Fra quindici giorni saremo sommersi dalle nenie lamentose, tradizionalmente inauguranti l’anno giudiziario. Saremo aggiornati sul quadro del disfacimento, posto che ciascuno darà la colpa a qualcun altro, confermando la generale irresponsabilità dei protagonisti. Prima che lo strazio cominci, vi segnalo due nomi, invitandovi a considerazioni non conformistiche e banali: Calogero Mannino e Giovanni Sbraga. Il primo sapete chi è, il secondo, con ogni probabilità, non lo avete mai sentito nominare. Mannino, esponente importante della democrazia cristiana, siciliana e nazionale, riceve un avviso di garanzia nel febbraio del 1994. Lo arrestano un anno dopo. Se avesse voluto e potuto inquinare le prove, lo avrebbe già fatto, se fosse voluto fuggire all’estero sarebbe già andato, in quanto alla reiterazione, omesse altre considerazioni, era impossibile, visto che lo avevano già fatto fuori. L’arresto, pertanto, sarebbe considerato incivile in tutti i Paesi civili. Non tale, è l’Italia. Lo scarcerano nel novembre del 1995, dopo avere passato nove mesi in carcere ed essere divenuto una larva. Lo mandano ai domiciliari, fino al gennaio successivo. Altra, inutile umiliazione. Lo processano per sei anni. Assolto, nel luglio del 2001. Basta, in un Paese civile la faccenda si chiude lì, con le scuse dello Stato ed essendo durata già troppo a lungo. La procura, invece, ricorre, e in appello, nel maggio del 2004, lo condannano. La cassazione cancella la condanna e ordina un nuovo processo di secondo grado, che lo assolve ancora, nell’ottobre del 2008. Giovedì scorso la parola fine. Ha detto Mannino: “mi hanno tolto un pezzo di vita”. Sapendo di cosa parlo, non concordo. Il pezzo di vita è stato tolto all’Italia, alla vita collettiva, alla credibilità delle istituzioni. Sbraga era solo un sindaco di paese, Subiaco. Inquisiscono lui e la giunta, nel 1992, arrestando dodici persone (chiedo scusa se non li cito tutti). Lo tengono settanta giorni a marinare in quel di Regina Coeli. L’11 gennaio scorso è stato assolto. In primo grado. Ci sono voluti diciotto anni per fare un grado di giudizio. Dice Sbraga: “ho ancora gli incubi”. Lo capisco. Ma l’incubo più grosso è quello collettivo, quello di un Paese ostaggio della malagiustizia, che non riesce ancora a riscattarsi. Mannino lo sa: l’accusa dura lustri, l’assoluzione un solo giorno. Egli è innocente, ma qualsiasi ruminante, che presta servizio nel giornalismo o nella politica, potrà dire di lui: al centro di inchieste, lungamente detenuto, accusato di reti infamanti. Sbraga ancora non lo sa, ma l’ingiustizia è cieca. La procura ricorrerà, tanto non le costa. Paghiamo noi. In tutti i sistemi di diritto esiste sempre la possibilità dell’errore. Non è eliminabile, non del tutto. La mostruosità del sistema italiano è che più sbagli e più fai carriera. I procuratori protagonisti di queste vicende ne hanno guadagnato in visibilità, scalando poi una carriera fatta d’anzianità e destinazioni. Sono stati gratificati nel loro amor proprio, ed hanno messo a frutto i loro eroismi per sgomitare e scansare quelli che sgobbano silenti. E quando, fra quindici giorni, gli ermellini racconteranno la giustizia ai cittadini, diranno che sì, le cose non funzionano come dovrebbero, ma ci sono pochi soldi (ne spendiamo troppi), pochi magistrati (ne abbiamo un esercito), pochi cancellieri (una folla), e, poi, c’è la politica, che intralcia. E l’ultima cosa è anche vera, perché il legislatore ammacca, scassa, salda, sega, incolla, ma non sa riformare. Si giochicchia con robetta insulsa, ma si ha paura a mettere le mani nella macchina. Si provvede agli indulti o ai posti in carcere, ma si fa finta di non sapere che più della metà degli ospiti sono innocenti. Così come, naturalmente, c’è un sacco