È la domanda della gente in gita di Natale: cosa avvelena la mente tanto da rendere un ricco ragazzo nigeriano capace di sognare un’esplosione con centinaia di morti? Cosa c’è di sbagliato in loro? Cosa in noi? E poi: per colpa loro, quante nuove ore di coda ci aspettano negli aeroporti, quali stupidi disagi per affrontare questo nemico strano, che va ad allenarsi nello Yemen per poi ammazzarci a casa nostra? Non si potrà andare in bagno, non avremo coperte, per la loro fissazione religiosa assassina. Non è come da noi, dove un paio di turisti sbattuti in ginocchio davanti all’integralismo islamico e alla minaccia sanguinaria di Al Qaida sono per l’opinione pubblica italiana un fatto collaterale al panettone; dove ci si seguita a interrogare da un paio di mesi se Mohammed Game, l’attentatore della caserma Perrucchetti armato di esplosivo e dell’ideologia islamista corroborata in Viale Jenner vada preso alla fine sul serio oppure no. Qui è diverso. Senza il bagno di sangue dell’11 settembre 2001 tutta quanta la mente americana sarebbe diversa. Dopo il tentativo di tirare giù dal cielo di Natale sopra Detroit il 353 della Northwest è meglio non farsi ingannare dal candore della neve, nel freddo punteggiato di festoni colorati, di canti natalizi, di sorrisi generosamente distribuiti col Merry Christmas e il Happy New Year, di colorati, pervasivi regali. Obama è alle Hawaii, ma i segnali che non pensi ad altro che a Umar Farouk Abdulmutallab sono abbondanti: Obama tenne gran parte della sua campagna sulla promessa di restaurare il rispetto per i diritti individuali lasciandosi dietro le spalle l’era che Bush stesso aveva chiamato della «guerra contro il terrorismo»; insistette parecchio sulla scelta di conciliare sicurezza e libertà. Ben tre dei suoi discorsi hanno avuto per tema la sicurezza nazionale. Tutti avevano lo stesso obiettivo: mettere d’accordo il diavolo con l’acqua santa. Lo scetticismo non è mancato, la discussione ha impegnato la gente e i commentatori specialmente sul tema di Guantanamo e della scelta di processare gli attentatori dell’11 Settembre a New York con un processo civile; ma non era niente in confronto alla determinazione di farla finita con la continua minaccia del terrorismo che ora permea tutto il discorso politico americano, per la strada, sugli schermi tv, sui giornali. La grande neve di questo bianco Natale è stata macchiata da una minaccia ormai interiorizzata dal cittadino medio, il terrorismo in questi dieci anni è stato un costante compagno di strada che ha portato a guerre e a giovani morti americani, negli Usa, in Irak, in Afghanistan, nello Yemen, in Medio Oriente. La gente si aspetta adesso che Obama dia qualche segnale di aver capito che il decennio del terrorismo non è finito e che la civiltà americana merita di essere difesa meglio, di più, fino in fondo, senza sperare che il fascino della parola possa incantare i serpenti decisi ad avvelenarla. Lo storico Gil Troy descrive gli Usa di oggi, dopo questo decennio come «Il Paese che nonostante la passata cascata di guerre e catastrofi rimane il vero campo da gioco su cui si misura il mondo, la più prolifica ed eccessiva piattaforma per il commercio e il divertimento della storia dell’umanità». È anche un Paese pieno di cultura, di storia dell’idea di libertà, di senso dei diritti umani. Proprio perché il piacere di viverci è grande, il senso della minaccia qui vale una dura battaglia ed è ancora punteggiato dalle immagini di quei corpi che si lasciano cadere dalle Twin Towers. In questi giorni l’America ha di nuovo percepito, a causa del terrorista