venerdì 3 settembre 2010

Convertite...


«Il velo rende pubblica la tua conversione ma dietro a questa scelta c'è una profonda riflessione spirituale», osserva l'italiana Debora offrendoci il caffè e una fetta di torta. Trentatré anni, da dieci sposata con un senegalese e musulmana da cinque, si è diplomata al linguistico e a casa parla francese oppure wolof, imparato in Senegal. L'arabo è riservato alle preghiere, l'italiano lo usa con il marito per non farsi capire dai bambini, anche se ha l'impressione che ormai lo comprendano.

Siamo al quartiere Falchera, estrema periferia di Torino. Casermoni uguali, immersi nel verde. Debora abita in un appartamento luminoso al secondo piano. I citofoni non funzionano, «li hanno incendiati qualche giorno fa». E in ogni caso meglio non suonare il campanello, per non svegliare i quattro bambini. La nonna materna saluta e lascia la stanza. Lo sguardo rispettoso di Debora si posa sulla madre e spiega che non è stato facile portare in famiglia «un Bin Laden nero».

Inizia scherzando per passare a questioni serie: «Sono nata cristiana, non ero praticante, sono diventata atea. Cercavo dio, ma più studiavo e più sentivo il vuoto. A essere determinante è stato mio marito. Non mi ha chiesto di convertirmi né obbligata a mettere il velo, anche perché mia suocera non lo porta. Più che musulmano è un mistico, mi ha insegnato che la pratica è uno strumento per raggiungere dio, non il fine, e mi ha consigliato di cercarlo attraverso la preghiera e la sofferenza». Ed è con questo spirito che Debora ha affrontato il primo digiuno del Ramadan. Le sue riflessioni ne sollecitano altre. «Anch'io mi sono avvicinata all'Islam a causa di un dolore profondo - spiega Khadija -: con il primo marito non stavo bene, volevo lasciarlo ma l'educazione cattolica me lo impediva». Alla fine ha trovato la forza per andarsene. Ma precisa: «Se divorzi il trono di Allah trema, è una scelta dolorosa ma se la tua unione è infelice devi farla». Trentaquattro anni, di origine pugliese, Khadija ha un figlio di sedici anni da una precedente unione e un bambino di venti mesi dal nuovo compagno, marocchino, con cui ha contratto un matrimonio islamico.

All'anagrafe Khadija si chiama Ada, al momento della conversione Debora ha scelto il nome di Diarra (Miriam) e dato lo stesso nome alla primogenita di cinque anni che porta il foulard rosa shocking a mo' di bandana, legato dietro. Non frequenta la scuola materna e a settembre andrà in prima elementare: «Spero di essere già in Senegal, inshallah, il mio obiettivo non è l'integrazione ma comunicare l'Islam e portare l'altro verso di me». Quando le chiedo a quale scuola giuridica faccia riferimento (nell'Islam sunnita ce ne sono quattro) risponde: «Non accetto alcuna scuola di interpretazione perché davanti a dio non avrò né avvocati né intermediari».

Tra poco abbiamo appuntamento al mercato di Porta Palazzo, dove Khadija ha un banco di verdura. Davanti all'edicola incontriamo Mujahida, una delle pochissime donne di Torino a indossare il niqab, il velo integrale che lascia scoperti solo gli occhi, di un nocciola vellutato. Diplomata al liceo classico dai gesuiti, parla bene inglese, è spigliata, ha studiato i testi dell'Islam e suscita l'ammirazione delle altre. Neanche Mujahida manda i suoi tre bambini all'asilo, tiene un blog sull'homeschooling (fare scuola a casa) e ha in progetto di andarsene perché qui «è difficile che i figli diventino praticanti anche se il maschietto di quattro anni già prega con me».

Ha ventisette anni, non è mai stata in un paese musulmano, nemmeno in Egitto a conoscere la famiglia del marito. Vorrebbe emigrare in Marocco, ma le hanno detto che anche lì c'è fitna, disordine. Sarebbe meglio l'Arabia Saudita, ma ha divorziato e non ha un parente maschio che possa andare a vivere con lei. Un'amica le ha parlato di Londra, dove l'ambiente islamico è più favorevole e potrebbe avere maggiori sussidi familiari rispetto ai miseri 1.400 euro l'anno che riceve in Italia.

