Ancora una volta, come ogni anno, si ripete in questi giorni la trita e stantia cerimonia della inaugurazione dell’anno giudiziario. Tuttavia, ascoltando le parole pronunciate in Cassazione dai messimi vertici della magistratura, non si può tacere una sorta di crescente imbarazzo per alcune affermazioni apodittiche e scarsamente fondate sulla realtà. Ancora una volta, infatti, seguendo il corrente andazzo, il procuratore generale Vitaliano Esposito ha rimarcato come il problema più grave sia la durata abnorme dei processi e come perciò debba guardarsi con favore ad ogni misura che, senza depotenziare la magistratura, sia utile alla abbreviazione dei termini dei processi. In realtà, non c’è nulla di più sbagliato che puntare l’indice soltanto sulla durata dei processi, senza rendersi davvero conto delle ragioni che la producono. La principale ragione è strettamente legata alla circostanza che in Italia (unica nazione al mondo) purtroppo, circa il novanta per cento delle sentenze emesse in primo grado dai Tribunali vengono sistematicamente appellate: ciò significa certamente che i tempi medi di quel singolo processo si raddoppiano. Ma significa anche qualcosa di molto più pregnante ed inquietante, su cui bisognerebbe riflettere, ma che invece viene taciuto con assoluta costanza: e cioè che gli utenti dell’amministrazione della giustizia ritengono, per un motivo o per l’altro, che le sentenze rese dai tribunali di prima istanza non sono affidabili, sono cioè ingiuste e perciò meritano di essere appellate. Si badi che ciò si verifica sia nel settore civile che in quello penale, dovendosi anche aggiungere che spesso a proporre appello sono entrambe le parti, cosa che certo complica le cose in secondo grado contribuendo ad allungare i già notevoli tempi. Inoltre, circa il sessanta per cento delle sentenze rese dalle Corti d'Appello viene gravato da ricorsi davanti alla Corte di Cassazione, con ulteriore perdita di tempo. E allora i casi sono due: o gli italiani - compresi gli esponenti del pubblico ministero, i quali impugnano anch’essi le sentenze dei Tribunali - sono afflitti da una grave patologia psichica che li induce ad impugnare sempre e comunque le sentenze, oppure, come sembra più probabile, c’è qualcosa che non funziona come dovrebbe e che, alla fine, causa un abnorme allungamento dei tempi processuali. In proposito, spiace disilludere il procuratore generale della Cassazione il quale secondo le cronache avrebbe affermato che in Italia «tre gradi di giudizio sono un lusso che non ci possiamo permettere»: infatti, è noto che propriamente i gradi di giudizio in Italia sono soltanto due, quello davanti ai Tribunali e quello davanti alle Corti d’Appello, mentre in Cassazione i giudici non valutano i fatti, ma pongono in essere soltanto un controllo sulla congruità della motivazione delle sentenze. Il fatto è allora che i processi durano almeno un decennio, perché tutte le parti o quasi tutte propongono appello o ricorso per cassazione: e ciò accade perché le sentenze dei gradi inferiori sono troppo spesso sbagliate, vale a dire ingiuste. Ne fa fede, il semplice constatare che su cento sentenze impugnate più della metà vengono in tutto o in parte riformate dalle giurisdizioni superiori: come mai nessuno oggi si chiede perché ciò accade? Perché non si fa in modo che i Tribunali di prima istanza emettano sentenze meno soggette ad annullamento o riforma? Risposta: perché è molto difficile farlo, in quanto sarebbe necessario elevare il grado di capacità e di senso del diritto dei giudici di primo e secondo grado. Per ottenere questo miglioramento, bisognerebbe infatti riformare dalle fondamenta l’intero sistema della formazione degli studenti di giurisprudenza e, poi, dei magistrati: una parola! Eppure, se non si pone mente sul serio a questo problema, continuare a rimasticare sulla durata dei processi, vuol dire soltanto riproporre all’infinito il nulla del pensiero. Eppure, Seneca lo sapeva quando notava che chi scrive presto non scrive bene, mentre chi scrive bene scrive rapidamente (cito scribendo non fit ut bene scribatur, bene scribendo fit ut cito): più giuste saranno le sentenze, meno dureranno i processi. Il resto è chiacchiera.
