiche sull’attacco incessante a Berlusconi. Freedom house ha di sicuro i suoi dotti criteri e i suoi parametri. Nel mio piccolo oso contestarli. Chi abbia qualche uso di mondo, e si guardi attorno in Italia, capisce al volo che questo nostro Paese è un membro di pieno diritto - altro che parità con le isole Tonga - del club dei liberi. Lo scrivo pur essendo consapevole degli innumerevoli difetti che per altre ragioni e in altri campi l’Italia ha. Ma i galloni di democrazia autentica ce li meritiamo. So che gli schieramenti opposti, nel fervore delle polemiche, insistono in affermazioni che portano acqua al mulino di Freedom house. La sinistra - le cui motivazioni trovano porte aperte in tutti i centri studi e i salotti mondiali del politicamente corretto - sostiene che l’informazione italiana è condizionata perché un unico soggetto domina le televisioni, e in più alcuni organi di stampa. Il che potrebbe essere sostenuto ragionevolmente se da quei pulpiti mediatici fioccassero incensamenti al Cavaliere. Invece fioccano molte contestazioni e malignità. Tanto che il Cavaliere oppone agli argomenti del Pd e oltre un argomento uguale e contrario, quello d’una stampa che ha nei suoi confronti un’ostilità pregiudiziale. (Il che, senza esagerare, non mi sembra campato in aria). Un’informazione non libera per la sinistra e non libera per la destra è a mio avviso, e sarò forse banale in questa considerazione terra-terra, un’informazione libera. Con Montanelli ho avuto negli anni Settanta la convinzione che nei quotidiani vi fosse un pericolo di conformismo ipocrita nel nome di usurpati valori antifascisti. I comitati di redazione, ideologicamente tutti uguali, avrebbero voluto dei giornali che fossero a loro immagine e somiglianza. La colpa della pericolosa deriva - per combattere la quale nacque Il Giornale - non era delle strutture, era di giornalisti e cittadini troppo silenziosi, insomma la leggendaria maggioranza. Oggi quel rischio è passato. La società e con essa l’informazione hanno validi anticorpi per correggere gli unanimismi, e lo si è visto quando sono state sollevate delicate questioni etiche. Tutte le Delara Darabi e tutte le Yoana Sanchez del mondo avrebbero voluto vivere in Italia, altro che 73° posto. Un Paese ideale per i perseguitati. Purtroppo anche per i malavitosi, ma questo è un altro discorso.
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