di colpevoli in circolazione. Ma la causa è la medesima: una giustizia pessima. Il problema vero, però, non è questo. Se lo fosse, lo si risolverebbe. Non è difficile. Il problema è che la misera della politica italiana è germogliata nel fin troppo concimato terreno della magistratura corporativizzata e correntizzata. O viceversa, fate voi. Della giustizia non importa niente, perché Mannino sarà colpevole, da assolto, Berlusconi lo si vuole colpevole, senza sentenza. Sicché, alla fine, neanche le condanne valgono una cicca, e quel che conta e la guerra per bande. E Sbraga se ne sta lì, inutilmente devastato. Senza che noi sapremo mai se fu un buon o un cattivo amministratore, come, adesso, non si può dire che gli amici di Andreotti hanno sfregiato la Sicilia e non si può sostenere che Mannino aveva un’idea diversa dalla mia, circa la spesa pubblica. Non si può, perché questa sarebbe politica, che presuppone idee, cultura e morale. Invece, ci tocca il teppismo cieco del moralismo senza etica. Ora andiamo pure alle cerimonie d’inaugurazione, l’unico luogo dove s’esibiscono le toghe rosse, con il collo di pelliccia.
domenica 17 gennaio 2010
Magistratura
Prima che gli ermellini parlino di Davide Giacalone
Fra quindici giorni saremo sommersi dalle nenie lamentose, tradizionalmente inauguranti l’anno giudiziario. Saremo aggiornati sul quadro del disfacimento, posto che ciascuno darà la colpa a qualcun altro, confermando la generale irresponsabilità dei protagonisti. Prima che lo strazio cominci, vi segnalo due nomi, invitandovi a considerazioni non conformistiche e banali: Calogero Mannino e Giovanni Sbraga. Il primo sapete chi è, il secondo, con ogni probabilità, non lo avete mai sentito nominare. Mannino, esponente importante della democrazia cristiana, siciliana e nazionale, riceve un avviso di garanzia nel febbraio del 1994. Lo arrestano un anno dopo. Se avesse voluto e potuto inquinare le prove, lo avrebbe già fatto, se fosse voluto fuggire all’estero sarebbe già andato, in quanto alla reiterazione, omesse altre considerazioni, era impossibile, visto che lo avevano già fatto fuori. L’arresto, pertanto, sarebbe considerato incivile in tutti i Paesi civili. Non tale, è l’Italia. Lo scarcerano nel novembre del 1995, dopo avere passato nove mesi in carcere ed essere divenuto una larva. Lo mandano ai domiciliari, fino al gennaio successivo. Altra, inutile umiliazione. Lo processano per sei anni. Assolto, nel luglio del 2001. Basta, in un Paese civile la faccenda si chiude lì, con le scuse dello Stato ed essendo durata già troppo a lungo. La procura, invece, ricorre, e in appello, nel maggio del 2004, lo condannano. La cassazione cancella la condanna e ordina un nuovo processo di secondo grado, che lo assolve ancora, nell’ottobre del 2008. Giovedì scorso la parola fine. Ha detto Mannino: “mi hanno tolto un pezzo di vita”. Sapendo di cosa parlo, non concordo. Il pezzo di vita è stato tolto all’Italia, alla vita collettiva, alla credibilità delle istituzioni. Sbraga era solo un sindaco di paese, Subiaco. Inquisiscono lui e la giunta, nel 1992, arrestando dodici persone (chiedo scusa se non li cito tutti). Lo tengono settanta giorni a marinare in quel di Regina Coeli. L’11 gennaio scorso è stato assolto. In primo grado. Ci sono voluti diciotto anni per fare un grado di giudizio. Dice Sbraga: “ho ancora gli incubi”. Lo capisco. Ma l’incubo più grosso è quello collettivo, quello di un Paese ostaggio della malagiustizia, che non riesce ancora a riscattarsi. Mannino lo sa: l’accusa dura lustri, l’assoluzione un solo giorno. Egli è innocente, ma qualsiasi ruminante, che presta servizio nel giornalismo o nella politica, potrà dire di lui: al centro di inchieste, lungamente detenuto, accusato di reti infamanti. Sbraga