Abbiamo un problema. Grave, se non addirittura terminale. Abbiamo completamente perso quell'elementare capacità di analisi critica della realtà che funge da ratio, da backbone per sviluppare una elementare, legittima ed efficace autodifesa. Confidiamo pavidamente nella tutela, alla prova dei fatti inadeguata, che può eventualmente venirci dalla forza pubblica: continuiamo ad incerottare malamente una diga le cui continue falle sono, in concreto, i prodromi di un nuovo Vajont. La quotidiana sequela di azioni efferate e violente perpetrate da extracomunitari ha raggiunto livelli ben più che critici. La risposta a questa minaccia risulta assolutamente inadeguata, concretizzandosi troppo spesso nell'affannosa ricerca di capri espiatori da un lato (vedi lo stupro di S.Valentino a Roma) e nella professione di inefficienza burocratica dall'altro, disinvogliando anche il più volenteroso dei cittadini ad adottare provvedimenti diversi dall'autotutela. Abbiamo di fronte un'emergenza sociale, e quindi politica, gravissima, le cui cause a monte vanno analizzate e metabolizzate: non sappiamo davvero più chi siamo. E qui non stiamo parlando di «identità nazionale», «superiorità della razza latina», «necessaria pulizia etnica» o altre baggianate nostalgiche e anacronistiche. Parliamo del legittimo diritto, proprio di tutte le nazioni civili, a non essere invasi. Siamo da troppo tempo schiavi di un'insulsa retorica trans-ideologica di matrice rousseauviana, siamo tornati al mito del «buon selvaggio», alla prevalenza senza se e senza ma del «diritto del (presunto) più debole» che in questa perversa «stufenbau» deve sempre e comunque prevalere sugli altri diritti, per quanto legittimi possano essere. Bene, anche volendo adottare per buona questa nuova scala di gerarchie che fonde in sé il peggior cattolicesimo postconciliare con le istanze proprie di un socialismo invertebrato, dovremmo allora dire, e dire a gran voce, che «il più debole» siamo noi, se perdonate la «pepponata». Un aspetto sul quale poco o nulla ci si è soffermati è l'attitudine psicologica, l'abito mentale che dimostrano i nuovi criminali non autoctoni: essi non agiscono per soddisfare impulsi primari che, dal loro punto di vista, trovano nel crimine l'unica soluzione possibile. Non agiscono spinti dalla fame, dalla disoccupazione, dallo straniamento che possano eventualmente provare in quanto stranieri in terra straniera. Agiscono in base ad un perverso e distorto «senso di giustizia»: ritengono di avere il diritto al possesso, sia esso di beni materiali piuttosto che apertamente sessuale, e vedono in chi «gode» di quelli che essi considerano ingiustificati «privilegi» (la proprietà ad esempio o, semplicemente, una fidanzata) un nemico sociale da abbattere ed umiliare. Riparano ad un torto, insomma. E in quanto animati da una «sete di giustizia» che purtroppo ha trovato legittimazione da parte di tanti cantori del neoquartomondismo, non hanno remore, rimorsi o pentimento alcuno. Sono a tutti gli effetti, un pericolo pubblico e privato, poiché agiscono in base ad un movente che non è la necessità, bensì una vera e propria ideologia criminale. Questa attitudine si riscontra chiaramente ed inequivocabilmente, ad esempio, analizzando le meccaniche dei tanti stupri commessi negli ultimi mesi, ove alla violenza carnale si è congiunto l'abominio del costringere ad assistere al crimine il compagno della vittima dopo averlo picchiato ed immobilizzato. Come a voler rivestire uno dei crimini più efferati di una patina di giustizia. Di giustizia sociale. Che a questa particolare attitudine socialcriminale abbia in gran parte contribuito il training forense che viene puntualmente offerto presso i CPT da parte di tanti professionisti del giure infatuati delle nuove teorie globaliste, è fuor di dubbio. Tanti extracomunitari escono dai CPT con competenze giuridiche spesso superiori a quelle di uno studente in giurisprudenza. Viene loro, inoltre, dettagliatamente spiegato quali e quante siano le smagliature del nostro pletorico apparato normativo e come sfruttare queste ultime a proprio vantaggio. Li addestriamo noi, insomma, trasmettendo loro inoltre l'errata convinzione di essere i «più deboli» e in questo modo li rendiamo predatori. Predatori che non hanno necessità alcuna di integrarsi o di rispettare le regole. Predatori che, già per il condizionamento culturale proprio dei paesi di origine, riescono con fiuto infallibile ad individuare gli elementi deboli del gregge che, in quanto tali, non hanno alcun diritto se non quello di essere predati. Nel momento in cui abbiamo cominciato ad addestrare i nostri stessi carnefici, abbiamo rinunciato, stupidamente, al diritto di non essere invasi. E questo è un problema che non si può pensare di risolvere potenziando la vigilanza o stipulando blandi accordi internazionali che risultano essere poco più che carta straccia, o emanando leggi più severe su rimpatri e permessi di soggiorno, soprattutto nel momento in cui una magistratura forse un poco avulsa dalla realtà e una forza pubblica non adeguatamente preparata ad affrontare simili emergenze vanificano nei fatti un pur lodevole disposto normativo. E'un problema che, prima di ogni altra cosa, implica la revisione di tanti processi mentali che un falso senso di rassicurazione ci ha inoculato nel corso degli anni. Implica lo smettere di sentirci costantemente in colpa verso il cosiddetto «più debole» e cominciare, finalmente, a sentirci in colpa verso noi stessi e il nostro pressapochismo...