sabato 30 gennaio 2010
Magistratura
Udienze infinite? Troppe sentenze sbagliate di Vincenzo Vitale
Ancora una volta, come ogni anno, si ripete in questi giorni la trita e stantia cerimonia della inaugurazione dell’anno giudiziario. Tuttavia, ascoltando le parole pronunciate in Cassazione dai messimi vertici della magistratura, non si può tacere una sorta di crescente imbarazzo per alcune affermazioni apodittiche e scarsamente fondate sulla realtà. Ancora una volta, infatti, seguendo il corrente andazzo, il procuratore generale Vitaliano Esposito ha rimarcato come il problema più grave sia la durata abnorme dei processi e come perciò debba guardarsi con favore ad ogni misura che, senza depotenziare la magistratura, sia utile alla abbreviazione dei termini dei processi. In realtà, non c’è nulla di più sbagliato che puntare l’indice soltanto sulla durata dei processi, senza rendersi davvero conto delle ragioni che la producono. La principale ragione è strettamente legata alla circostanza che in Italia (unica nazione al mondo) purtroppo, circa il novanta per cento delle sentenze emesse in primo grado dai Tribunali vengono sistematicamente appellate: ciò significa certamente che i tempi medi di quel singolo processo si raddoppiano. Ma significa anche qualcosa di molto più pregnante ed inquietante, su cui bisognerebbe riflettere, ma che invece viene taciuto con assoluta costanza: e cioè che gli utenti dell’amministrazione della giustizia ritengono, per un motivo o per l’altro, che le sentenze rese dai tribunali di prima istanza non sono affidabili, sono cioè ingiuste e perciò meritano di essere appellate. Si badi che ciò si verifica sia nel settore civile che in quello penale, dovendosi anche aggiungere che spesso a proporre appello sono entrambe le parti, cosa che certo complica le cose in secondo grado contribuendo ad allungare i già notevoli tempi. Inoltre, circa il sessanta per cento delle sentenze rese dalle Corti d'Appello viene gravato da ricorsi davanti alla Corte di Cassazione, con ulteriore perdita di tempo. E allora i casi sono due: o gli italiani - compresi gli esponenti del pubblico ministero, i quali impugnano anch’essi le sentenze dei Tribunali - sono afflitti da una grave patologia psichica che li induce ad impugnare sempre e comunque le sentenze, oppure, come sembra più probabile, c’è qualcosa che non funziona come dovrebbe e che, alla fine, causa un abnorme allungamento dei tempi processuali. In proposito, spiace disilludere il procuratore generale della Cassazione il quale secondo le cronache avrebbe affermato che in Italia «tre gradi di giudizio sono un lusso che non ci possiamo permettere»: infatti, è noto che propriamente i gradi di giudizio in Italia sono soltanto due, quello davanti ai Tribunali e quello davanti alle Corti d’Appello, mentre in Cassazione i giudici non valutano i fatti, ma pongono in essere soltanto un controllo sulla congruità della motivazione delle sentenze. Il fatto è allora che i processi durano almeno un decennio, perché tutte le parti o quasi tutte propongono appello o ricorso per cassazione: e ciò accade perché le sentenze dei gradi inferiori sono troppo spesso sbagliate, vale a dire ingiuste. Ne fa fede, il semplice constatare che su cento sentenze impugnate più della metà vengono in tutto o in parte riformate dalle giurisdizioni superiori: come mai nessuno oggi si chiede perché ciò accade? Perché non si fa in modo che i Tribunali di prima istanza emettano sentenze meno soggette ad annullamento o riforma? Risposta: perché è molto difficile farlo, in quanto sarebbe necessario elevare il grado di capacità e di senso del diritto dei giudici di primo e secondo grado. Per ottenere questo miglioramento, bisognerebbe infatti riformare dalle fondamenta l’intero sistema della formazione degli studenti di giurisprudenza e, poi, dei magistrati: una parola! Eppure, se non si pone mente sul serio a questo problema, continuare a rimasticare sulla durata dei processi, vuol dire soltanto riproporre all’infinito il nulla del pensiero. Eppure, Seneca lo sapeva quando notava che chi scrive presto non scrive bene, mentre chi scrive bene scrive rapidamente (cito scribendo non fit ut bene scribatur, bene scribendo fit ut cito): più giuste saranno le sentenze, meno dureranno i processi. Il resto è chiacchiera.
