Roma - Biagio De Giovanni, filosofo, rettore universitario, parlamentare... Una delle poche «menti» su cui la sinistra potrebbe contare. Difatti non ci conta, e lei ora la politica preferisce guardarla con il cannocchiale. Più spesso, al microscopio. «Da tempo. L’età mi agevola». Vede l’Italia andare a destra, e nel suo ultimo libro, ormai prossimo all’uscita, così come nel suo articolo pubblicato ieri dal «Riformista», lei spiega anche come e perché questa sinistra si sia dissolta e il Pd sia nato vecchio. «Nato male. Da un’oligarchia stanca e impaurita, l’ultimo pezzo del vecchio sistema egemonico che vorrebbe, non si sa come, riportarlo in vita...». Ma in questi tempi di crisi lei vede anche con occhi preoccupati l’incedere della crisi economica su un Paese eternamente diviso. «Nessuno ora può valutare gli effetti di questa crisi: se sarà la tempesta perfetta che annunciano alcuni, o se un po’ di fiducia in più può aiutarci a superarla. Di sicuro, però, la crisi può creare aree di larghissimo malessere sociale. Il governo sta cercando di fronteggiarla, dire sempre che è poco, come fa l’opposizione, non aiuta. Possibile che non si faccia mai niente di buono, neanche per sbaglio?». In tutta Europa va di moda sequestrare i manager. Capri espiatori o simboli di un’economia che ha sostituito la produzione di merci all’autoproduzione di denaro? «Tutt’e due. Ed è vero che l’orgia finanziaria di cui sono stati le figure portanti oggi li espone maggiormente. Il meccanismo mediatico fa concentrare sui superstipendi dei manager le ragioni della crisi». Però neppure loro ci sono andati leggeri, in tempi di vacche grasse. «Vero: erano circondati dal denaro, lo riproducevano al di là di ogni confine, e alcuni stipendi erano effettivamente ingiustificabili. Però questi gesti clamorosi di ribellione, uniti alla visibilità mediatica, fanno a pugni con la possibilità di una risposta più sensata, più collettiva, più razionale». È come se il nichilismo di certi atteggiamenti spregiudicati oggi si ritorcesse loro contro. «In un certo senso sì, è proprio così. Il ribellismo è una forma di anti-politica, di nichilismo». Ma in Italia si potrebbero verificare gesti del genere? «Credo di no. Anche se non si possono escludere fenomeni imitativi, proprio alla luce della loro forza mediatica. In Italia dovremmo far attenzione ad altro». Altre forme di protesta? «Peggio: questo è l’unico Paese nel quale il terrorismo degli anni Settanta ha determinato la storia della Repubblica ed è poi diventato in qualche modo endemico, come gli omicidi Biagi e D’Antona hanno dimostrato. Oggi ancora si celebrano processi contro brigatisti, non dimentichiamolo». Con la sua lente analitica vuol metterci in guardia. «Io dico che sarà pur vero che il terrorismo non si potrà mai ripresentare in quella forma, che di sicuro quel terreno dal quale traeva nutrimento s’è prosciugato... Però tanti segnali ci sono stati, e impongono di fare attenzione. Attenzione a cercare di creare un clima che non faciliti la risorgenza di questo fenomeno che resta un sottofondo inquietante nel nostro Paese». Paese di frontiera, di invasioni, di divisioni. Ultimo confine libero tra Est ed Ovest... «Non c’è dubbio. Per questo parlo di divisionismo, un atteggiamento sempre dominante, le cui frange estreme finiscono per ricorrere al terrore politico». Da noi l’avversario è un nemico. «Da noi la lotta politica, seme della democrazia, assume un tono diverso, di ostilità reciproca, di reciproca non-legittimazione. Un populismo di destra e la demagogia di sinistra si tengono per mano». Facce della stessa medaglia. Ma è nato prima l’uovo o la gallina? «Problema mai risolto». Tra i demagoghi principe, poi ci si è messo pure tal Di Pietro... «Di Pietro è una lancia, una piccola lancia per fortuna, ficcata nel cuore del Paese. È una forza disgregante, monotematica, e già per questo andrebbe guardata con diffidenza. C’è sempre qualcosa di antidemocratico, in chi guarda e si rivolge solo a una parte...». Una piccola lancia ma, ficcata nel Pd, gli ha bloccato la crescita. «È l’errore storico di Veltroni. Lì Walter s’è impiccato: se non avesse fatto l’alleanza, Di Pietro non sarebbe neppure in Parlamento». Avrebbe senso che Franceschini cambiasse toni e modi? «Sarebbe opportuno che si aprisse un dialogo, non riducendo questo partito a un (piccolo) sindacato di sinistra». Il Pd non ha speranza. «Si dovrà arrivare una nuova generazione per rifondare la sinistra. Ma le classi dirigenti non si formano in quattro e quattr’otto».
