ROSARNO (Reggio Calabria) — All’ora di pranzo davanti al Municipio arrivano le mamme. Alcune tengono i bambini per mano, si piazzano sotto le finestre e cominciano a gridare: «Vergogna! Bastardi!». Perché, che è successo? «Hanno portato da mangiare ai neri!». Cioè hanno fornito un pasto agli extracomunitari nella ex fabbrica dove sono rinchiusi. Forse è vero, forse no, come tutto quello che in queste ore corre di bocca in bocca fra i cittadini di Rosarno. Ma basta per un nuovo scoppio d’ira popolare. «Noi abbiamo pagato 50 euro per la mensa della scuola, bastardi!», e giù altre urla. Non più contro i «neri», ma contro lo Stato che gli dà da mangiare. Se questo è razzismo, il razzismo è qui. Se è solo esasperazione, è qui ed è tanta. Se c’è una fetta di mafia — che da queste parti si chiama ’ndrangheta—a fomentare la protesta, forse è arrivata fin qui, a lanciare anatemi contro il commissario straordinario arrivato a Rosarno poco più di un anno fa, dopo lo scioglimento del consiglio comunale per sospette infiltrazioni mafiose. Di certo, quello che sta accadendo dopo la scintilla che ha scatenato la risposta violenta dei clandestini e adesso la reazione ugualmente violenta della popolazione locale, è la degenerazione di una situazione già degenerata, avviata non si sa bene come e da chi, ma che sembra andare oltre i 1.500 o 2.000 «neri che se ne devono andare», come ripetete ogni rosarnese sceso in strada o affacciato da finestre e balconi, dal più quieto al più esagitato. A ventiquattr’ore di distanza dai primi disordini, nessuno è ancora in grado di dire con esattezza come e perché è scoccata la scintilla. Ci sono due o forse più africani che raccontano di essere stati feriti da proiettili arrivati da un’auto in corsa. Piombini sparati da un fucile ad aria compressa, pare. Quell’episodio ha provocato la protesta «anti-razzista» dei clandestini che lavorano come stagionali nella raccolta degli agrumi, sfociata in distruzioni senza senso e senza limiti. Da lì la reazione dei «bianchi» contro i «neri», con le nuove violenze di chi si lancia nella caccia al «marocchino» da rispedire a casa, trova l’ostacolo delle forze dell’ordine e le aggredisce: «A noi ci prendete a bastonate e a quelli li lasciate liberi di distruggere macchine e case! Fate schifo!». Non più i «neri», ma poliziotti e carabinieri, cioè i rappresentanti dello Stato che tentano di dialogare, con sempre maggiori difficoltà. «Vi avverto, state commettendo reati gravi», cerca di spiegare a metà mattinata un funzionario di polizia ai ragazzi che rovesciano i cassonetti in mezzo alla strada per bloccare il passaggio delle auto. Quelli rispondono a urla, andandogli sotto col viso arrossato e le vene del collo gonfie: «Arrestateci, e poi ci pagate l’avvocato col gratuito patrocinio!». Il funzionario scuote la testa. Anche quelli apparentemente più ragionevoli gli si scagliano contro: «Invece di difendervi da noi, dovreste difenderci da quei bastardi». Il poliziotto prova a dire che lui cerca solo di far rispettare la legge, ed eccone un altro che lo accusa: «La legge dice che questi sono clandestini e se ne devono andare, se non li cacciate voi fatevi da parte, che ci pensiamo noi!». Naturalmente i rosarnesi protagonisti di questi dialoghi calabresi di inizio 2010 raccontano la scintilla in tutt’altro modo. Nessuna spedizione punitiva, nessuna bravata xenofoba: «Uno di questi neri ha fatto i suoi bisogni davanti a una casa, il proprietario s’è scocciato e gli ha sparato coi pallini!». Molti giustificano gli spari, e anche chi non se la sente dice che bisogna comprendere: «Qualche pazzo c’è, ma la situazione ormai è insopportabile!». Nel giorno della rivolta è difficile capire come