Chiedo per strada un'informazione ad una ragazzina: le vedo solo gli occhi che vagano incerti attraverso l'apertura rimasta nel lungo scialle nero che le copre la testa. La sua mano lo tiene serrato e nasconde anche il viso fino al naso. Lei abbassa spaventata gli occhi e si allontana raggiungendo il gruppo delle altre povere ragazzine le quali, in fila, coperte di un orrendo lenzuolone che arriva fino ai piedi, stanno recandosi a fare la spesa sotto la guida e la sorveglianza occhiuta di una vecchia che – resa libera dalla vecchiaia – consente di guardare, nello scialle funereo, le rughe del suo viso e la canizie. Dal negozietto accanto esce un uomo in tenuta islamica, con calzoni a sbuffo e berretto di feltro alto sul capo, per controllare che le cose si svolgano secondo copione: di fronte a un turista che non ha un'aria aggressiva, si calma e rientra. Intanto si allontana la fila delle povere cornacchie nere e svolazzanti nel vento teso di Istanbul, e resto io a confrontarmi ancora una volta con la contraddittorietà di una città che per la parte storica sta fisicamente in Europa, che fino a qualche anno fa appariva laica e lanciata verso una piena occidentalizzazione, ed ora sembra - almeno in parte - ritrarsi intorno alle tradizioni più arretrate e rurali della sue popolazioni immigrate dall'Anatolia centrale e orientale. È un vero e proprio confronto e scontro di civiltà: a me, che mi stupisco di trovare le banche chiuse di domenica e non di venerdì, un cambiavalute spiega con determinazione, mezzo in italiano e mezzo in inglese, che a Istanbul è così da un pezzo e così rimarrà. Il resto della Turchia è un'altra cosa, affar loro. Ma la metropoli del Bosforo, da quando la vidi e la girai quarant'anni fa, è cresciuta a dismisura: gli immigrati l'hanno fatta gonfiare fino a 14 milioni di abitanti, e i cittadini "veri" di Istanbul – così essi stessi si definiscono parlando con lo straniero - si trovano in minoranza, in solo 3 milioni. E così la metropoli ha ora alcuni quartieri fra i più vecchi e degradati, in cui si sono insediate comunità di contadini immigrati che portano con sé tutta la loro cultura premoderna. Ma nella strada accanto ragazzine in calzamaglia nera e minigonna ascellare passeggiano la sera col ragazzo, sciamano intorno alla pizzeria e alle tavole calde, affollano l'Istiklal – la via pedonale principale, percorsa da un tramvai storico rosso che avanza scampanellando tra la folla: lo chiamano, giustamente, "tram nostalgico". Così Pera, qui, ricorda vagamente San Francisco… Ma il confronto è anche tra coloro che considerano le conquiste ottenute dalla modernizzazione di Atatürk come un bene irrinunciabile, e che vivono in zone della città più moderne, pulite - e ben tenute più di molte metropoli italiane -, e il mondo che si raccoglie intorno a quelle moschee in cui si tengono le prediche e che sono più accesamente fondamentaliste: come la Fatih Camii. Una signora elegantemente vestita all'occidentale, interpellata sulla direzione che debbo prendere da parte di un'altra donna turca avvolta nel funereo lenzuolone che, avendo superato l'età "pericolosa", può parlarmi e si prende gentilmente la cura girare le mie domande ad altri, prosegue il suo cammino senza rispondere e senza nemmeno fermarsi: fra la donna moderna e quella "ricaduta" o rimasta vittima delle tradizioni misogine della sua religione non c'è scambio, non c'è colloquio. La seconda appare alla prima come un pericolo, come un agente in grado, con il suo comportamento acquiescente, di far perdere a tutte le donne le loro conquiste. E un fastidio simile verso questa fondamentalizzazione di ritorno mi mostra il tassista che ci riporta a casa. Ma, malgrado le resistenza della vecchia Istanbul cosmopolita e occidentale, l'Islam, rispetto a qualche decennio fa, avanza e dilaga: al grande museo Topkapi – l'antica reggia sultanale – si è aperta una nuova sezione, nella quale viene esposta una serie di reliquie religiose, ed un autentico muezzin, accosciato davanti al Corano, fermo e impassibile come una statua di cera, lancia periodicamente, di fronte ai visitatori, il suo grido, i suoi canti di preghiera e di invito alla moschea. Lì accanto, un oratorio sufi – i sufi sono fra i più accesi conservatori religiosi – ammaestra i ragazzini secondo le tradizioni coraniche – ma la classe che gioca in cortile è mista, e le bambine vestono all'occidentale. E nei negozi del centro si vendono costumi per la danza del ventre, lingerie ultrasexi, musiche peccaminose della più "degenerata" produzione