venerdì 3 aprile 2009
Terrorismo e lotta di classe
«Il Pd stia attento e dialoghi Qui si rischia il terrorismo». Il filosofo ex Pci: «Questo clima facilita il risorgere dell’estremismo». Poi su Di Pietro: «Disgrega l’Italia. È una lancia nel cuore del Paese» di Roberto Scafuri
Roma - Biagio De Giovanni, filosofo, rettore universitario, parlamentare... Una delle poche «menti» su cui la sinistra potrebbe contare. Difatti non ci conta, e lei ora la politica preferisce guardarla con il cannocchiale. Più spesso, al microscopio. «Da tempo. L’età mi agevola». Vede l’Italia andare a destra, e nel suo ultimo libro, ormai prossimo all’uscita, così come nel suo articolo pubblicato ieri dal «Riformista», lei spiega anche come e perché questa sinistra si sia dissolta e il Pd sia nato vecchio. «Nato male. Da un’oligarchia stanca e impaurita, l’ultimo pezzo del vecchio sistema egemonico che vorrebbe, non si sa come, riportarlo in vita...». Ma in questi tempi di crisi lei vede anche con occhi preoccupati l’incedere della crisi economica su un Paese eternamente diviso. «Nessuno ora può valutare gli effetti di questa crisi: se sarà la tempesta perfetta che annunciano alcuni, o se un po’ di fiducia in più può aiutarci a superarla. Di sicuro, però, la crisi può creare aree di larghissimo malessere sociale. Il governo sta cercando di fronteggiarla, dire sempre che è poco, come fa l’opposizione, non aiuta. Possibile che non si faccia mai niente di buono, neanche per sbaglio?». In tutta Europa va di moda sequestrare i manager. Capri espiatori o simboli di un’economia che ha sostituito la produzione di merci all’autoproduzione di denaro? «Tutt’e due. Ed è vero che l’orgia finanziaria di cui sono stati le figure portanti oggi li espone maggiormente. Il meccanismo mediatico fa concentrare sui superstipendi dei manager le ragioni della crisi». Però neppure loro ci sono andati leggeri, in tempi di vacche grasse. «Vero: erano circondati dal denaro, lo riproducevano al di là di ogni confine, e alcuni stipendi erano effettivamente ingiustificabili. Però questi gesti clamorosi di ribellione, uniti alla visibilità mediatica, fanno a pugni con la possibilità di una risposta più sensata, più collettiva, più razionale». È come se il nichilismo di certi atteggiamenti spregiudicati oggi si ritorcesse loro contro. «In un certo senso sì, è proprio così. Il ribellismo è una forma di anti-politica, di nichilismo». Ma in Italia si potrebbero verificare gesti del genere? «Credo di no. Anche se non si possono escludere fenomeni imitativi, proprio alla luce della loro forza mediatica. In Italia dovremmo far attenzione ad altro». Altre forme di protesta? «Peggio: questo è l’unico Paese nel quale il terrorismo degli anni Settanta ha determinato la storia della Repubblica ed è poi diventato in qualche modo endemico, come gli omicidi Biagi e D’Antona hanno dimostrato. Oggi ancora si celebrano processi contro brigatisti, non dimentichiamolo». Con la sua lente analitica vuol metterci in guardia. «Io dico che sarà pur vero che il terrorismo non si potrà mai ripresentare in quella forma, che di sicuro quel terreno dal quale traeva nutrimento s’è prosciugato... Però tanti segnali ci sono stati, e impongono di fare attenzione. Attenzione a cercare di creare un clima che non faciliti la risorgenza di questo fenomeno che resta un sottofondo inquietante nel nostro Paese». Paese di frontiera, di invasioni, di divisioni. Ultimo confine libero tra Est ed Ovest... «Non c’è dubbio. Per questo parlo di divisionismo, un atteggiamento sempre dominante, le cui frange estreme finiscono per ricorrere al terrore politico». Da noi l’avversario è un nemico. «Da noi la lotta politica, seme della democrazia, assume un tono diverso, di ostilità reciproca, di reciproca non-legittimazione. Un populismo di destra e la demagogia di sinistra si tengono per mano». Facce della stessa medaglia. Ma è nato prima l’uovo o la gallina? «Problema mai risolto». Tra i demagoghi principe, poi ci si è messo pure tal Di Pietro... «Di Pietro è una lancia, una piccola lancia per fortuna, ficcata nel cuore del Paese. È una forza disgregante, monotematica, e già per questo andrebbe guardata con diffidenza. C’è sempre qualcosa di antidemocratico, in chi guarda e si rivolge solo a una parte...». Una piccola lancia ma, ficcata nel Pd, gli ha bloccato la crescita. «È l’errore storico di Veltroni. Lì Walter s’è impiccato: se non avesse fatto l’alleanza, Di Pietro non sarebbe neppure in Parlamento». Avrebbe senso che Franceschini cambiasse toni e modi? «Sarebbe opportuno che si aprisse un dialogo, non riducendo questo partito a un (piccolo) sindacato di sinistra». Il Pd non ha speranza. «Si dovrà arrivare una nuova generazione per rifondare la sinistra. Ma le classi dirigenti non si formano in quattro e quattr’otto».
