lunedì 13 settembre 2010

Quello che non dicono...


Turchia: Erdogan vince il referendum sulle modifiche della costituzione. I quotidiani italiani descrivono l'avvenimento in maniera positiva, vedono nel risultato un avvicinamento della Turchia all'Europa. Uniche eccezioni Enzo Bettiza sulla STAMPA, Mario Dergani su LIBERO. Bettiza scrive: "l'intenzione di Erdogan e dei suoi d'infliggere un colpo decisivo, storicamente il più duro, al potere congiunto di magistrati e di militari che si ergono insieme, fin dal lontano 1923, a custodi integerrimi della tradizione secolare e anticlericale imposta con un misto d'autoritarismo illuminato e spietato ai turchi musulmani dal loro «padre» Kemal Atatürk Mustafa.". Perciò non si tratta di togliere qualche privilegio e l'immunità agli alti gradi dell'esercito che si sono macchiati di crimini contro lo Stato (come sostiene il GIORNALE, nel sottotitolo dopo l'annuncio della vittoria di Erdogan) ma di un' avanzata del piano di islamizzazione della Turchia. Lo Stato laico pensato da Ataturk non è altro che un ricordo. La Turchia sarà sempre più vicina all'Iran e ai Paesi islamici, il suo ingresso in Europa sempre meno attuabile. Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 13/09/29010, a pag. 1-29, l'editoriale di Enzo Bettiza, il massimo esperto sull'argomento, dal titolo "La Turchia di Erdogan cambia pagina", chissà che Marta Ottaviani, che scrive sullo stesso quotidiano, ma che dipinge una situazione decisamente più rosea di quel che è, non lo legga e apprenda qualche notizia sulla Turchia.

Al di là delle previsioni, che anticipavano per Recep Tayyp Erdogan e il suo partito di centrodestra un'affermazione piuttosto risicata, i primi risultati del referendum e dell'affluenza alle urne danno il quadro di un successo per diversi aspetti inatteso. Anzi, sorprendente, per il clima incandescente e da scontro civile in cui si è verificato. Tenuto conto della spaccatura profonda del Paese, si può ben dire che Erdogan è uscito sostanzialmente premiato da una prova plebiscitaria che per tema centrale aveva il giudizio popolare sui suoi movimentati otto anni di governo. Anni a pagella ottima nell'economia che ha continuato a crescere a ritmi «cinesi». Ma, al tempo stesso, molto travagliati nell'ondivago rapporto della Turchia erdoganiana con l'Europa incerta da una parte e le attraenti sirene islamiche dall'altra. Per quanto riguarda l'immediato futuro, si può aggiungere che il contraddittorio personaggio, cautamente maomettano nei costumi, ma liberista all'occidentale nella pratica, si prepara fin d'ora a raccogliere quasi con certezza la terza investitura alle elezioni del 2011.

Quale però è il vero significato, non solo politico ma storico, di questo che possiamo definire come il più delicato e rischioso contenzioso istituzionale della Turchia moderna? Quali incognite stanno per emergere ora da una simile contesa ai ferri corti tra il governo di Tayyp Erdogan, impegnato a emendare una Costituzione varata dopo il colpo di Stato militare del 1980, e le opposizioni laiche impegnate invece a difenderla vedendovi un ultimo baluardo del retaggio kemalista della repubblica turca? Chi analizzi con attenzione le proposte di cambiamento dei 22 articoli della Carta costituzionale, sostenute dal partito islamico moderato Giustizia e Sviluppo, l'Akp capeggiato da Erdogan, s'accorgerà che esse compongono un duplice e non sempre coerente quadro d'intervento. Da un lato una serie di misure intese a perfezionare l'immagine europea della Turchia, con provvedimenti civili favorevoli all'emancipazione della donna, alle cure dell'infanzia, all'istruzione dei giovani. Da un altro lato invece scorgerà l'intenzione di Erdogan e dei suoi d'infliggere un colpo decisivo, storicamente il più duro, al potere congiunto di magistrati e di militari che si ergono insieme, fin dal lontano 1923, a custodi integerrimi della tradizione secolare e anticlericale imposta con un misto d'autoritarismo illuminato e spietato ai turchi musulmani dal loro «padre» Kemal Atatürk Mustafa. E' al pugno e alla volontà di Kemal che la Turchia, europeizzata con metodi asiatici, deve tutto ciò che oggi la propone alla candidatura, sia pure sempre discussa e discutibile, di socia eccezionale dell'Unione di Bruxelles: fu la travolgente mareggiata del kemalismo a laicizzare dopo il califfato lo Stato ex ottomano, a istituire il suffragio universale, a introdurre l'alfabeto latino, il calendario gregoriano, il sistema decimale.