nigeriano del Petn, l’esplosivo che stava per essere azionato e che era abbastanza per distruggere l’aereo, che la ferita purulenta deve essere curata radicalmente, che forse il pudore nell’ispezionare all'aeroporto persone per altro già sulla lista è molto bello, ma mette a rischio troppe vite. Un analista di terrorismo dice: «Il profiling di chi proviene dal Medio Oriente è piuttosto preciso, ma se poi un ragazzo ha la pelle nera, allora interviene il pudore di fargli troppe domande, e inoltre in genere agli aeroporti si cerca di infastidire il meno possibile, di essere garbati fino al rischio». Il dilemma è grande, ma in questi giorni gli americani, a decine sui giornali, alla tv, nelle chiacchiere di casa, chiedono alle autorità di cercare una strada precisa, quasi matematica, per combattere quello che è identificato ormai come un nemico che va semplicemente bloccato, prevenuto, cui non si deve concedere niente perché non chiede nessun beneficio concreto, vuole semplicemente la guerra. La cronista si è resa conto che la rabbia contro il terrorismo negli Usa differisce completamente dalla nostra, incerta e pietistica. Qui il terrorismo è per tutti, a destra e a sinistra, un nemico che non può avere giustificazioni. In giro per Natale in mezzo a un bosco innevato della Virginia, in visita alla casa di Thomas Jefferson il terzo presidente degli Stati Uniti dal 1801, ingegnere e scienziato che da solo si disegnò e costruì una villa palladiana; e prima a Williamsbourg, ricostruita identica a com’era nel 1775, quando gli unionisti decisero infine di rompere con la madre patria inglese e scendere in guerra, non avrebbe potuto sentire più chiaramente la voce dell’America natalizia minacciata. La gente ride con i bambini, fa i pupazzi di neve, splendono le vetrine, la vacanza continua ma le domande girano come eliche: l’onta di essere stati di nuovo minacciati da una morte priva di senso comune invade i discorsi della gente. Perché il terrorista non è stato fermato? Dov’è l’errore della sicurezza internazionale? Che cosa si deve fare adesso? Era nella lista nera dei sospettati, il padre era andato a denunciarlo all’ambasciata americana in Nigeria, era noto come un estremista, e ancora, che cosa succede a questi giovanotti che vengono a studiare da noi, in occidente, si laureano, imparano le nostre abitudini il nostro modo di vita mentre ci chiediamo come meglio integrarli? Cosa gli facciamo per umiliarli, si chiede Christiane Amampur su Cnn, e su Fox News John Gallagher si arrabbia contro la segretaria per la sicurezza Janet Napolitano (che certifica un po' scioccamente che «il sistema funziona») chiedendole se non abbia mai pensato di sospettare di più di tutti gli Ahmad e i Muhammad che prendono un volo americano. La gente in gita sui fuoristrada infangati, mentre beve il sidro fumante servito dai serissimi cittadini di Williamsbourg in costume filologicamente perfetto, misura nell’allegria della gita natalizia fuori porta la capacità di reagire a una crisi economica che ancora segna il paese di case in vendita, di imprese chiuse visibili a occhio nudo. Di nuovo il giorno di Natale come al tempo di Richard Colvin Reid, al secolo Abdul Rahem, lo shoe bomber del dicembre 2001, le renne, Babbo Natale, i bambini che tornano a casa in aereo, la vita, tutto è appeso alla capacità di Umar Farouk di sgusciare dentro. Le orme del terrorismo tracciano larghe impronte scure sulla luminosa neve del Mall di Washington, colori di guerra sui suoi dintorni fitti di boschi che ornano le rive del Potomac. Gli americani non ci stanno, qualsiasi cosa ne dica Obama.