ancora non lo sa, ma l’ingiustizia è cieca. La procura ricorrerà, tanto non le costa. Paghiamo noi. In tutti i sistemi di diritto esiste sempre la possibilità dell’errore. Non è eliminabile, non del tutto. La mostruosità del sistema italiano è che più sbagli e più fai carriera. I procuratori protagonisti di queste vicende ne hanno guadagnato in visibilità, scalando poi una carriera fatta d’anzianità e destinazioni. Sono stati gratificati nel loro amor proprio, ed hanno messo a frutto i loro eroismi per sgomitare e scansare quelli che sgobbano silenti. E quando, fra quindici giorni, gli ermellini racconteranno la giustizia ai cittadini, diranno che sì, le cose non funzionano come dovrebbero, ma ci sono pochi soldi (ne spendiamo troppi), pochi magistrati (ne abbiamo un esercito), pochi cancellieri (una folla), e, poi, c’è la politica, che intralcia. E l’ultima cosa è anche vera, perché il legislatore ammacca, scassa, salda, sega, incolla, ma non sa riformare. Si giochicchia con robetta insulsa, ma si ha paura a mettere le mani nella macchina. Si provvede agli indulti o ai posti in carcere, ma si fa finta di non sapere che più della metà degli ospiti sono innocenti. Così come, naturalmente, c’è un sacco di colpevoli in circolazione. Ma la causa è la medesima: una giustizia pessima. Il problema vero, però, non è questo. Se lo fosse, lo si risolverebbe. Non è difficile. Il problema è che la misera della politica italiana è germogliata nel fin troppo concimato terreno della magistratura corporativizzata e correntizzata. O viceversa, fate voi. Della giustizia non importa niente, perché Mannino sarà colpevole, da assolto, Berlusconi lo si vuole colpevole, senza sentenza. Sicché, alla fine, neanche le condanne valgono una cicca, e quel che conta e la guerra per bande. E Sbraga se ne sta lì, inutilmente devastato. Senza che noi sapremo mai se fu un buon o un cattivo amministratore, come, adesso, non si può dire che gli amici di Andreotti hanno sfregiato la Sicilia e non si può sostenere che Mannino aveva un’idea diversa dalla mia, circa la spesa pubblica. Non si può, perché questa sarebbe politica, che presuppone idee, cultura e morale. Invece, ci tocca il teppismo cieco del moralismo senza etica. Ora andiamo pure alle cerimonie d’inaugurazione, l’unico luogo dove s’esibiscono le toghe rosse, con il collo di pelliccia.
Fra quindici giorni saremo sommersi dalle nenie lamentose, tradizionalmente inauguranti l’anno giudiziario. Saremo aggiornati sul quadro del disfacimento, posto che ciascuno darà la colpa a qualcun altro, confermando la generale irresponsabilità dei protagonisti. Prima che lo strazio cominci, vi segnalo due nomi, invitandovi a considerazioni non conformistiche e banali: Calogero Mannino e Giovanni Sbraga. Il primo sapete chi è, il secondo, con ogni probabilità, non lo avete mai sentito nominare. Mannino, esponente importante della democrazia cristiana, siciliana e nazionale, riceve un avviso di garanzia nel febbraio del 1994. Lo arrestano un anno dopo. Se avesse voluto e potuto inquinare le prove, lo avrebbe già fatto, se fosse voluto fuggire all’estero sarebbe già andato, in quanto alla reiterazione, omesse altre considerazioni, era impossibile, visto che lo avevano già fatto fuori. L’arresto, pertanto, sarebbe considerato incivile in tutti i Paesi civili. Non tale, è l’Italia. Lo scarcerano nel novembre del 1995, dopo avere passato nove mesi in carcere ed essere divenuto una larva. Lo mandano ai domiciliari, fino al gennaio successivo. Altra, inutile umiliazione. Lo processano per sei anni. Assolto, nel luglio del 2001. Basta, in un Paese civile la faccenda si chiude lì, con le scuse dello Stato ed essendo durata già troppo a lungo. La procura, invece, ricorre, e in appello, nel maggio del 2004, lo