Tre chiese bruciate, la comunità cristiana asserragliata, Kuala Lampur la capitale della Malesia in stato d’assedio. Succede da ieri all’alba e di per se non è una grande novità. Nel nome di Allah ai cristiani succede anche di peggio. In Malesia però è diverso. In Malesia non si brucia, non si profana, non si dà la caccia ai ai fedeli della croce nel nome di Allah, ma per il nome di Allah. La differenza, per chi si ritrova in una chiesa in fiamme o inseguito da una folla assatanata, non è poi tanta. Vallo a raccontare ai malesi che terrorizzano e minacciano i cristiani. Vallo a raccontare ai musulmani di Mompracem e dintorni che ieri hanno scatenato l’apocalisse assaltando a colpi di molotov una chiesa protestante e due cattoliche. A dar retta a loro la vera fede si nasconde anche nella semantica. O meglio nelle parole. In Malesia non n’esistono per esprimere il concetto di Dio unico e monoteista, o meglio ne esiste una sola, quell’Allah importato - assieme a tutta la religione - dai mercanti arabi arrivati nel XII secolo a colonizzare le coste. Da allora i convertiti al cristianesimo, siano di origine malese indiana o cinese, usano anche loro la parola Allah per nominare o pregare il loro Dio. Da dieci secoli quell’abitudine imposta dal linguaggio non scandalizza nessuno. Lo stesso del resto succede nella vicina Indonesia, in Egitto e in altri paesi mediorientale dove la lingua araba costringe tutti a pregare solo e soltanto nel nome di Allah. Anche da noi molti musulmani usano, del resto, la parola Dio intendendo implicitamente non il Signore dei vangeli , ma quello del Corano. Vallo a spiegare ai musulmani di Kuala Lampur convinti, nel nome di un nuovo e assai diffuso fondamentalismo, di poter vantare l’assoluta esclusiva su quella parola. Aggiungici la politica è il gioco è fatto. Per comprendere l’esplosione di violenza e integralismo che ispira gli autori dei pogrom contro le chiese cristiane bisogna tenere presente la complessa geografia politico etnico-religiosa del paese. E considerare i sempre più difficili rapporti tra governo e minoranza non musulmana. La Malesia annovera tra i ventotto milioni di abitanti una consistente minoranza di indiani e cinesi, pari a circa il quaranta per cento della popolazione, che pratica il cristianesimo o altre religione non musulmane. Il Fronte nazionale - partito di governo e di maggioranza - da qualche anno sembra deciso a ignorare quel 40 per cento di elettori cristiani, indiani e cinesi per corteggiare la crescente ondata integralista e ad assecondare le richieste della maggioranza musulmana. Tra queste rientra anche quella che prevede l’esclusiva sull’uso della parola Allah. Tre anni fa il governo emette un decreto che impone al Catholic Herald, uno dei giornali più diffusi tra la minoranza indiana e cinese, di cancellare dalle proprie pagine la parola Allah e inventarsene un’altra capace d’identificare l’Uno e Trino. Il risultato di questa e altre iniziative assunte in omaggio ai voleri della maggioranza musulmana è un immediato calo di consensi alle elezioni del 2008. Un calo che priva il Fronte nazionale della maggioranza di due terzi all’interno del parlamento. Ad aggravare la situazione e a riaccendere lo scontro ci pensa la Corte costituzionale che lo scorso 31 dicembre accoglie il ricorso del Catholic Herald e sancisce il diritto del giornale di utilizzare, scrivere e stampare il termine Allah intendendo semplicemente Dio . Da quel momento è il caos. La maggioranza musulmana insorge. «Per un non musulmano l’uso di questa parola e un’inutile provocazione» - sancisce Faisal Aziz presidente dell’Unione nazionale degli studenti musulmani mentre le folle con le bandiere verdi scatenano l’assalto alle chiese al grido di «Allah Akbar, Dio è grande». E ancor più grande è l’imbarazzo del primo ministro Najiib Razak. Il premier da una parte predica - sottovoce - la condanna di «quell’eccesso di zelo che minaccia l’armonia del paese», dall’altro si guarda bene dal mandar la polizia a difendere i luoghi di culto cristiani. Il paese brucia e i cristiani tornano nelle catacombe, ma prima di difenderli il Fronte nazionale, fedele alle finezze della semantica, pretende di sapere quanti voti contino.