sabato 2 gennaio 2010
Non è un gioco
Cara Italia, dall'America ti dico: la vera follia è minimizzare di Fiamma Nirenstein
È la domanda della gente in gita di Natale: cosa avvelena la mente tanto da rendere un ricco ragazzo nigeriano capace di sognare un’esplosione con centinaia di morti? Cosa c’è di sbagliato in loro? Cosa in noi? E poi: per colpa loro, quante nuove ore di coda ci aspettano negli aeroporti, quali stupidi disagi per affrontare questo nemico strano, che va ad allenarsi nello Yemen per poi ammazzarci a casa nostra? Non si potrà andare in bagno, non avremo coperte, per la loro fissazione religiosa assassina. Non è come da noi, dove un paio di turisti sbattuti in ginocchio davanti all’integralismo islamico e alla minaccia sanguinaria di Al Qaida sono per l’opinione pubblica italiana un fatto collaterale al panettone; dove ci si seguita a interrogare da un paio di mesi se Mohammed Game, l’attentatore della caserma Perrucchetti armato di esplosivo e dell’ideologia islamista corroborata in Viale Jenner vada preso alla fine sul serio oppure no. Qui è diverso. Senza il bagno di sangue dell’11 settembre 2001 tutta quanta la mente americana sarebbe diversa. Dopo il tentativo di tirare giù dal cielo di Natale sopra Detroit il 353 della Northwest è meglio non farsi ingannare dal candore della neve, nel freddo punteggiato di festoni colorati, di canti natalizi, di sorrisi generosamente distribuiti col Merry Christmas e il Happy New Year, di colorati, pervasivi regali. Obama è alle Hawaii, ma i segnali che non pensi ad altro che a Umar Farouk Abdulmutallab sono abbondanti: Obama tenne gran parte della sua campagna sulla promessa di restaurare il rispetto per i diritti individuali lasciandosi dietro le spalle l’era che Bush stesso aveva chiamato della «guerra contro il terrorismo»; insistette parecchio sulla scelta di conciliare sicurezza e libertà. Ben tre dei suoi discorsi hanno avuto per tema la sicurezza nazionale. Tutti avevano lo stesso obiettivo: mettere d’accordo il diavolo con l’acqua santa. Lo scetticismo non è mancato, la discussione ha impegnato la gente e i commentatori specialmente sul tema di Guantanamo e della scelta di processare gli attentatori dell’11 Settembre a New York con un processo civile; ma non era niente in confronto alla determinazione di farla finita con la continua minaccia del terrorismo che ora permea tutto il discorso politico americano, per la strada, sugli schermi tv, sui giornali. La grande neve di questo bianco Natale è stata macchiata da una minaccia ormai interiorizzata dal cittadino medio, il terrorismo in questi dieci anni è stato un costante compagno di strada che ha portato a guerre e a giovani morti americani, negli Usa, in Irak, in Afghanistan, nello Yemen, in Medio Oriente. La gente si aspetta adesso che Obama dia qualche segnale di aver capito che il decennio del terrorismo non è finito e che la civiltà americana merita di essere difesa meglio, di più, fino in fondo, senza sperare che il fascino della parola possa incantare i serpenti decisi ad avvelenarla. Lo storico Gil Troy descrive gli Usa di oggi, dopo questo decennio come «Il Paese che nonostante la passata cascata di guerre e catastrofi rimane il vero campo da gioco su cui si misura il mondo, la più prolifica ed eccessiva piattaforma per il commercio e il divertimento della storia dell’umanità». È anche un Paese pieno di cultura, di storia dell’idea di libertà, di senso dei diritti umani. Proprio perché il piacere di viverci è grande, il senso della minaccia qui vale una dura battaglia ed è ancora punteggiato dalle immagini di quei corpi che si lasciano cadere dalle Twin Towers. In questi giorni l’America ha di nuovo percepito, a causa del terrorista nigeriano del Petn, l’esplosivo che stava per essere azionato e che era abbastanza per distruggere l’aereo, che la ferita purulenta deve essere curata radicalmente, che forse il pudore nell’ispezionare all'aeroporto persone per altro già sulla lista è molto bello, ma mette a rischio troppe vite. Un analista di terrorismo dice: «Il profiling di chi proviene dal Medio Oriente è piuttosto preciso, ma se poi un ragazzo ha la pelle nera, allora interviene il pudore di fargli troppe domande, e inoltre in genere agli aeroporti si cerca di infastidire il meno possibile, di essere garbati fino al rischio». Il dilemma è grande, ma in questi giorni gli americani, a decine sui giornali, alla tv, nelle chiacchiere di casa, chiedono alle autorità di cercare una strada precisa, quasi matematica, per combattere quello che è identificato ormai come un nemico che va semplicemente bloccato, prevenuto, cui non si deve concedere niente perché non chiede nessun beneficio concreto, vuole semplicemente la guerra. La cronista si è resa conto