lunedì 4 maggio 2009
Oltre il dovere, il diritto
Il diritto a non essere invasi di Francesco Natale
Abbiamo un problema. Grave, se non addirittura terminale. Abbiamo completamente perso quell'elementare capacità di analisi critica della realtà che funge da ratio, da backbone per sviluppare una elementare, legittima ed efficace autodifesa. Confidiamo pavidamente nella tutela, alla prova dei fatti inadeguata, che può eventualmente venirci dalla forza pubblica: continuiamo ad incerottare malamente una diga le cui continue falle sono, in concreto, i prodromi di un nuovo Vajont. La quotidiana sequela di azioni efferate e violente perpetrate da extracomunitari ha raggiunto livelli ben più che critici. La risposta a questa minaccia risulta assolutamente inadeguata, concretizzandosi troppo spesso nell'affannosa ricerca di capri espiatori da un lato (vedi lo stupro di S.Valentino a Roma) e nella professione di inefficienza burocratica dall'altro, disinvogliando anche il più volenteroso dei cittadini ad adottare provvedimenti diversi dall'autotutela. Abbiamo di fronte un'emergenza sociale, e quindi politica, gravissima, le cui cause a monte vanno analizzate e metabolizzate: non sappiamo davvero più chi siamo. E qui non stiamo parlando di «identità nazionale», «superiorità della razza latina», «necessaria pulizia etnica» o altre baggianate nostalgiche e anacronistiche. Parliamo del legittimo diritto, proprio di tutte le nazioni civili, a non essere invasi. Siamo da troppo tempo schiavi di un'insulsa retorica trans-ideologica di matrice rousseauviana, siamo tornati al mito del «buon selvaggio», alla prevalenza senza se e senza ma del «diritto del (presunto) più debole» che in questa perversa «stufenbau» deve sempre e comunque prevalere sugli altri diritti, per quanto legittimi possano essere. Bene, anche volendo adottare per buona questa nuova scala di gerarchie che fonde in sé il peggior cattolicesimo postconciliare con le istanze proprie di un socialismo invertebrato, dovremmo allora dire, e dire a gran voce, che «il più debole» siamo noi, se perdonate la «pepponata». Un aspetto sul quale poco o nulla ci si è soffermati è l'attitudine psicologica, l'abito mentale che dimostrano i nuovi criminali non autoctoni: essi non agiscono per soddisfare impulsi primari che, dal loro punto di vista, trovano nel crimine l'unica soluzione possibile. Non agiscono spinti dalla fame, dalla disoccupazione, dallo straniamento che possano eventualmente provare in quanto stranieri in terra straniera. Agiscono in base ad un perverso e distorto «senso di giustizia»: ritengono di avere il diritto al possesso, sia esso di beni materiali piuttosto che apertamente sessuale, e vedono in chi «gode» di quelli che essi considerano ingiustificati «privilegi» (la proprietà ad esempio o, semplicemente, una fidanzata) un nemico sociale da abbattere ed umiliare. Riparano ad un torto, insomma. E in quanto animati da una «sete di giustizia» che purtroppo ha trovato legittimazione da parte di tanti cantori del neoquartomondismo, non hanno remore, rimorsi o pentimento alcuno. Sono a tutti gli effetti, un pericolo pubblico e privato, poiché agiscono in base ad un movente che non è la necessità, bensì una vera e propria ideologia criminale. Questa attitudine si riscontra chiaramente ed inequivocabilmente, ad esempio, analizzando le meccaniche dei tanti stupri commessi negli ultimi mesi, ove alla violenza carnale si è congiunto l'abominio del costringere ad assistere al crimine il compagno della vittima dopo averlo picchiato ed immobilizzato. Come a voler rivestire uno dei crimini più efferati di una patina di giustizia. Di giustizia sociale. Che a questa particolare attitudine socialcriminale abbia in gran parte contribuito il training forense che viene puntualmente offerto presso i CPT da parte di tanti professionisti del giure infatuati delle nuove teorie globaliste, è fuor di dubbio. Tanti extracomunitari escono dai CPT con competenze giuridiche spesso superiori a quelle