Ancora una volta, come ogni anno, si ripete in questi giorni la trita e stantia cerimonia della inaugurazione dell’anno giudiziario. Tuttavia, ascoltando le parole pronunciate in Cassazione dai messimi vertici della magistratura, non si può tacere una sorta di crescente imbarazzo per alcune affermazioni apodittiche e scarsamente fondate sulla realtà. Ancora una volta, infatti, seguendo il corrente andazzo, il procuratore generale Vitaliano Esposito ha rimarcato come il problema più grave sia la durata abnorme dei processi e come perciò debba guardarsi con favore ad ogni misura che, senza depotenziare la magistratura, sia utile alla abbreviazione dei termini dei processi. In realtà, non c’è nulla di più sbagliato che puntare l’indice soltanto sulla durata dei processi, senza rendersi davvero conto delle ragioni che la producono. La principale ragione è strettamente legata alla circostanza che in Italia (unica nazione al mondo) purtroppo, circa il novanta per cento delle sentenze emesse in primo grado dai Tribunali vengono sistematicamente appellate: ciò significa certamente che i tempi medi di quel singolo processo si raddoppiano. Ma significa anche qualcosa di molto più pregnante ed inquietante, su cui bisognerebbe riflettere, ma che invece viene taciuto con assoluta costanza: e cioè che gli utenti dell’amministrazione della giustizia ritengono, per un motivo o per l’altro, che le sentenze rese dai tribunali di prima istanza non sono affidabili, sono cioè ingiuste e perciò meritano di essere appellate. Si badi che ciò si verifica sia nel settore civile che in quello penale, dovendosi anche aggiungere che spesso a proporre appello sono entrambe le parti, cosa che certo complica le cose in secondo grado contribuendo ad allungare i già notevoli tempi. Inoltre, circa il sessanta per cento delle sentenze rese dalle Corti d'Appello viene gravato da ricorsi davanti alla Corte di Cassazione, con ulteriore perdita di tempo. E allora i casi sono due: o gli italiani - compresi gli esponenti del pubblico ministero, i quali impugnano anch’essi le sentenze dei Tribunali - sono afflitti da una grave patologia psichica che li induce ad impugnare sempre e comunque le sentenze, oppure, come sembra più probabile, c’è qualcosa che non funziona come dovrebbe e che, alla fine, causa un abnorme allungamento dei tempi processuali. In proposito, spiace disilludere il procuratore generale della Cassazione il quale secondo le cronache avrebbe affermato che in Italia «tre gradi di giudizio sono un lusso che non ci possiamo permettere»: infatti, è noto che propriamente i gradi di giudizio in Italia sono soltanto due, quello davanti ai Tribunali e quello davanti alle Corti d’Appello, mentre in Cassazione i giudici non valutano i fatti, ma pongono in essere soltanto un controllo sulla congruità della motivazione delle sentenze. Il fatto è allora che i processi durano almeno un decennio, perché tutte le parti o quasi tutte propongono appello o ricorso per cassazione: e ciò accade perché le sentenze dei gradi inferiori sono troppo spesso sbagliate, vale a dire ingiuste. Ne fa fede, il semplice constatare che su cento sentenze impugnate più della metà vengono in tutto o in parte riformate dalle giurisdizioni superiori: come mai nessuno oggi si chiede perché ciò accade? Perché non si fa in modo che i Tribunali di prima istanza emettano sentenze meno soggette ad annullamento o riforma? Risposta: perché è molto difficile farlo, in quanto sarebbe necessario elevare il grado di capacità e di senso del diritto dei giudici di primo e secondo grado. Per ottenere questo miglioramento, bisognerebbe infatti riformare dalle fondamenta l’intero sistema della formazione degli studenti di giurisprudenza e, poi, dei magistrati: una parola! Eppure, se non si pone mente sul serio a questo problema, continuare a rimasticare sulla durata dei processi, vuol dire soltanto riproporre all’infinito il nulla del pensiero. Eppure, Seneca lo sapeva quando notava che chi scrive presto non scrive bene, mentre chi scrive bene scrive rapidamente (cito scribendo non fit ut bene scribatur, bene scribendo fit ut cito): più giuste saranno le sentenze, meno dureranno i processi. Il resto è chiacchiera.
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