sabato 9 maggio 2009

Il comunismo...

Walesa: "Il comunismo? E' un virus che resiste..." di Luciano Gulli

L’elettricista dei cantieri Lenin che divenne presidente della Repubblica, e una volta perfino premio Nobel, è raggiante come sempre, beato lui. Vestito come se dovesse andare a colazione con l’arcivescovo di Miranda e Braganza, o con l’ambasciatore dell’Inguscezia (abito grigio perla, camicia bianca, cravatta e fermacravatta d’oro modello ministero dell’Interno polacco 1964) Lech Walesa controlla l’orologio come se una berlina rombasse già, davanti all’austera facciata dell’albergo milanese che lo ospita. Lo aspettano a Genova, in effetti. Non c’è tempo da perdere. I vent’anni dalla caduta dei Muri son qui. E lui, che di quell’epoca è stata una star, è piuttosto conteso. Un’intervista? Va bene. Ma presto, presto! Non lo vedevo da anni, e ora scopro che non è cambiato per nulla. Energico, cordiale, falstaffiano nei gesti e nella figura, a 65 anni Walesa ricorda ancora da vicino l’energumeno che un po’ di tempo fa, a braccetto con un suo amico Papa (altro grande trascinatore) impiombò le ali del comunismo, che nel gelo a spigolo vivo dei 54 gradi e 22 primi di latitudine nord di Danzica (e dintorni, certo) andava allora per la maggiore. Era la grande stagione di Solidarnosc, la rivoluzione non violenta messa in scena da moltitudini di operai e dalle «divisioni» del Papa, armate di rosari e di una fede tosta e sfacciata che costrinsero il regime alla trattativa. Lui, Walesa, fu il leader carismatico di quella trascinante opposizione democratica che vinse a mani basse le prime elezioni libere disputate all’interno dell’immenso Cerchio di ferro stretto in Europa dal comunismo sovietico. La trovo in forma smagliante «Come si può star male in Italia? Quando sono nel vostro Paese mi assale la solita vena romantica. Mi spiace che non ci sia mia moglie. Le farei ancora una dichiarazione d’amore».

Vent’anni dopo la caduta del muro di Berlino c’è ancora una certa nostalgia di socialismo, in giro per l’Europa. C’è nell’ex Ddr, e c’è in tutti gli altri Paesi che facevano parte della cintura sovietica, Polonia compresa. Come il rimpianto di una grande mamma, severa, arcigna, ma giusta. «Ci vorranno due o tre, e forse anche quattro generazioni per dimenticare, per superare il passato, voltare pagina. Ci siamo illusi che la convalescenza potesse essere più breve. Ma è stata un’illusione. Quanto alla mamma... Il comunismo in realtà è stato un sistema dove tutti mettevano il proprio contributo nella stessa pentola, e chi era più forte prelevava di più».

Naturalmente, là dove la malattia è stata più lunga, altrettanto laboriosa e complicata, e magari anche incerta, nell’esito, sarà la convalescenza. «Proprio così. Lei intende la Russia, vero? Lì la “felicità comunista”, come la chiamavano, è durata così tanto che la transizione verso la democrazia sarà un processo lungo e certamente difficile. Insomma: un conto è affrontare un viaggio a bordo di una Fiat. E un altro conto è mettersi in viaggio su un Tir che si porta appresso due rimorchi. Oppure, se preferisce, pensi a quel che succederebbe in Inghilterra se dovessero cambiare il senso di marcia dei veicoli dall’oggi al domani. Si immagina che manicomio? La stessa cosa vale per i Paesi che gravitavano nell’orbita di Mosca. Tracce di socialismo resistono ancora non solo nelle coscienze, ma anche nella mentalità, nell’approccio ai gesti di tutti i giorni».

Sta dicendo che il passaggio dai piani quinquennali all’economia di mercato è stato troppo veloce? «Be’, non c’è dubbio che il cambiamento dal comunismo al capitalismo, così come l’abbiamo sperimentato, ricorda il tragitto, talvolta fulmineo, che c’è fra l’acquario e la zuppa di pesce. Ma anche il contrario: dalla zuppa di pesce all’acquario, non è un passo semplice da compiere».

A proposito di Russia. C’è da temere un ritorno al passato, una voluttà di egemonia in Europa? «Mah. A me pare che la Russia si stia muovendo in una direzione giusta, pacifica. Oggi non è più una superpotenza. Ogni tanto ha solo qualche ruggito da superpotenza. Ma è un atteggiamento che va capito».

Lei si fida di Putin? «Io conosco due Putin. Il primo, quello di cui mi fido, tiene la Russia fortemente in pugno, avviandola in una giusta direzione di riforme. L’altro è il Putin del Kgb, quello che dice: ora ve la faccio vedere io. È il Putin che sogna una rivalsa. Ecco, questo non mi piace. È il Putin che non va aiutato».

Vent’anni dopo la caduta del Muro nessuno sembra avere trovato la ricetta di un futuro armonico, in cui si diluiscano le tensioni economiche e politiche, e anche quelle culturali scaturite dalla caduta dei blocchi. «È vero. Finora non siamo stati in grado di elaborare un nuovo approccio che dia a noi europei la sensazione e l’orgoglio di appartenere a un’entità comune. Ecco, la sfida che ci aspetta, quella di un’Europa veramente unita, è questa. Dobbiamo ragionare in termini di legami profondi, pur nella diversità; pensare a una democrazia dei diritti e dei doveri, dove il livello di vita nei singoli Paesi sia più uniforme».

Un’Europa unita, si dice, potrebbe un domani prendere il posto degli Stati Uniti, avviati a un lento declino economico e dunque politico. «Io ragionerei in termini diversi. Io dico che un’Europa forte può dare un grande sostegno agli Usa. E viceversa. Un insensato confronto, un’accesa rivalità non serve a nessuno. Dobbiamo agire di comune accordo, questo è il nostro ineludibile destino. Se gli Usa non sperpereranno tanti soldi per gli armamenti potranno dire ancora molto in tanti campi. Pensi alla scienza, alla ricerca, ai viaggi su Marte... ».

Non abbiamo ancora parlato di Giovanni Paolo II. Che ricordo ha di papa Wojtyla? «Nel momento in cui morì mi mancò molto. Per me fu una tragedia. Litigai con Dio. Gli dicevo che era ingiusto, che non poteva portarcelo via. Dopo un’ora di preghiera ebbi la mia risposta. Sì, proprio come se Dio mi dicesse: “Ehi ragazzo, ma che dici? Non ti pare che Karol ti abbia già indicato la strada: e cioè come fare, come agire, come condurti?”. Ecco, in quel momento mi sono vergognato di aver dubitato».

Quanto è presente, ancora oggi, Giovanni Paolo II nello spirito del suo popolo? «Sa come è fatto l’uomo, no? Quando i tempi sono duri, tutti si ricordano di lui e lo invocano. Quando le cose vanno per il meglio, allora tutti si scordano il bene che ci ha fatto».

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