si sia potuti arrivare a questo punto dopo vent’anni e più di convivenza, magari non allegra ma comunque accettabile, tra Rosarno e questo popolo di sfruttati stagionali, migrati dai loro Paesi e migranti qui, di regione in regione, a seconda delle raccolte pagate una manciata di euro al giorno. Perché gli africani fanno un lavoro che i locali rifiutano (anche se oggi s’incontrano pure ragazzi che assicurano il contrario, ma da abbigliamento e gel tra i capelli non sembrano troppo sinceri), e ad utilizzare le loro braccia sono i proprietari terrieri che ne hanno bisogno. E la ’ndrangheta che qui gestisce i suoi affari non dovrebbe avere interesse a disordini che attirano polizia e controlli. Semmai il contrario. «Ma che mafia e mafia, noi siamo gente onesta e siamo stanchi», ribattono in strada, e raccontano di gente «nera» ubriaca che dà fastidio ai passanti, di boss arrivati da chissà quale angolo d’Africa (ma sono sempre tutti «marocchini») a spacciare droga e gestire prostituzione. Ai piani alti del palazzo comunale, dirigenti in giacca e cravatta riflettono sul possibile diversivo creato dalla ’ndrangheta rispetto alla bomba esplosa meno di una settimana fa a Reggio Calabria, e alla parata di ministri e divise con cui lo Stato ha risposto a tamburo battente. «È solo una coincidenza?», si chiede il commissario prefettizio Domenico Bagnato, lasciando la domanda in sospeso. Alla mafia locale che soffia sulla rivolta non sembrano dare credito i responsabili locali di polizia e carabinieri, investigatori di lungo corso abituati a ragionare su fatti concreti piuttosto che sulle teorie. E qui, adesso, non c’è alcuna certezza nemmeno sul fatto scatenante: «Chi ce lo racconta com’è andata davvero, quelli che da ieri dicono che una donna ha abortito per lo spavento provocato dalle violenze degli extracomunitari, quando è del tutto falso?». Puntano più sul disagio di una terra povera che sfrutta ed è costretta a convivere coi poveri arrivati da altri mondi, i tutori dell’ordine. E su atteggiamenti di ritorsione dei penultimi sugli ultimi che altrove si chiamerebbe bullismo e che qui assume contorni decisamente antistatali. Bullismo mafioso, si potrebbe dire, come quello del ragazzo che urla al funzionario di pubblica sicurezza di togliersi la cravatta se vuole parlare con lui, e quello acconsente e si slaccia pure il collo della camicia, prima di convincerlo a togliersi di mezzo per far passare la macchina. Però che qualche capo-’ndrangheta possa tentare di tele-guidare la rivolta per far vedere che qui non comanda lo Stato ma lui e la sua cosca, è un rischio ammesso anche da qualcuno che partecipa alla protesta: «Ma non ci importa, oggi in piazza c’è Rosarno, che si sente tradita dallo Stato». Il Comune è stato sciolto a ottobre del 2008, per sospette infiltrazioni dopo l’arresto di un sindaco che poi è stato assolto dalle accuse. «Allora dove sta ’sta mafia?», grida uno, mentre si alza uno striscione che chiede il rilascio del giovane arrestato l’anno scorso per altri spari contro altri extracomunitari: «È innocente, liberatelo». Secondo le informazioni della polizia quel giovane è un «manovale» della cosca Pesce, che insieme a quella dei Bellocco fa rispettare le leggi della ’ndrangheta a Rosarno.
Giovanni Bianconi
1 commenti:
Giochino di maschere che rullano sul palco tra argani e carrucole non troppo nascoste. La farsa dei luoghi comuni, delle etichette ottuse danza sul palcoscenico dei media con straordinaria disinvoltura e a nessuno importa più nulla. Ragionamenti fragili sorreggono prese di posizione sterili, volgari masaniello incitano le fazioni... rimane solo un raro disgusto
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