lunedì 4 maggio 2009

Turkmenistan, italia

Intervista al leader leader pd. «Italia a rischio Turkmenistan Il premier vuole prendersi tutto». Franceschini: «Ma a destra non vedono che si sente al di sopra di legge e morale? O hanno paura? L’8 giugno se ci sarà netto disequilibrio tra maggioranza e opposizione, ci sveglieremo in una repubblica asiatica»

«Vorrei fare una domanda alla bor­ghesia produttiva, agli imprenditori, agli intellettuali, ai moderati, anche a una parte delle gerarchie ecclesiastiche italiane: possibile che non vediate dove ci sta conducendo Berlusconi? Possibile che non vediate che ormai si considera al di sopra della legge e di ogni morale, che pensa di avere così tanto potere da permettersi tutto? Vorrei suonare un campanello d’allarme: siamo ben oltre il conflitto di interessi e il controllo del­le tv; siamo all’intreccio di ogni potere, economico, bancario, finanziario. Sulla spinta della crisi, intrecciando la sua for­za di imprenditore con il controllo dello Stato, Berlusconi sta allungando le ma­ni su tutto, sta riducendo ogni potere autonomo. La Sardegna è stata la prova generale. Vuole stravincere se l’8 giu­gno, dopo le Europee e le Amministrati­ve, l’Italia si risveglierà con un netto di­sequilibrio tra maggioranza e opposizio­ne, vale a dire tra Pdl e Pd, sarà un’altra Italia. Berlusconi cercherà di prendersi tutto: non solo la Rai, non solo le modifi­che costituzionali; diventeremo un Pae­se profondamente diverso da quello di oggi. Altro che Peron: il modello di Ber­lusconi sono alcune delle repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale, dal Turk­menistan all’Uzbekistan. Paesi in cui il potere personale del capo è intrecciato con il potere dello Stato e i poteri econo­mici».

Dario Franceschini, non le pare di esagerare? «Questa sua domanda mi conferma che lo spirito diffuso è ormai di assuefa­zione. L’Italia si sta assuefacendo a cose che in qualsiasi Paese occidentale provo­cherebbero una rivolta morale, a comin­ciare dalla stampa. Invece arriva la noti­zia della classifica di Freedom House, che colloca l’Italia al 73˚ posto, tra i Pae­si 'parzialmente liberi', e sui giornali ve­do al più un titoletto. Intendo rivolger­mi non tanto al mio campo, quanto agli ambienti che negli altri Paesi tendono a stare dall’altra parte, sul fronte conser­vatore: non vedete che Berlusconi non c’entra nulla con le destre europee? Che non ha niente in comune con la Merkel, con Sarkozy, con Aznar, con Cameron? Non parlate perché non avete capito i ri­schi per il vostro Paese? O perché avete paura?».

Franceschini, lei farebbe bene a ri­volgersi anche al campo che in teoria è suo. I giornali riferiscono anche un sondaggio Ipsos, secondo cui la mag­gioranza degli operai vota per Berlu­sconi, non per il Pd. «È un problema serio. Ma non è un alibi ricordare che, dal ’94 a oggi, ogni partita elettorale è truccata, perché si svolge in condizioni totalmente anoma­le. Se McCain avesse affrontato Obama avendo il controllo delle tv e di una par­te crescente dell’apparato finanziario e produttivo o cento volte in più di fondi per le campagne elettorali, avrebbe for­se perso? Il problema non è solo la tv. In Italia si stanno assuefacendo anche i mondi che contano. Noi siamo ancora qui a contare i secondi che ci dedicano i vari tg, peraltro con un disequilibrio ver­gognoso, ma intanto la tv in questi vent’anni ha costruito un modello socia­le: non ha solo informato, ha formato gli italiani a gerarchie di valore e di com­portamento. Eppure a Berlusconi non basta: attacca Sky, blocca la concorren­za. Il degrado populistico si intreccia con il degrado morale, e comporta un forte rischio neoautoritario».

Diranno che lei è dilaniato dal­l’odio. «Ma quale odio? Anzi, quando lo ascolto mi mette di buon umore. Ma questo non mi impedisce di vedere che Italia ha in mente. Ho sperato che la na­scita del Pdl consentisse di superare il rapporto proprietario di Berlusconi con Forza Italia, che introducesse un ele­mento di controllo. Ma non è così».

Come no? E Fini? «Il fatto stesso che dire qualcosa di buon senso trasformi chi lo fa in una sorta di 'eroe civile', è un altro segno di dove siamo arrivati».

