Servono più poteri, per il governo e per chi lo presiede. E’ un’esigenza che hanno sentito e manifestato tutti, a turno. Compresa già nei lavori della commissione Bozzi, nel lontano 1983. Il guaio è che confligge con lo “spirito della Costituzione”, che molti evocano a sproposito e che volle, per l’Italia, un governo debolissimo. I fronti sono due: a. i poteri del presidente dentro al governo, consentendogli di guidarlo effettivamente, e non solo a chiacchiere, di nominare i ministri, ma anche di revocarli; b. i poteri del governo in Parlamento, in modo da consentire all’esecutivo di imporre il calendario di lavoro, senza ricorrere patologicamente alla decretazione d’urgenza. I ragionanti condividono questi obiettivi, senza distinzione di schieramento. Da ultimo, infatti, erano ingredienti della commissione bicamerale presieduta da D’Alema. Il fatto è che si costituzionalizzò l’equilibrio dell’impotenza, nel presupposto che il governo fosse più il covo di possibili regimi che non la sede dove s’amministra l’Italia. Contò l’epoca, con l’esperienza fascista appena alle spalle, ma contò anche la forte presenza comunista, così come il non dominio degasperiano, in quel momento, sul partito dei cattolici. Non ci si fidava, insomma, ed era meglio non dar poteri. Negli anni della solidarietà nazionale, con la presidenza della Camera affidata al comunista Ingrao, la situazione s’aggravò, con fior di costituzionalisti che sbrodolavano sulla “centralità del Parlamento”, il cui reale significato era: si decide qui, in accordo con il Pci, e non a Palazzo Chigi. Ecco, quella roba è ancora in piedi, ma senza più né protagonisti né ragioni. Disfunzione allo stato puro. Si potrebbe voltare pagina, sarebbe ora. Si dovrebbe farlo in Parlamento, senza preclusioni di schieramento. E qui casca l’asino. Ciascuno tende ad impedire che l’altro lo faccia, felice di vederlo annaspare nell’inconcludenza. Oggi tocca alla sinistra, che, evidentemente, non trova abbastanza convincente, o divertente, lo spettacolo di un Berlusconi che periodicamente si presenta nuovo e scalpitante, come se non avesse mai governato. Se fossero saggi, gli toglierebbero la possibilità di scaricare altrove il peso degli insuccessi, ma sono occupati a far credere che la libertà è in pericolo. Lui caimano, loro oche.
mercoledì 1 aprile 2009
Il caimano e le oche
di Davide Giacalone
Servono più poteri, per il governo e per chi lo presiede. E’ un’esigenza che hanno sentito e manifestato tutti, a turno. Compresa già nei lavori della commissione Bozzi, nel lontano 1983. Il guaio è che confligge con lo “spirito della Costituzione”, che molti evocano a sproposito e che volle, per l’Italia, un governo debolissimo. I fronti sono due: a. i poteri del presidente dentro al governo, consentendogli di guidarlo effettivamente, e non solo a chiacchiere, di nominare i ministri, ma anche di revocarli; b. i poteri del governo in Parlamento, in modo da consentire all’esecutivo di imporre il calendario di lavoro, senza ricorrere patologicamente alla decretazione d’urgenza. I ragionanti condividono questi obiettivi, senza distinzione di schieramento. Da ultimo, infatti, erano ingredienti della commissione bicamerale presieduta da D’Alema. Il fatto è che si costituzionalizzò l’equilibrio dell’impotenza, nel presupposto che il governo fosse più il covo di possibili regimi che non la sede dove s’amministra l’Italia. Contò l’epoca, con l’esperienza fascista appena alle spalle, ma contò anche la forte presenza comunista, così come il non dominio degasperiano, in quel momento, sul partito dei cattolici. Non ci si fidava, insomma, ed era meglio non dar poteri. Negli anni della solidarietà nazionale, con la presidenza della Camera affidata al comunista Ingrao, la situazione s’aggravò, con fior di costituzionalisti che sbrodolavano sulla “centralità del Parlamento”, il cui reale significato era: si decide qui, in accordo con il Pci, e non a Palazzo Chigi. Ecco, quella roba è ancora in piedi, ma senza più né protagonisti né ragioni. Disfunzione allo stato puro. Si potrebbe voltare pagina, sarebbe ora. Si dovrebbe farlo in Parlamento, senza preclusioni di schieramento. E qui casca l’asino. Ciascuno tende ad impedire che l’altro lo faccia, felice di vederlo annaspare nell’inconcludenza. Oggi tocca alla sinistra, che, evidentemente, non trova abbastanza convincente, o divertente, lo spettacolo di un Berlusconi che periodicamente si presenta nuovo e scalpitante, come se non avesse mai governato. Se fossero saggi, gli toglierebbero la possibilità di scaricare altrove il peso degli insuccessi, ma sono occupati a far credere che la libertà è in pericolo. Lui caimano, loro oche.
Servono più poteri, per il governo e per chi lo presiede. E’ un’esigenza che hanno sentito e manifestato tutti, a turno. Compresa già nei lavori della commissione Bozzi, nel lontano 1983. Il guaio è che confligge con lo “spirito della Costituzione”, che molti evocano a sproposito e che volle, per l’Italia, un governo debolissimo. I fronti sono due: a. i poteri del presidente dentro al governo, consentendogli di guidarlo effettivamente, e non solo a chiacchiere, di nominare i ministri, ma anche di revocarli; b. i poteri del governo in Parlamento, in modo da consentire all’esecutivo di imporre il calendario di lavoro, senza ricorrere patologicamente alla decretazione d’urgenza. I ragionanti condividono questi obiettivi, senza distinzione di schieramento. Da ultimo, infatti, erano ingredienti della commissione bicamerale presieduta da D’Alema. Il fatto è che si costituzionalizzò l’equilibrio dell’impotenza, nel presupposto che il governo fosse più il covo di possibili regimi che non la sede dove s’amministra l’Italia. Contò l’epoca, con l’esperienza fascista appena alle spalle, ma contò anche la forte presenza comunista, così come il non dominio degasperiano, in quel momento, sul partito dei cattolici. Non ci si fidava, insomma, ed era meglio non dar poteri. Negli anni della solidarietà nazionale, con la presidenza della Camera affidata al comunista Ingrao, la situazione s’aggravò, con fior di costituzionalisti che sbrodolavano sulla “centralità del Parlamento”, il cui reale significato era: si decide qui, in accordo con il Pci, e non a Palazzo Chigi. Ecco, quella roba è ancora in piedi, ma senza più né protagonisti né ragioni. Disfunzione allo stato puro. Si potrebbe voltare pagina, sarebbe ora. Si dovrebbe farlo in Parlamento, senza preclusioni di schieramento. E qui casca l’asino. Ciascuno tende ad impedire che l’altro lo faccia, felice di vederlo annaspare nell’inconcludenza. Oggi tocca alla sinistra, che, evidentemente, non trova abbastanza convincente, o divertente, lo spettacolo di un Berlusconi che periodicamente si presenta nuovo e scalpitante, come se non avesse mai governato. Se fossero saggi, gli toglierebbero la possibilità di scaricare altrove il peso degli insuccessi, ma sono occupati a far credere che la libertà è in pericolo. Lui caimano, loro oche.
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