di uno studente in giurisprudenza. Viene loro, inoltre, dettagliatamente spiegato quali e quante siano le smagliature del nostro pletorico apparato normativo e come sfruttare queste ultime a proprio vantaggio. Li addestriamo noi, insomma, trasmettendo loro inoltre l'errata convinzione di essere i «più deboli» e in questo modo li rendiamo predatori. Predatori che non hanno necessità alcuna di integrarsi o di rispettare le regole. Predatori che, già per il condizionamento culturale proprio dei paesi di origine, riescono con fiuto infallibile ad individuare gli elementi deboli del gregge che, in quanto tali, non hanno alcun diritto se non quello di essere predati. Nel momento in cui abbiamo cominciato ad addestrare i nostri stessi carnefici, abbiamo rinunciato, stupidamente, al diritto di non essere invasi. E questo è un problema che non si può pensare di risolvere potenziando la vigilanza o stipulando blandi accordi internazionali che risultano essere poco più che carta straccia, o emanando leggi più severe su rimpatri e permessi di soggiorno, soprattutto nel momento in cui una magistratura forse un poco avulsa dalla realtà e una forza pubblica non adeguatamente preparata ad affrontare simili emergenze vanificano nei fatti un pur lodevole disposto normativo. E'un problema che, prima di ogni altra cosa, implica la revisione di tanti processi mentali che un falso senso di rassicurazione ci ha inoculato nel corso degli anni. Implica lo smettere di sentirci costantemente in colpa verso il cosiddetto «più debole» e cominciare, finalmente, a sentirci in colpa verso noi stessi e il nostro pressapochismo...
Abbiamo un problema. Grave, se non addirittura terminale. Abbiamo completamente perso quell'elementare capacità di analisi critica della realtà che funge da ratio, da backbone per sviluppare una elementare, legittima ed efficace autodifesa. Confidiamo pavidamente nella tutela, alla prova dei fatti inadeguata, che può eventualmente venirci dalla forza pubblica: continuiamo ad incerottare malamente una diga le cui continue falle sono, in concreto, i prodromi di un nuovo Vajont. La quotidiana sequela di azioni efferate e violente perpetrate da extracomunitari ha raggiunto livelli ben più che critici. La risposta a questa minaccia risulta assolutamente inadeguata, concretizzandosi troppo spesso nell'affannosa ricerca di capri espiatori da un lato (vedi lo stupro di S.Valentino a Roma) e nella professione di inefficienza burocratica dall'altro, disinvogliando anche il più volenteroso dei cittadini ad adottare provvedimenti diversi dall'autotutela. Abbiamo di fronte un'emergenza sociale, e quindi politica, gravissima, le cui cause a monte vanno analizzate e metabolizzate: non sappiamo davvero più chi siamo. E qui non stiamo parlando di «identità nazionale», «superiorità della razza latina», «necessaria pulizia etnica» o altre baggianate nostalgiche e anacronistiche. Parliamo del legittimo diritto, proprio di tutte le nazioni civili, a non essere invasi. Siamo da troppo tempo schiavi di un'insulsa retorica trans-ideologica di matrice rousseauviana, siamo tornati al mito del «buon selvaggio», alla prevalenza senza se e senza ma del «diritto del (presunto) più debole» che in questa perversa «stufenbau» deve sempre e comunque prevalere sugli altri diritti, per quanto legittimi possano essere. Bene, anche volendo adottare per buona questa nuova scala di gerarchie che fonde in sé il peggior cattolicesimo postconciliare con le istanze proprie di un socialismo invertebrato, dovremmo allora dire, e dire a gran voce, che «il più debole» siamo noi, se perdonate la «pepponata». Un aspetto sul quale poco o nulla ci si è soffermati è l'attitudine psicologica, l'abito mentale che dimostrano i nuovi criminali non autoctoni: essi non agiscono per soddisfare impulsi primari che, dal loro punto di vista, trovano nel crimine l'unica soluzione possibile. Non agiscono spinti dalla fame, dalla disoccupazione, dallo straniamento che possano eventualmente