Che effetto le fa Veronica Berlusco­ni che chiede il divorzio? «Ripeto: tra moglie e marito non met­tere il dito. La saggezza popolare torna sempre utile. E poi ogni italiano si sarà già fatto un’opinione senza bisogno di commenti politici».

La Chiesa secondo lei si è ormai schierata con il governo? «No. Questa è una semplificazione tutta italiana. Né io ho titoli per dare consigli. Ma un’attenzione rigorosa alla coerenza tra valori proclamati in pubbli­co e comportamenti personali di chi ha responsabilità politiche, me la aspette­rei».

Una mano a Berlusconi gliela date anche voi. Il Pdl candida il leader e i ministri, voi rispondete con Cofferati e Berlinguer: non proprio un segno di rinnovamento. «Le nostre candidature sono tutte in­dicate dai partiti regionali e radicate nel territorio. Tranne i cinque capilista, scel­ti con il criterio dell’autorevolezza e del­la competenza: l’età non è un ostacolo, semmai una garanzia. E poi non sono li­ste bloccate: saranno gli italiani a sce­gliere chi eleggere con le preferenze, non i politologi o i blog».

Ma perché lei non è sceso in campo di persona a fronteggiare Berlusconi? «Finché rivesto questo ruolo, sono pronto a condividere i risultati positivi con tutto il partito, e ad assumermi da solo la responsabilità di quelli negativi. Ma non arretro di un centimetro su un’esigenza: la serietà. In nessuno dei ventisei Paesi d’Europa si candidano il capo del governo e il capo dell’opposi­zione. Ho posto la domanda a Parigi, a Madrid, a Berlino: non capivano, se la facevano ripetere. Sarkozy, Zapatero, la Merkel governano e affrontano la crisi, non puntano a un plebiscito permanen­te ».

D’Alema le chiede di rompere l’alle­anza con Di Pietro. «Le alleanze si fanno per governare. Noi siamo all’opposizione, con Di Pie­tro, Casini e la sinistra radicale. Sarebbe bene che l’opposizione fosse il più possi­bile unita: le liti interne sono a somma zero. Purtroppo, Di Pietro e Casini attac­cano ogni giorno me e il Pd molto più di quanto non contrastino Berlusconi. Ma io non risponderò».

Una parte consistente del suo parti­to, a cominciare da Enrico Letta, pre­me per l’alleanza proprio con Casini. «Fare bene l’opposizione insieme è il modo migliore per preparare un’allean­za. Ma dobbiamo sapere che tenersi le mani libere è la ragione sociale dell’Udc: le alleanze alle prossime Politiche non le deciderà prima del 2012. Può farci pia­cere o dispiacere, ma è così».

Sempre dall’interno del Pd, in parti­colare dagli ambienti vicini a Rutelli, viene la richiesta di cambiare linea sul referendum elettorale: il sì rafforze­rebbe Berlusconi. «Anche qui: serietà. Il referendum ci chiede se abolire o no la legge che il suo stesso autore ha definito 'una porcata'. La risposta di chi ha contrastato questa legge non può che essere sì. La direzio­ne del Pd ha approvato questa linea con oltre cento voti contro cinque. Tornare indietro per una battuta detta da Berlu­sconi camminando nelle vie di Varsavia significherebbe non essere un partito, ma solo un gruppo di persone impauri­te».

Il Pdl avverte che, se vince il sì, non si farà una nuova legge elettorale. «Dimentica di avere 271 deputati su 630. Gli altri potrebbero decidere di far­la ».

Resta il fatto che Berlusconi è così forte perché il Pd appare inconsisten­te. «Il problema non è solo il Pd. Io non chiedo agli elettori di farsi carico dell’op­posizione, ma del Paese in cui vivranno i loro figli. È evidente che, se il Pd terrà, il progetto ne uscirà rafforzato. Ma è il futuro dell’Italia la vera posta in gioco. Se il giorno dopo le elezioni il disequili­brio sarà troppo netto, troppo lontano dalla differenza tra il 37,4 del Pdl e il 33,2 del Pd delle Politiche, se Berlusconi sarà messo in condizioni di portare al­l’estremo la sua volontà di conquista del Paese, allora rischieremmo di risve­gliarci davvero in una repubblica ex so­vietica dell’Asia centrale. E se succedes­se gran parte della colpa sarà di chi, da qui ad allora, sarà rimasto inerte o zitto. Per scelta o per paura».

Aldo Cazzullo

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