Uno dei dogmi secolari inappellabili fu la netta separazione tra Stato e Chiesa. La religione venne dichiarata «affare privato». Il borsalino sostitui il fez. Il velo islamico sparì dalle scuole. Ismet Inönü, primo ministro e stretto collaboratore del presidente a vita Atatürk, nascondeva in una tasca un Corano tascabile e lo leggeva bisbigliando al figlio nelle ore serali. Dopo la scomparsa del grande presidente della Repubblica laica e del sottomesso capo dell'esecutivo, le vestali di questo secolarismo in grigioverde, duro, occhiuto, europeizzante nei fini ma meno nei metodi, divennero i generali e i giudici della Corte costituzionale. Eredi dello spirito kemalista, s'improvvisavano spesso golpisti controvoglia, dittatori cincinnateschi per così dire ogni volta che, a torto o a ragione, ritenevano di dover arginare con un colpo da caserma la deriva corrotta o, secondo loro, antisecolare e quindi antikemalista di un governo infido. Se necessaria, la ferocia anatolica rientrava nell'uso di queste profilassi golpiste a tempo determinato. Lo stesso premier Erdogan e il suo partito Akp, già allora sospettati di islamismo strisciante, rischiarono nel 2008 di essere spazzati via da un colpo di mano castrense.

Sono cose non del tutto ignote a chi ne sa qualcosa di turchi e di Turchia. Ma oggi, dopo lo scontro concluso con la vittoria plebisciatria di Erdogan, mi sembra si debba ripeterle e rimetterle meglio a fuoco per comprendere che la Turchia ormai non è più quella che conoscevamo fino a ieri. E' avvenuta una svolta, una scissura, in qualche modo è avvenuta dopo quasi un secolo la fine della rivoluzione culturale kemalista, la fine della modernizzazione forzata del solo Paese islamico che impediva ai muezzin d'invitare i fedeli alla preghiera in lingua araba. I militari, il cui superpotere Erdogan da tempo aveva contrastato e limato con metodi non meno duri dei loro, stavolta non hanno alzato la cresta né le baionette. Decimati negli stati maggiori, molti incarcerati, gli epigoni rimasti hanno delegato al perdente partito repubblicano, fondato da Atatürk, il compito di affrontare invano elettoralmente lo straripante Akp islamico; frattanto, con le nuove misure approvate dai «sì» referendari, la Corte costituzionale e il Consiglio di sicurezza nazionale, organismo con cui i militari partecipavano alla vita dello Stato, verranno diluiti con l'immissione di magistrati d'estrazione religiosa. I tribunali militari non potranno più processare civili e, a loro volta i militari, se processati, dovranno subire il verdetto di tibunali ordinari. Non sono quisquilie. Sono eventi di grande portata emblemetica che marcano il crepuscolo del kemalismo e danno inizio a una sorta di controrivoluzione islamica che, del resto, sembra accordarsi alle nuove mosse ideologiche e diplomatiche di Erdogan: sempre più vicino all'Iran, più lontano da Israele, più neutro con l'Occidente in quanto tale e più indifferente o insofferente al ruolo turco una volta importantissimo nell'ambito della difesa atlantica.

Due punti chiave però aspettano sempre una risposta. Uno è l'Europa, in cui non si sa se questa imprevedibile Turchia riuscirà mai a entrare, ma di cui finora si è sempre servita per smantellare nel nome dei diritti civili europei l'europeismo storico e programmatico dei militari e dei magistrati kemalisti. L'altro sono i curdi. Questi, in maggioranza, non hanno votato perché Erdogan non si è pronunciato con chiarezza sullo sbarramento del 10 percento imposto già dai militari (Bruxelles in proposito tace). I curdi vedono qui un'arma costituzionale rimasta quale era, la sentono mirata a escluderli dal gioco parlamentare, e ora minacciano di riprendere il sentiero della guerriglia e degli attentati. Non facile dilemma per Erdogan. Contentare i curdi abbassando lo sbarramento e irritando le masse nazionaliste turche? Oppure ricorrere ai militari, da lui stesso depotenziati, per far fronte all'insorgenza di quella temibile minoranza ribelle? La storia turca ha voltato pagina. Ma, come si vede, restano ancora tante da voltare, non si sa come, non si sa quando, non si sa con chi.

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