provare in quanto stranieri in terra straniera. Agiscono in base ad un perverso e distorto «senso di giustizia»: ritengono di avere il diritto al possesso, sia esso di beni materiali piuttosto che apertamente sessuale, e vedono in chi «gode» di quelli che essi considerano ingiustificati «privilegi» (la proprietà ad esempio o, semplicemente, una fidanzata) un nemico sociale da abbattere ed umiliare. Riparano ad un torto, insomma. E in quanto animati da una «sete di giustizia» che purtroppo ha trovato legittimazione da parte di tanti cantori del neoquartomondismo, non hanno remore, rimorsi o pentimento alcuno. Sono a tutti gli effetti, un pericolo pubblico e privato, poiché agiscono in base ad un movente che non è la necessità, bensì una vera e propria ideologia criminale. Questa attitudine si riscontra chiaramente ed inequivocabilmente, ad esempio, analizzando le meccaniche dei tanti stupri commessi negli ultimi mesi, ove alla violenza carnale si è congiunto l'abominio del costringere ad assistere al crimine il compagno della vittima dopo averlo picchiato ed immobilizzato. Come a voler rivestire uno dei crimini più efferati di una patina di giustizia. Di giustizia sociale. Che a questa particolare attitudine socialcriminale abbia in gran parte contribuito il training forense che viene puntualmente offerto presso i CPT da parte di tanti professionisti del giure infatuati delle nuove teorie globaliste, è fuor di dubbio. Tanti extracomunitari escono dai CPT con competenze giuridiche spesso superiori a quelle di uno studente in giurisprudenza. Viene loro, inoltre, dettagliatamente spiegato quali e quante siano le smagliature del nostro pletorico apparato normativo e come sfruttare queste ultime a proprio vantaggio. Li addestriamo noi, insomma, trasmettendo loro inoltre l'errata convinzione di essere i «più deboli» e in questo modo li rendiamo predatori. Predatori che non hanno necessità alcuna di integrarsi o di rispettare le regole. Predatori che, già per il condizionamento culturale proprio dei paesi di origine, riescono con fiuto infallibile ad individuare gli elementi deboli del gregge che, in quanto tali, non hanno alcun diritto se non quello di essere predati. Nel momento in cui abbiamo cominciato ad addestrare i nostri stessi carnefici, abbiamo rinunciato, stupidamente, al diritto di non essere invasi. E questo è un problema che non si può pensare di risolvere potenziando la vigilanza o stipulando blandi accordi internazionali che risultano essere poco più che carta straccia, o emanando leggi più severe su rimpatri e permessi di soggiorno, soprattutto nel momento in cui una magistratura forse un poco avulsa dalla realtà e una forza pubblica non adeguatamente preparata ad affrontare simili emergenze vanificano nei fatti un pur lodevole disposto normativo. E'un problema che, prima di ogni altra cosa, implica la revisione di tanti processi mentali che un falso senso di rassicurazione ci ha inoculato nel corso degli anni. Implica lo smettere di sentirci costantemente in colpa verso il cosiddetto «più debole» e cominciare, finalmente, a sentirci in colpa verso noi stessi e il nostro pressapochismo...
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
1 commenti:
Secondo me, i più deboli son ben lontani dal delinquere per senso di giustizia: ciò che li anima è la più semplice certezza dell'impunità accompagnata dasemplice volontà di conquista! Beccaria, oltre ad essere il teorico utilitarista dell'abolizionismo (tortura e pena di morte vanno eliminate perchè inutili), era un ferreo sostenitore della certezza del diritto e della pena, dell'effettività, infallibilità, consequenzialità, immediatezza della stessa! Laddove la pena è una meccanica conseguenza del reato, diceva il Newtoncino, non serve un sistema penale terrorista! Qui invece si è eliminato il terrorismo repressivo, sostituendolo con una criminologia del determinismo sociale e giustificazionisticamente orientata! Come a dire: se ei piace, ei lice!!!
Posta un commento