Le altre convertite trattano Mujahida come una sorella, prendendola in giro con affetto: «Occhi tanto sensuali creano fitna, dovresti coprire pure quelli». Dico loro che in Iran non ho mai visto una donna con il niqab, mi guardano incredule. Ammirano la scelta di Mujahida e mentre passiamo tra i banchi del mercato un anziano maghrebino commenta che «è così che le vere musulmane dovrebbero vestirsi». Khadija capisce ma non condivide: «La mia missione è portare il messaggio dell'Islam, da quando mi copro con il foulard persone che conosco da sempre mi hanno tolto il saluto. Con il niqab sarebbe tutto più difficile». E Aisha aggiunge: «In banca ho avuto problemi a entrare».

Strappare un'intervista a Mujahida non è facile, in prima battuta non voleva nemmeno unirsi a noi. Il suo nome vuol dire "combattente". Spiega che «il jihad maggiore (inteso come impegno) lo dobbiamo fare nei confronti del nostro ego». Per questo preferisce non raccontare troppo di sé. Lo fa solo per spiegare le ragioni della sua scelta: «Credo nel Corano e nella Sunna (la Tradizione) interpretati dai salaf, i primi seguaci». È favorevole alla poligamia perché, ironizza, «così non ce l'hai tutti i giorni tra i piedi», poi spiega, seria, che in questo modo si aiutano tante donne sole.

Mujahida è d'accordo anche sulle pene corporali, ma in un contesto islamico e alle condizioni poste dalla rivelazione, tenendo presente che funzionano da deterrente. Firmataria di una lettera al presidente Napolitano sulla legittimità del velo integrale, cita l'articolo 5 della legge 152 del 1975 che vieta "l'uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo". E aggiunge che «la religione è un ottimo motivo per coprirsi» e quindi in Italia indossare il niqab «dovrebbe essere lecito».

Nonostante il caldo ha i guanti, neri come il velo integrale. Fatima le chiede scherzosamente se copre le mani perché si mangia le unghie. Si sono conosciute alla moschea delle Alpi in via Chivasso, dove Mujahida è stata mandata via in malo modo dall'imam, contrario al niqab. Fatima è di ottimo umore, sta per sposarsi con un marocchino. Dal marito egiziano ha divorziato perché si era preso una seconda moglie senza chiederle il permesso, come previsto dal contratto matrimoniale. Per fortuna, spiega, «le unioni islamiche si sciolgono con meno lungaggini burocratiche». Porta il velo, ma «per evitare grane non lo indosso quando faccio le pulizie in una scuola materna comunale né quando porto a spasso il cane dei miei genitori, per non metterli in difficoltà».

È allegra, come le altre: l'Islam è un fattore di aggregazione e il nostro incontro un momento per conoscersi. A unirle è la conversione e l'aver attraversato un periodo difficile. Sembrano solidali anche se diverse: «Il pluralismo è una benedizione», osserva Jalila Donatella Ferrero della Comunità religiosa islamica italiana mentre sorseggiamo tè alla menta nel Sindbad Kebab di via Milano. Bibliotecaria a Villa Amoretti e presidente dell'Accademia di studi interreligiosi, Jalila non porta il foulard, lo fa «durante la preghiera e nelle occasioni religiose, l'obbligo coranico del velo ha un significato esteriore ma anche interiore, le virtù della discrezione o la necessità di protezione vanno ricercate in ogni momento e in ogni circostanza senza associarle a un lembo di stoffa né creare contrapposizioni identitarie con la società in cui viviamo».

Scegliere l'Islam non è facile. Per strada queste donne velate vengono fermate, qualcuno fa domande, altri insultano. Ormai i bambini di Mujahida e di Aisha sono stanchi, tocca rientrare a casa. Ci salutiamo tra baci, abbracci e tanti salam aleikon. Torno verso San Salvario, altro quartiere ad alta immigrazione. Tra poco farò la spesa al solito banco, quello di Alima, la marocchina di piazza Madama Cristina. Lei il foulard lo ha tolto la scorsa estate. Forse faceva solo troppo caldo, e infatti ogni tanto lo rimette. O forse, lei che è nata nell'Islam, non sente il bisogno di rendere pubblica la sua fede.

1 commenti:

daniele ha detto...

queste so tutte fulminate, la troppa libertà gli ha ottenebrato il cervello.
Speriamo solo che non dobbiamo pagare noi perchè si sono infilate in qualche casino....