sabato 9 gennaio 2010
Islam di pace
In Malesia parte l’assalto alle chiese di Gian Micalessin
Tre chiese bruciate, la comunità cristiana asserragliata, Kuala Lampur la capitale della Malesia in stato d’assedio. Succede da ieri all’alba e di per se non è una grande novità. Nel nome di Allah ai cristiani succede anche di peggio. In Malesia però è diverso. In Malesia non si brucia, non si profana, non si dà la caccia ai ai fedeli della croce nel nome di Allah, ma per il nome di Allah. La differenza, per chi si ritrova in una chiesa in fiamme o inseguito da una folla assatanata, non è poi tanta. Vallo a raccontare ai malesi che terrorizzano e minacciano i cristiani. Vallo a raccontare ai musulmani di Mompracem e dintorni che ieri hanno scatenato l’apocalisse assaltando a colpi di molotov una chiesa protestante e due cattoliche. A dar retta a loro la vera fede si nasconde anche nella semantica. O meglio nelle parole. In Malesia non n’esistono per esprimere il concetto di Dio unico e monoteista, o meglio ne esiste una sola, quell’Allah importato - assieme a tutta la religione - dai mercanti arabi arrivati nel XII secolo a colonizzare le coste. Da allora i convertiti al cristianesimo, siano di origine malese indiana o cinese, usano anche loro la parola Allah per nominare o pregare il loro Dio. Da dieci secoli quell’abitudine imposta dal linguaggio non scandalizza nessuno. Lo stesso del resto succede nella vicina Indonesia, in Egitto e in altri paesi mediorientale dove la lingua araba costringe tutti a pregare solo e soltanto nel nome di Allah. Anche da noi molti musulmani usano, del resto, la parola Dio intendendo implicitamente non il Signore dei vangeli , ma quello del Corano. Vallo a spiegare ai musulmani di Kuala Lampur convinti, nel nome di un nuovo e assai diffuso fondamentalismo, di poter vantare l’assoluta esclusiva su quella parola. Aggiungici la politica è il gioco è fatto. Per comprendere l’esplosione di violenza e integralismo che ispira gli autori dei pogrom contro le chiese cristiane bisogna tenere presente la complessa geografia politico etnico-religiosa del paese. E considerare i sempre più difficili rapporti tra governo e minoranza non musulmana. La Malesia annovera tra i ventotto milioni di abitanti una consistente minoranza di indiani e cinesi, pari a circa il quaranta per cento della popolazione, che pratica il cristianesimo o altre religione non musulmane. Il Fronte nazionale - partito di governo e di maggioranza - da qualche anno sembra deciso a ignorare quel 40 per cento di elettori cristiani, indiani e cinesi per corteggiare la crescente ondata integralista e ad assecondare le richieste della maggioranza musulmana. Tra queste rientra anche quella che prevede l’esclusiva sull’uso della parola Allah. Tre anni fa il governo emette un decreto che impone al Catholic Herald, uno dei giornali più diffusi tra la minoranza indiana e cinese, di cancellare dalle proprie pagine la parola Allah e inventarsene un’altra capace d’identificare l’Uno e Trino. Il risultato di questa e altre iniziative assunte in omaggio ai voleri della maggioranza musulmana è un immediato calo di consensi alle elezioni del 2008. Un calo che priva il Fronte nazionale della maggioranza di due terzi all’interno del parlamento. Ad aggravare la situazione e a riaccendere lo scontro ci pensa la Corte costituzionale che lo scorso 31 dicembre accoglie il ricorso del Catholic Herald e sancisce il diritto del giornale di utilizzare, scrivere e stampare il termine Allah intendendo semplicemente Dio . Da quel momento è il caos. La maggioranza musulmana insorge. «Per un non musulmano l’uso di questa parola e un’inutile provocazione» - sancisce Faisal Aziz presidente dell’Unione nazionale degli studenti musulmani mentre le folle con le bandiere verdi scatenano l’assalto alle chiese al grido di «Allah Akbar, Dio è grande». E ancor più grande è l’imbarazzo del primo ministro Najiib Razak. Il premier da una parte predica - sottovoce - la condanna di «quell’eccesso di zelo che minaccia l’armonia del paese», dall’altro si guarda bene dal mandar la polizia a difendere i luoghi di culto cristiani. Il paese brucia e i cristiani tornano nelle catacombe, ma prima di difenderli il Fronte nazionale, fedele alle finezze della semantica, pretende di sapere quanti voti contino.