occidentale, insieme a sognanti melodie mistiche orientali e danze dei dervisci. E le mostre a soggetto orientale e occidentale si moltiplicano, con l'apertura di Istanbul città mondiale della cultura 2010. Insomma, se la Turchia è – o è diventata – una sorta di contraddizione rispetto all'Europa, Istanbul è – o è diventata – una contraddizione in sé, e rispetto all'altra Turchia. Come una contraddizione e un grande equivoco sta diventando la tradizione stessa sulla quale si basa la Turchia moderna, costruita da Atatürk e dai Giovani Turchi nei primi decenni del secolo scorso. Nella quale i militari, assai più di una classe politica sempre più espressione delle masse rurali e arretrate, sono guardiani della costituzione e della rottura col passato, sono i garanti della "occidentalità" della Turchia e della sua stessa modernità democratica. Non per nulla la sua immagine troneggia sulle pareti di tanti negozi, non per nulla tutti là, comunque la pensino, considerano il generale, morto nel 1938, come un'icona intangibile: ed è per questo che ricordare, ad esempio, il genocidio armeno – voluto e gestito dai Giovani Turchi nell'ambito di un processo di nazionalizzazione tardivo e difficile, vista la varietà dei popoli anatolici – significa toccare questo mito fondante, e la modernità che ad esso è collegata. Un bel groviglio, che peggiorerà, temo, con il passar del tempo, se la ripulsa europea farà crescere la tendenza a ripiegarsi verso il passato.
venerdì 8 gennaio 2010
Ritorno all'inciviltà
Ritorno a Istanbul Scritto da Marco Cavallotti
Chiedo per strada un'informazione ad una ragazzina: le vedo solo gli occhi che vagano incerti attraverso l'apertura rimasta nel lungo scialle nero che le copre la testa. La sua mano lo tiene serrato e nasconde anche il viso fino al naso. Lei abbassa spaventata gli occhi e si allontana raggiungendo il gruppo delle altre povere ragazzine le quali, in fila, coperte di un orrendo lenzuolone che arriva fino ai piedi, stanno recandosi a fare la spesa sotto la guida e la sorveglianza occhiuta di una vecchia che – resa libera dalla vecchiaia – consente di guardare, nello scialle funereo, le rughe del suo viso e la canizie. Dal negozietto accanto esce un uomo in tenuta islamica, con calzoni a sbuffo e berretto di feltro alto sul capo, per controllare che le cose si svolgano secondo copione: di fronte a un turista che non ha un'aria aggressiva, si calma e rientra. Intanto si allontana la fila delle povere cornacchie nere e svolazzanti nel vento teso di Istanbul, e resto io a confrontarmi ancora una volta con la contraddittorietà di una città che per la parte storica sta fisicamente in Europa, che fino a qualche anno fa appariva laica e lanciata verso una piena occidentalizzazione, ed ora sembra - almeno in parte - ritrarsi intorno alle tradizioni più arretrate e rurali della sue popolazioni immigrate dall'Anatolia centrale e orientale. È un vero e proprio confronto e scontro di civiltà: a me, che mi stupisco di trovare le banche chiuse di domenica e non di venerdì, un cambiavalute spiega con determinazione, mezzo in italiano e mezzo in inglese, che a Istanbul è così da un pezzo e così rimarrà. Il resto della Turchia è un'altra cosa, affar loro. Ma la metropoli del Bosforo, da quando la vidi e la girai quarant'anni fa, è cresciuta a dismisura: gli immigrati l'hanno fatta gonfiare fino a 14 milioni di abitanti, e i cittadini "veri" di Istanbul – così essi stessi si definiscono parlando con lo straniero - si trovano in minoranza, in solo 3 milioni. E così la metropoli ha ora alcuni quartieri fra i più vecchi e degradati, in cui si sono insediate comunità di contadini immigrati che portano con sé tutta la loro cultura premoderna. Ma nella strada accanto ragazzine in calzamaglia nera e minigonna ascellare passeggiano la sera col ragazzo, sciamano intorno alla pizzeria e alle tavole calde, affollano l'Istiklal – la via pedonale principale, percorsa da un tramvai storico rosso che avanza scampanellando tra la folla: lo chiamano, giustamente, "tram nostalgico". Così Pera, qui, ricorda vagamente San Francisco… Ma il confronto è anche tra coloro che considerano le conquiste ottenute dalla modernizzazione di Atatürk come un bene irrinunciabile, e che vivono in zone della città più moderne, pulite - e ben tenute più di molte metropoli italiane -, e il mondo che si raccoglie intorno a quelle moschee in cui si tengono le prediche e che sono più accesamente fondamentaliste: come la Fatih Camii. Una signora elegantemente vestita all'occidentale, interpellata