lunedì 25 gennaio 2010

Kamikaze sotto il burqa

Ritratto delle donne di Al Qaeda e del loro sfrenato desiderio di vendetta di Gaia Pandolfi

Era entrata facilmente nella base americana di Tall Afar, città irachena al confine con la Siria, nel settembre del 2005, senza destare alcun sospetto, sebbene fosse imbottita di tritolo. In nome del “proprio onore e della propria fede” ha ucciso cinque uomini, ma di lei non si è saputo nulla, neppure il nome, soltanto che si è trattato della prima donna terrorista di al Qaida. Un attacco che allora rappresentò una frattura con il passato, come ha scritto la rivista americana Newsweek. Sono trascorsi cinque anni, ma gli episodi di donne che si lasciano saltare in aria in nome di Allah si sono susseguiti sempre più numerosi, tanto che secondo alcuni studiosi americani il pericolo delle donne-kamikaze non è più semplicemente “teorico”. Oggi al Qaida è diventata un’organizzazione terroristica all’avanguardia, sia in Afghanistan che in Pakistan. In Libano è incarnata dalle forze di Hezbollah, in Palestina dall’organizzazione di Hamas e della Jihad islamica. I suoi leader sono ancora intellettuali, dottori ed ingegneri, che, però, non considerano più le donne soltanto come mogli da onorare o icone di cui preservare la virtù. Per il ricercatore giordano Hassan Abu Hanieh, l’ex terrorista internazionale Abu al Zarqawi, ucciso nel giugno del 2006 da un attacco aereo americano, avrebbe cercato di spronare i giovani Musulmani. “Non ci sono uomini, così dovremmo reclutare le donne”, aveva scritto in un messaggio provocatorio, pubblicato da un sito Web vicino ad al Qaida. Secondo una fonte talebana, il medico e “luogotenente” di Osama bin Laden, Ayman al Zawahiri, sarebbe invece uno dei sostenitori della causa femminile all’interno dell’organizzazione terroristica. Già prima della caduta dei Talebani in Afghanistan, nel 2001, Zawahiri cercò di garantire anche alle donne la partecipazione all’addestramento militare. Allora incontrò l’opposizione del Mullah Mohammed Omar, e a nulla valse l’esempio dell’afghana Malalai, la donna che nel Diciannovesimo secolo si era battuta contro l’impero Britannico. Ma oggi si è aperto un nuovo scenario: mogli e vedove dei guerriglieri di al Qaida fanno parte di un’unica, grande famiglia. E’ la vendetta il sentimento principale che spinge queste donne a lanciarsi, cariche di esplosivo, contro qualche obiettivo che possa definirsi “Occidentale”. Sono mogli, spesso giovani, che hanno perso i propri mariti, madri che hanno lasciato partire figli che poi non sono più tornati. In Cecenia sono chiamate “Black Widows” (Vedove Nere), “donne martire”, come quelle che si fecero esplodere in un teatro gremito o nella metropolitana di Mosca. La prima in assoluto, la diciassettenne Hava Baraeva, è diventata una leggenda. “Sorelle, è giunto il nostro momento!”, gridava in un video registrato nel giugno del 2000. La palestinese Wafa Idris, invece, passerà alla storia per essere stata la prima donna-kamikaze nel conflitto mediorientale. A soli 28 anni, si è lasciata saltare in aria il 27 gennaio 2002 a Gerusalemme, uccidendo un giovane israeliano. Le “donne martire” dopo la morte diventeranno degli “angeli più puri e ancor più belli”, ha rivelato Thauria Hamur, catturata dall’esercito israeliano nel 2002, in un’intervista a Newsweek. Paradiso ben diverso da quello che, invece, si attendono i soldati di al Qaida: 72 vergini, dagli occhi neri e la pelle color alabastro.

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