Roma - Biagio De Giovanni, filosofo, rettore universitario, parlamentare... Una delle poche «menti» su cui la sinistra potrebbe contare. Difatti non ci conta, e lei ora la politica preferisce guardarla con il cannocchiale. Più spesso, al microscopio. «Da tempo. L’età mi agevola». Vede l’Italia andare a destra, e nel suo ultimo libro, ormai prossimo all’uscita, così come nel suo articolo pubblicato ieri dal «Riformista», lei spiega anche come e perché questa sinistra si sia dissolta e il Pd sia nato vecchio. «Nato male. Da un’oligarchia stanca e impaurita, l’ultimo pezzo del vecchio sistema egemonico che vorrebbe, non si sa come, riportarlo in vita...». Ma in questi tempi di crisi lei vede anche con occhi preoccupati l’incedere della crisi economica su un Paese eternamente diviso. «Nessuno ora può valutare gli effetti di questa crisi: se sarà la tempesta perfetta che annunciano alcuni, o se un po’ di fiducia in più può aiutarci a superarla. Di sicuro, però, la crisi può creare aree di larghissimo malessere sociale. Il governo sta cercando di fronteggiarla, dire sempre che è poco, come fa l’opposizione, non aiuta. Possibile che non si faccia mai niente di buono, neanche per sbaglio?». In tutta Europa va di moda sequestrare i manager. Capri espiatori o simboli di un’economia che ha sostituito la produzione di merci all’autoproduzione di denaro? «Tutt’e due. Ed è vero che l’orgia finanziaria di cui sono stati le figure portanti oggi li espone maggiormente. Il meccanismo mediatico fa concentrare sui superstipendi dei manager le ragioni della crisi». Però neppure loro ci sono andati leggeri, in tempi di vacche grasse. «Vero: erano circondati dal denaro, lo riproducevano al di là di ogni confine, e alcuni stipendi erano effettivamente ingiustificabili. Però questi gesti clamorosi di ribellione, uniti alla visibilità mediatica, fanno a pugni con la possibilità di una risposta più sensata, più collettiva, più razionale». È come se il nichilismo di certi atteggiamenti spregiudicati oggi si ritorcesse loro contro. «In un certo senso sì, è proprio così. Il ribellismo è una forma di anti-politica, di nichilismo». Ma in Italia si potrebbero verificare gesti del genere? «Credo di no. Anche se non si possono escludere fenomeni imitativi, proprio alla luce della loro forza mediatica. In Italia dovremmo far attenzione ad altro». Altre forme di protesta? «Peggio: questo è l’unico Paese nel quale il terrorismo degli anni Settanta ha determinato la storia della Repubblica ed è poi diventato in qualche modo endemico, come gli omicidi Biagi e D’Antona hanno dimostrato. Oggi ancora si celebrano processi contro brigatisti, non dimentichiamolo». Con la sua lente analitica vuol metterci in guardia. «Io dico che sarà pur vero che il terrorismo non si potrà mai ripresentare in quella forma, che di sicuro quel terreno dal quale traeva nutrimento s’è prosciugato... Però tanti segnali ci sono stati, e impongono di fare attenzione. Attenzione a cercare di creare un clima che non faciliti la risorgenza di questo fenomeno che resta un sottofondo inquietante nel nostro Paese». Paese di frontiera, di invasioni, di divisioni. Ultimo confine libero tra Est ed Ovest... «Non c’è dubbio. Per questo parlo di divisionismo, un atteggiamento sempre dominante, le cui frange estreme finiscono per ricorrere al terrore politico». Da noi l’avversario è un nemico. «Da noi la lotta politica, seme della democrazia, assume un tono diverso, di ostilità reciproca, di reciproca non-legittimazione. Un populismo di destra e la demagogia di sinistra si tengono per mano». Facce della stessa medaglia. Ma è nato prima l’uovo o la gallina? «Problema mai risolto». Tra i demagoghi principe, poi ci si è messo pure tal Di Pietro... «Di Pietro è una lancia, una piccola lancia per fortuna, ficcata nel cuore del Paese. È una forza disgregante, monotematica, e già per questo andrebbe guardata con diffidenza. C’è sempre qualcosa di antidemocratico, in chi guarda e si rivolge solo a una parte...». Una piccola lancia ma, ficcata nel Pd, gli ha bloccato la crescita. «È l’errore storico di Veltroni. Lì Walter s’è impiccato: se non avesse fatto l’alleanza, Di Pietro non sarebbe neppure in Parlamento». Avrebbe senso che Franceschini cambiasse toni e modi? «Sarebbe opportuno che si aprisse un dialogo, non riducendo questo partito a un (piccolo) sindacato di sinistra». Il Pd non ha speranza. «Si dovrà arrivare una nuova generazione per rifondare la sinistra. Ma le classi dirigenti non si formano in quattro e quattr’otto».
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