sulla direzione che debbo prendere da parte di un'altra donna turca avvolta nel funereo lenzuolone che, avendo superato l'età "pericolosa", può parlarmi e si prende gentilmente la cura girare le mie domande ad altri, prosegue il suo cammino senza rispondere e senza nemmeno fermarsi: fra la donna moderna e quella "ricaduta" o rimasta vittima delle tradizioni misogine della sua religione non c'è scambio, non c'è colloquio. La seconda appare alla prima come un pericolo, come un agente in grado, con il suo comportamento acquiescente, di far perdere a tutte le donne le loro conquiste. E un fastidio simile verso questa fondamentalizzazione di ritorno mi mostra il tassista che ci riporta a casa. Ma, malgrado le resistenza della vecchia Istanbul cosmopolita e occidentale, l'Islam, rispetto a qualche decennio fa, avanza e dilaga: al grande museo Topkapi – l'antica reggia sultanale – si è aperta una nuova sezione, nella quale viene esposta una serie di reliquie religiose, ed un autentico muezzin, accosciato davanti al Corano, fermo e impassibile come una statua di cera, lancia periodicamente, di fronte ai visitatori, il suo grido, i suoi canti di preghiera e di invito alla moschea. Lì accanto, un oratorio sufi – i sufi sono fra i più accesi conservatori religiosi – ammaestra i ragazzini secondo le tradizioni coraniche – ma la classe che gioca in cortile è mista, e le bambine vestono all'occidentale. E nei negozi del centro si vendono costumi per la danza del ventre, lingerie ultrasexi, musiche peccaminose della più "degenerata" produzione occidentale, insieme a sognanti melodie mistiche orientali e danze dei dervisci. E le mostre a soggetto orientale e occidentale si moltiplicano, con l'apertura di Istanbul città mondiale della cultura 2010. Insomma, se la Turchia è – o è diventata – una sorta di contraddizione rispetto all'Europa, Istanbul è – o è diventata – una contraddizione in sé, e rispetto all'altra Turchia. Come una contraddizione e un grande equivoco sta diventando la tradizione stessa sulla quale si basa la Turchia moderna, costruita da Atatürk e dai Giovani Turchi nei primi decenni del secolo scorso. Nella quale i militari, assai più di una classe politica sempre più espressione delle masse rurali e arretrate, sono guardiani della costituzione e della rottura col passato, sono i garanti della "occidentalità" della Turchia e della sua stessa modernità democratica. Non per nulla la sua immagine troneggia sulle pareti di tanti negozi, non per nulla tutti là, comunque la pensino, considerano il generale, morto nel 1938, come un'icona intangibile: ed è per questo che ricordare, ad esempio, il genocidio armeno – voluto e gestito dai Giovani Turchi nell'ambito di un processo di nazionalizzazione tardivo e difficile, vista la varietà dei popoli anatolici – significa toccare questo mito fondante, e la modernità che ad esso è collegata. Un bel groviglio, che peggiorerà, temo, con il passar del tempo, se la ripulsa europea farà crescere la tendenza a ripiegarsi verso il passato.
Chiedo per strada un'informazione ad una ragazzina: le vedo solo gli occhi che vagano incerti attraverso l'apertura rimasta nel lungo scialle nero che le copre la testa. La sua mano lo tiene serrato e nasconde anche il viso fino al naso. Lei abbassa spaventata gli occhi e si allontana raggiungendo il gruppo delle altre povere ragazzine le quali, in fila, coperte di un orrendo lenzuolone che arriva fino ai piedi, stanno recandosi a fare la spesa sotto la guida e la sorveglianza occhiuta di una vecchia che – resa libera dalla vecchiaia – consente di guardare, nello scialle funereo, le rughe del suo viso e la canizie. Dal negozietto accanto esce un uomo in tenuta islamica, con calzoni a sbuffo e berretto di feltro alto sul capo, per controllare che le cose si svolgano secondo copione: di fronte a un turista che non ha un'aria aggressiva, si calma e rientra. Intanto si allontana la fila delle povere cornacchie nere e svolazzanti nel vento teso di Istanbul, e resto io a confrontarmi ancora una volta con la contraddittorietà di una città che per la parte storica sta fisicamente in Europa, che fino a qualche anno fa appariva laica e lanciata verso una piena occidentalizzazione, ed ora sembra - almeno in parte - ritrarsi intorno alle tradizioni più arretrate e rurali della sue popolazioni immigrate dall'Anatolia centrale e orientale. È un vero e proprio confronto e scontro di civiltà: a me, che mi stupisco di trovare le banche chiuse di domenica e non di venerdì, un cambiavalute spiega con determinazione, mezzo