Tre chiese bruciate, la comunità cristiana asserragliata, Kuala Lampur la capitale della Malesia in stato d’assedio. Succede da ieri all’alba e di per se non è una grande novità. Nel nome di Allah ai cristiani succede anche di peggio. In Malesia però è diverso. In Malesia non si brucia, non si profana, non si dà la caccia ai ai fedeli della croce nel nome di Allah, ma per il nome di Allah. La differenza, per chi si ritrova in una chiesa in fiamme o inseguito da una folla assatanata, non è poi tanta. Vallo a raccontare ai malesi che terrorizzano e minacciano i cristiani. Vallo a raccontare ai musulmani di Mompracem e dintorni che ieri hanno scatenato l’apocalisse assaltando a colpi di molotov una chiesa protestante e due cattoliche. A dar retta a loro la vera fede si nasconde anche nella semantica. O meglio nelle parole. In Malesia non n’esistono per esprimere il concetto di Dio unico e monoteista, o meglio ne esiste una sola, quell’Allah importato - assieme a tutta la religione - dai mercanti arabi arrivati nel XII secolo a colonizzare le coste. Da allora i convertiti al cristianesimo, siano di origine malese indiana o cinese, usano anche loro la parola Allah per nominare o pregare il loro Dio. Da dieci secoli quell’abitudine imposta dal linguaggio non scandalizza nessuno. Lo stesso del resto succede nella vicina Indonesia, in Egitto e in altri paesi mediorientale dove la lingua araba costringe tutti a pregare solo e soltanto nel nome di Allah. Anche da noi molti musulmani usano, del resto, la parola Dio intendendo implicitamente non il Signore dei vangeli , ma quello del Corano. Vallo a spiegare ai musulmani di Kuala Lampur convinti, nel nome di un nuovo e assai diffuso fondamentalismo, di poter vantare l’assoluta esclusiva su quella parola. Aggiungici la politica è il gioco è fatto. Per comprendere l’esplosione di violenza e integralismo che ispira gli autori dei pogrom contro le chiese cristiane bisogna tenere presente la complessa geografia politico etnico-religiosa del paese. E considerare i sempre più difficili rapporti tra governo e minoranza non musulmana. La Malesia annovera tra i ventotto milioni di abitanti una consistente minoranza di indiani e cinesi, pari a circa il quaranta per cento della popolazione, che pratica il cristianesimo o altre religione non musulmane. Il Fronte nazionale - partito di governo e di maggioranza - da qualche anno sembra deciso a ignorare quel 40 per cento di elettori cristiani, indiani e cinesi per corteggiare la crescente ondata integralista e ad assecondare le richieste della maggioranza musulmana. Tra queste rientra anche quella che prevede l’esclusiva sull’uso della parola Allah. Tre anni fa il governo emette un decreto che impone al Catholic Herald, uno dei giornali più diffusi tra la minoranza indiana e cinese, di cancellare dalle proprie pagine la parola Allah e inventarsene un’altra capace d’identificare l’Uno e Trino. Il risultato di questa e altre iniziative assunte in omaggio ai voleri della maggioranza musulmana è un immediato calo di consensi alle elezioni del 2008. Un calo che priva il Fronte nazionale della maggioranza di due terzi all’interno del parlamento. Ad aggravare la situazione e a riaccendere lo scontro ci pensa la Corte costituzionale che lo scorso 31 dicembre accoglie il ricorso del Catholic Herald e sancisce il diritto del giornale di utilizzare, scrivere e stampare il termine Allah intendendo semplicemente Dio . Da quel momento è il caos. La maggioranza musulmana insorge. «Per un non musulmano l’uso di questa parola e un’inutile provocazione» - sancisce Faisal Aziz presidente dell’Unione nazionale degli studenti musulmani mentre le folle con le bandiere verdi scatenano l’assalto alle chiese al grido di «Allah Akbar, Dio è grande». E ancor più grande è l’imbarazzo del primo ministro Najiib Razak. Il premier da una parte predica - sottovoce - la condanna di «quell’eccesso di zelo che minaccia l’armonia del paese», dall’altro si guarda bene dal mandar la polizia a difendere i luoghi di culto cristiani. Il paese brucia e i cristiani tornano nelle catacombe, ma prima di difenderli il Fronte nazionale, fedele alle finezze della semantica, pretende di sapere quanti voti contino.
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