giovedì 28 gennaio 2010

Liberarsi del trattato di lisbona

L'Europa ci costa troppo. Ma uscirne è possibile. Il trattato di Lisbona ha introdotto un’enorme quantità di vincoli, ma anche la possibilità giuridica della secessione di Corrado Sforza Fogliani, Presidente Confedilizia

Il 1° dicembre è entrato in vigore il Trattato di Lisbona sul funzionamento dell’Unione europea. L’Italia (impegnata in un gossip da bordello che sconforta) non se n’è quasi accorta. Eppure, è un Trattato che - ratificato a cuor leggero dal nostro Parlamento, senza alcun coinvolgimento dei cittadini, né diretto né indiretto - condizionerà fortemente il nostro futuro, la nostra autonomia, i nostri comportamenti. Il suo testo - stampato dalla Gazzetta ufficiale dell’Unione europea - pesa kg 1,980, è un groviglio pressoché inestricabile di norme, che ancor più ci consegna ai burocrati di Bruxelles. Oggi, del resto, l’80 per cento delle norme pubblicate sulla nostra Gazzetta è già di origine europea: col Trattato, diventeranno il 90 per cento. Di questa legislazione sconforta la luciferina impostazione da Stato etico. L'ultima cosa che vogliono comandarci di fare è di dimagrire, di mangiar questo e non quell’altro. In questa situazione, in molti si è portati a trovare conforto in una sola considerazione: che fra i tanti vincolismi a cascata che prevede (a cominciare da quelli in materia di giustizia), il Trattato di Lisbona una cosa buona l’ha introdotta, la possibilità giuridica della secessione unilaterale. Che presuppone, peraltro, una maturazione culturale che in Italia neppure si profila, se non considerando il lavoro al proposito di pochi intellettuali d’avanguardia, di impostazione libertaria. Che presuppone, soprattutto, di risolvere - in primis - il problema del rapporto con l’Unione monetaria, con particolare riferimento - comunque - al fatto che, passati gli anni dell’ottimismo obbligatorio (e obbligato), vieppiù si sente nei singoli Paesi (e in Italia in particolare, fin dall’inizio allegramente autopenalizzatasi) il peso del vincolo che non permette ai Paesi stessi di avere un cambio che rifletta la loro precisa situazione economica (Martin Feldstein, da Harvard, l’ha denunciato senza peli sulla lingua e, soprattutto, senza ipocriti inchini a una realtà acriticamente considerata). I costi dell’Europa, d'altra parte, sono enormi (e la nostra Corte dei conti li ha finalmente denunciati apertis verbis). Nel 2008, per di più, l’Europa ha girato al nostro Paese 10 miliardi di euro in meno, rispetto all’anno precedente. Di contro, appartenere all’Unione europea ci è costato di più: nel 2008, gli oneri relativi hanno subìto un’impennata del 73,3 per cento. Mica poco davvero, lo squilibrio è inaccettabile. Questo quadro europeo s’innesta su una situazione italiana nella quale un ottimista per natura come Francesco Micheli - nell’intervista che questa icona della finanza italiana ha concesso a Osvaldo De Paolini - non vede «un comune sentire politico teso a risolvere i problemi». Che è il punto centrale della crisi, a ben vedere. «Il nostro - sono parole di Micheli - è il Paese degli sprechi. In tempi di crisi, le risorse sono scarse e sprecarle è un delitto. Una delle priorità deve perciò essere quella di rendere efficiente la spesa pubblica: sono convinto che, con una scelta decisa, si potrebbe tagliare fino al 30 per cento delle entrate e riqualificare il 70 per cento che resta per coprire le esigenze vere, creando disponibilità soprattutto per le classi meno forti, che potranno così incrementare i consumi. Non sono - conclude in punto Micheli - il solo a sostenerlo: fior di studi sono stati prodotti sull’argomento, ma nessun governo (italiano) ci ha mai provato per davvero». Un esempio? «Abolire il bollo dell'auto, una delle tante fastidiose incombenze - fa presente Micheli - che ci toccano e che potrebbe essere assorbito nel prezzo della benzina». «Provarci per davvero» (ad «affamare la bestia» della spesa pubblica) è l'unica strada per ridare tono alla nostra economia. Ma provarci per davvero, significa voler abbattere incrostazioni quasi secolari, eliminare assurde aree di privilegio, sopprimere enti che vivono solo per mantenersi (i Consorzi di bonifica ne sono un classico esempio) e così via. Significa battersi per davvero contro il nemico che è alle porte: «I dollari messi in circolo - sono parole, ancora, di Micheli - molto presto cominceranno a reclamare il tributo più temuto: un’inflazione crescente che darà fuoco alle polveri della nuova crisi». Provarci per davvero, si diceva. Con Reagan l’inflazione scese da oltre il 10 per cento del 1981 a meno del 4 per cento nel 1983. Per affamare «la bestia», Reagan adottò l'unico metodo possibile: ridurre il carico massimo di imposizione fiscale sul reddito dal 70 per cento del 1980 al 28 per cento del 1986. La spesa non relativa alla Difesa passò dal 4,7 per cento del Pil del 1980 al 3,1 per cento del 1988. Con la Thatcher, poi, l’aliquota fiscale massima sui redditi scese da oltre l'80 per cento, al 40. «I rivoluzionari cambiamenti politici che si sono prodotti negli Stati Uniti e in Gran Bretagna sotto Ronald Reagan e Margaret Thatcher - ha scritto Feldstein - comportarono tali progressi radicali che oggi non è più pensabile fare dietrofront». Reagan e la Thatcher, dunque, ci provarono davvero, e ci riuscirono. Fecero delle riforme vere; dimostrarono che fare riforme vere si può. Ma erano, a loro volta, statisti veri.

1 commenti:

Gianni ha detto...

E certo.Così cementifichiamo un altro po' l'Italia.