sabato 4 settembre 2010
Scontro di civiltà
Huntington e l'asse islamico-confuciano. Come l'Occidente può vincere lo scontro di civiltà di Ayaan Hirsi Ali
Cos’è che hanno in comune le polemiche nate attorno alla moschea nei pressi di Ground Zero, lo sfratto dei missionari americani dal Marocco all’inizio di quest’anno, la messa a bando dei minareti in Svizzera l’anno scorso e la recente proibizione del burqa in Francia? Tutt’e quattro sono state presentate sui media occidentali come questioni di tolleranza religiosa. Ma non è quella la loro sostanza. Essenzialmente, sono tutti sintomi di ciò che il defunto politologo Samuel Huntington ha definito lo “Scontro delle Civiltà”, in particolare lo scontro tra l’Islam e l’Occidente. Vale la pena, per chi ora ricorda soltanto il suo suggestivo titolo, riassumere in breve le argomentazioni di Huntington. La componente essenziale del mondo post-Guerra Fredda - scriveva - è costituito da sette o otto civiltà storiche tra le quali quella occidentale, quella musulmana e quella confuciana sono le più importanti.
L’equilibrio di potere fra queste civiltà - spiegava - è instabile. Il potere relativo dell’Occidente è in declino, l’Islam attraversa una fase di esplosione demografica e le civiltà asiatiche - in particolare la Cina - sono economicamente in ascesa. Huntington, inoltre, affermava che sta emergendo un ordine mondiale fondato sulla civiltà, un ordine nell’ambito del quale quegli Stati che hanno affinità culturali collaborano e si raggruppano intorno agli Stati guida della propria civiltà. Le aspirazioni universalistiche dell’Occidente lo stanno sempre più mettendo in conflitto con le altre civiltà, e in modo più grave con l’Islam e con la Cina. Così la sopravvivenza dell’Occidente dipende dagli americani, dagli europei e dagli altri occidentali che riaffermano come unica la propria comune civiltà. E che si uniscono per difenderla dalle minacce rappresentate dalle civiltà non occidentali.
Il modello di Huntington, specialmente dopo la caduta del comunismo, non fu benvoluto. L’idea più in voga venne sviluppata nel saggio di Francis Fukuyama del 1989 “La fine della storia”, nel quale scrisse che tutti gli Stati avrebbero trovato una convergenza su un unico standard istituzionale di democrazia capitalistica liberale e che non sarebbero mai andati in guerra l’uno contro l’altro. L’equivalente roseo scenario neoconservatore era quello di un mondo “unipolare” di una egemonia americana senza rivali. In entrambi i casi, eravamo diretti verso un Mondo Unico. Il presidente Obama, a modo suo, è uno da Mondo Unico. Nel suo discorso al Cairo del 2009 ha fatto appello per una nuova era di armonia tra gli Stati Uniti e il mondo musulmano. Si tratterebbe di un mondo fondato sul “reciproco rispetto e… sulla verità in base alla quale l’America e l’Islam non sono esclusivi e non hanno bisogno di entrare in competizione. Al contrario, convergono e condividono principi comuni”. La speranza del presidente era che i musulmani moderati avrebbero accettato con entusiasmo un tale invito all’amicizia. Della minoranza estremista - attori lontani dallo Stato come al Qaeda - ci si sarebbe potuti liberare con i droni.
Ovviamente poi le cose non sono andate secondo i piani. E una perfetta dimostrazione della futilità di un approccio del genere e della superiorità del modello di Huntington è il recente comportamento della Turchia. Secondo il punto di vista da Mondo Unico, la Turchia è un’isola di moderazione islamica in un mare di estremismo. Più d’un presidente americano, consecutivamente, ha esortato l’Unione europea ad accettare la Turchia come membro in base a questo assunto. Ma l’illusione della Turchia come amico moderato dell’Occidente è andata in frantumi. Un anno fa il presidente turco Recep Erdogan si è congratulato con quello iraniano Mahmoud Ahmadinejad per la sua rielezione dopo che questi aveva sfacciatamente rubato la presidenza. Poi, la Turchia ha unito le sue forze con quelle del Brasile nel tentativo di diluire i tentativi, guidati dagli americani, d’intensificare le sanzioni delle Nazioni Unite volte ad arrestare il programma d'armamento nucleare iraniano. Più di recente, la Turchia ha sponsorizzato la “flotta di aiuti umanitari” progettata per infrangere il blocco israeliano di Gaza e consegnare ad Hamas una vittoria nelle pubbliche relazioni.
È vero, a Istanbul restano dei secolaristi che ancora venerano l’eredità di Mustafa Kemal Ataturk, fondatore della repubblica turca. Ma non hanno alcuna presa sui ministeri chiave del governo, e anche quella sull’esercito si sta facendo scivolosa. Oggi il dibattito a Istanbul è incentrato piuttosto apertamente su di una “alternativa ottomana” che si rifà ai tempi in cui il Sultano governava un impero che si estendeva dal Nord Africa al Caucaso. Se non si può più contare sull'avvicinamento della Turchia all’Occidente, su chi si potrà contare nel mondo islamico? Tutti i paesi arabi, eccetto l’Iraq - una democrazia precaria creata dagli Stati Uniti - sono governati da despoti di vario tipo. E tutti i gruppi di opposizione che godono di qualche significativo appoggio da parte delle popolazioni locali sono guidati da organizzazioni islamiste come la Fratellanza Musulmana egiziana.
In Indonesia e in Malesia, i movimenti islamisti chiedono l’espansione della Shariah. In Egitto, il tempo di Hosni Mubarak è ormai agli sgoccioli. Gli Stati Uniti dovrebbero appoggiare l’ascesa di suo figlio? In questo caso, il resto del mondo islamico finirà ben presto per accusare l’amministrazione Obama di adottare due pesi e due misure; se si sono fatte elezioni per l’Iraq, perché allora non per l’Egitto? Gli analisti hanno osservato che, in elezioni libere e imparziali, una vittoria della Fratellanza Musulmana sarebbe tutt’altro che da escludere. Algeria? Somalia? Sudan? È difficile pensare a uno solo dei paesi a maggioranza musulmana che si comporti secondo il copione del Mondo Unico.
Il vantaggio più grande del modello di relazioni internazionali di Huntington basato sulle civiltà è di rispecchiare il mondo così com’è, e non come vorremmo che fosse. Ci consente di distinguere gli amici dai nemici. Ci aiuta a identificare i conflitti interni alle civiltà, in particolare le storiche rivalità fra arabi, turchi e persiani per la leadership nel modo islamico. Tuttavia il divide et impera non può costituire la nostra unica politica. Dobbiamo riconoscere la misura in cui l’avanzare dell’Islam radicale è il risultato di una attiva campagna di propaganda. Secondo un rapporto della Cia stilato nel 2003, i sauditi hanno investito almeno due miliardi di dollari l’anno in un arco di tempo di trent’anni per diffondere il proprio marchio d’Islam radicale. La risposta dell’Occidente nel promuovere la nostra civiltà è stata insignificante. La nostra non è una civiltà indistruttibile: ha bisogno di essere difesa attivamente. E questa con ogni probabilità è stata l’intuizione più importante avuta da Huntington. Il primo passo verso la vittoria di questo scontro di civiltà consiste nel capire in che modo l’altra parte lo conduce. E liberarci dell’illusione del Mondo Unico.
© The Wall Street Journal - Traduzione Andrea Di Nino
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