condannano. La cassazione cancella la condanna e ordina un nuovo processo di secondo grado, che lo assolve ancora, nell’ottobre del 2008. Giovedì scorso la parola fine. Ha detto Mannino: “mi hanno tolto un pezzo di vita”. Sapendo di cosa parlo, non concordo. Il pezzo di vita è stato tolto all’Italia, alla vita collettiva, alla credibilità delle istituzioni. Sbraga era solo un sindaco di paese, Subiaco. Inquisiscono lui e la giunta, nel 1992, arrestando dodici persone (chiedo scusa se non li cito tutti). Lo tengono settanta giorni a marinare in quel di Regina Coeli. L’11 gennaio scorso è stato assolto. In primo grado. Ci sono voluti diciotto anni per fare un grado di giudizio. Dice Sbraga: “ho ancora gli incubi”. Lo capisco. Ma l’incubo più grosso è quello collettivo, quello di un Paese ostaggio della malagiustizia, che non riesce ancora a riscattarsi. Mannino lo sa: l’accusa dura lustri, l’assoluzione un solo giorno. Egli è innocente, ma qualsiasi ruminante, che presta servizio nel giornalismo o nella politica, potrà dire di lui: al centro di inchieste, lungamente detenuto, accusato di reti infamanti. Sbraga ancora non lo sa, ma l’ingiustizia è cieca. La procura ricorrerà, tanto non le costa. Paghiamo noi. In tutti i sistemi di diritto esiste sempre la possibilità dell’errore. Non è eliminabile, non del tutto. La mostruosità del sistema italiano è che più sbagli e più fai carriera. I procuratori protagonisti di queste vicende ne hanno guadagnato in visibilità, scalando poi una carriera fatta d’anzianità e destinazioni. Sono stati gratificati nel loro amor proprio, ed hanno messo a frutto i loro eroismi per sgomitare e scansare quelli che sgobbano silenti. E quando, fra quindici giorni, gli ermellini racconteranno la giustizia ai cittadini, diranno che sì, le cose non funzionano come dovrebbero, ma ci sono pochi soldi (ne spendiamo troppi), pochi magistrati (ne abbiamo un esercito), pochi cancellieri (una folla), e, poi, c’è la politica, che intralcia. E l’ultima cosa è anche vera, perché il legislatore ammacca, scassa, salda, sega, incolla, ma non sa riformare. Si giochicchia con robetta insulsa, ma si ha paura a mettere le mani nella macchina. Si provvede agli indulti o ai posti in carcere, ma si fa finta di non sapere che più della metà degli ospiti sono innocenti. Così come, naturalmente, c’è un sacco di colpevoli in circolazione. Ma la causa è la medesima: una giustizia pessima. Il problema vero, però, non è questo. Se lo fosse, lo si risolverebbe. Non è difficile. Il problema è che la misera della politica italiana è germogliata nel fin troppo concimato terreno della magistratura corporativizzata e correntizzata. O viceversa, fate voi. Della giustizia non importa niente, perché Mannino sarà colpevole, da assolto, Berlusconi lo si vuole colpevole, senza sentenza. Sicché, alla fine, neanche le condanne valgono una cicca, e quel che conta e la guerra per bande. E Sbraga se ne sta lì, inutilmente devastato. Senza che noi sapremo mai se fu un buon o un cattivo amministratore, come, adesso, non si può dire che gli amici di Andreotti hanno sfregiato la Sicilia e non si può sostenere che Mannino aveva un’idea diversa dalla mia, circa la spesa pubblica. Non si può, perché questa sarebbe politica, che presuppone idee, cultura e morale. Invece, ci tocca il teppismo cieco del moralismo senza etica. Ora andiamo pure alle cerimonie d’inaugurazione, l’unico luogo dove s’esibiscono le toghe rosse, con il collo di pelliccia.
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2 commenti:
la merda c'e' ovunque, ma non bisognerebbe mai fare di tutta un'erba un fascio. jahira
Certo che la merda c'è dovunque. Ma merda come questa, non paga mai i propri sbagli.
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