in italiano e mezzo in inglese, che a Istanbul è così da un pezzo e così rimarrà. Il resto della Turchia è un'altra cosa, affar loro. Ma la metropoli del Bosforo, da quando la vidi e la girai quarant'anni fa, è cresciuta a dismisura: gli immigrati l'hanno fatta gonfiare fino a 14 milioni di abitanti, e i cittadini "veri" di Istanbul – così essi stessi si definiscono parlando con lo straniero - si trovano in minoranza, in solo 3 milioni. E così la metropoli ha ora alcuni quartieri fra i più vecchi e degradati, in cui si sono insediate comunità di contadini immigrati che portano con sé tutta la loro cultura premoderna. Ma nella strada accanto ragazzine in calzamaglia nera e minigonna ascellare passeggiano la sera col ragazzo, sciamano intorno alla pizzeria e alle tavole calde, affollano l'Istiklal – la via pedonale principale, percorsa da un tramvai storico rosso che avanza scampanellando tra la folla: lo chiamano, giustamente, "tram nostalgico". Così Pera, qui, ricorda vagamente San Francisco… Ma il confronto è anche tra coloro che considerano le conquiste ottenute dalla modernizzazione di Atatürk come un bene irrinunciabile, e che vivono in zone della città più moderne, pulite - e ben tenute più di molte metropoli italiane -, e il mondo che si raccoglie intorno a quelle moschee in cui si tengono le prediche e che sono più accesamente fondamentaliste: come la Fatih Camii. Una signora elegantemente vestita all'occidentale, interpellata sulla direzione che debbo prendere da parte di un'altra donna turca avvolta nel funereo lenzuolone che, avendo superato l'età "pericolosa", può parlarmi e si prende gentilmente la cura girare le mie domande ad altri, prosegue il suo cammino senza rispondere e senza nemmeno fermarsi: fra la donna moderna e quella "ricaduta" o rimasta vittima delle tradizioni misogine della sua religione non c'è scambio, non c'è colloquio. La seconda appare alla prima come un pericolo, come un agente in grado, con il suo comportamento acquiescente, di far perdere a tutte le donne le loro conquiste. E un fastidio simile verso questa fondamentalizzazione di ritorno mi mostra il tassista che ci riporta a casa. Ma, malgrado le resistenza della vecchia Istanbul cosmopolita e occidentale, l'Islam, rispetto a qualche decennio fa, avanza e dilaga: al grande museo Topkapi – l'antica reggia sultanale – si è aperta una nuova sezione, nella quale viene esposta una serie di reliquie religiose, ed un autentico muezzin, accosciato davanti al Corano, fermo e impassibile come una statua di cera, lancia periodicamente, di fronte ai visitatori, il suo grido, i suoi canti di preghiera e di invito alla moschea. Lì accanto, un oratorio sufi – i sufi sono fra i più accesi conservatori religiosi – ammaestra i ragazzini secondo le tradizioni coraniche – ma la classe che gioca in cortile è mista, e le bambine vestono all'occidentale. E nei negozi del centro si vendono costumi per la danza del ventre, lingerie ultrasexi, musiche peccaminose della più "degenerata" produzione occidentale, insieme a sognanti melodie mistiche orientali e danze dei dervisci. E le mostre a soggetto orientale e occidentale si moltiplicano, con l'apertura di Istanbul città mondiale della cultura 2010. Insomma, se la Turchia è – o è diventata – una sorta di contraddizione rispetto all'Europa, Istanbul è – o è diventata – una contraddizione in sé, e rispetto all'altra Turchia. Come una contraddizione e un grande equivoco sta diventando la tradizione stessa sulla quale si basa la Turchia moderna, costruita da Atatürk e dai Giovani Turchi nei primi decenni del secolo scorso. Nella quale i militari, assai più di una classe politica sempre più espressione delle masse rurali e arretrate, sono guardiani della costituzione e della rottura col passato, sono i garanti della "occidentalità" della Turchia e della sua stessa modernità democratica. Non per nulla la sua immagine troneggia sulle pareti di tanti negozi, non per nulla tutti là, comunque la pensino, considerano il generale, morto nel 1938, come un'icona intangibile: ed è per questo che ricordare, ad esempio, il genocidio armeno – voluto e gestito dai Giovani Turchi nell'ambito di un processo di nazionalizzazione tardivo e difficile, vista la varietà dei popoli anatolici – significa toccare questo mito fondante, e la modernità che ad esso è collegata. Un bel groviglio, che peggiorerà, temo, con il passar del tempo, se la ripulsa europea farà crescere la tendenza a ripiegarsi verso il passato.
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