che la rabbia contro il terrorismo negli Usa differisce completamente dalla nostra, incerta e pietistica. Qui il terrorismo è per tutti, a destra e a sinistra, un nemico che non può avere giustificazioni. In giro per Natale in mezzo a un bosco innevato della Virginia, in visita alla casa di Thomas Jefferson il terzo presidente degli Stati Uniti dal 1801, ingegnere e scienziato che da solo si disegnò e costruì una villa palladiana; e prima a Williamsbourg, ricostruita identica a com’era nel 1775, quando gli unionisti decisero infine di rompere con la madre patria inglese e scendere in guerra, non avrebbe potuto sentire più chiaramente la voce dell’America natalizia minacciata. La gente ride con i bambini, fa i pupazzi di neve, splendono le vetrine, la vacanza continua ma le domande girano come eliche: l’onta di essere stati di nuovo minacciati da una morte priva di senso comune invade i discorsi della gente. Perché il terrorista non è stato fermato? Dov’è l’errore della sicurezza internazionale? Che cosa si deve fare adesso? Era nella lista nera dei sospettati, il padre era andato a denunciarlo all’ambasciata americana in Nigeria, era noto come un estremista, e ancora, che cosa succede a questi giovanotti che vengono a studiare da noi, in occidente, si laureano, imparano le nostre abitudini il nostro modo di vita mentre ci chiediamo come meglio integrarli? Cosa gli facciamo per umiliarli, si chiede Christiane Amampur su Cnn, e su Fox News John Gallagher si arrabbia contro la segretaria per la sicurezza Janet Napolitano (che certifica un po' scioccamente che «il sistema funziona») chiedendole se non abbia mai pensato di sospettare di più di tutti gli Ahmad e i Muhammad che prendono un volo americano. La gente in gita sui fuoristrada infangati, mentre beve il sidro fumante servito dai serissimi cittadini di Williamsbourg in costume filologicamente perfetto, misura nell’allegria della gita natalizia fuori porta la capacità di reagire a una crisi economica che ancora segna il paese di case in vendita, di imprese chiuse visibili a occhio nudo. Di nuovo il giorno di Natale come al tempo di Richard Colvin Reid, al secolo Abdul Rahem, lo shoe bomber del dicembre 2001, le renne, Babbo Natale, i bambini che tornano a casa in aereo, la vita, tutto è appeso alla capacità di Umar Farouk di sgusciare dentro. Le orme del terrorismo tracciano larghe impronte scure sulla luminosa neve del Mall di Washington, colori di guerra sui suoi dintorni fitti di boschi che ornano le rive del Potomac. Gli americani non ci stanno, qualsiasi cosa ne dica Obama.
È la domanda della gente in gita di Natale: cosa avvelena la mente tanto da rendere un ricco ragazzo nigeriano capace di sognare un’esplosione con centinaia di morti? Cosa c’è di sbagliato in loro? Cosa in noi? E poi: per colpa loro, quante nuove ore di coda ci aspettano negli aeroporti, quali stupidi disagi per affrontare questo nemico strano, che va ad allenarsi nello Yemen per poi ammazzarci a casa nostra? Non si potrà andare in bagno, non avremo coperte, per la loro fissazione religiosa assassina. Non è come da noi, dove un paio di turisti sbattuti in ginocchio davanti all’integralismo islamico e alla minaccia sanguinaria di Al Qaida sono per l’opinione pubblica italiana un fatto collaterale al panettone; dove ci si seguita a interrogare da un paio di mesi se Mohammed Game, l’attentatore della caserma Perrucchetti armato di esplosivo e dell’ideologia islamista corroborata in Viale Jenner vada preso alla fine sul serio oppure no. Qui è diverso. Senza il bagno di sangue dell’11 settembre 2001 tutta quanta la mente americana sarebbe diversa. Dopo il tentativo di tirare giù dal cielo di Natale sopra Detroit il 353 della Northwest è meglio non farsi ingannare dal candore della neve, nel freddo punteggiato di festoni colorati, di canti natalizi, di sorrisi generosamente distribuiti col Merry Christmas e il Happy New Year, di colorati, pervasivi regali. Obama è alle Hawaii, ma i segnali che non pensi ad altro che a Umar Farouk Abdulmutallab sono abbondanti: Obama tenne gran parte della sua campagna sulla promessa di restaurare il rispetto per i diritti individuali lasciandosi dietro le spalle l’era che Bush stesso aveva chiamato della «guerra contro il terrorismo»; insistette parecchio sulla scelta di conciliare sicurezza e libertà. Ben tre dei suoi discorsi hanno avuto per tema la sicurezza nazionale. Tutti avevano lo stesso obiettivo: mettere d’accordo il diavolo con l’acqua santa. Lo scetticismo non è mancato, la discussione ha impegnato la gente e i commentatori specialmente sul tema di Guantanamo e della scelta di processare gli attentatori dell’11 Settembre a New York con un processo civile; ma non era niente in confronto alla determinazione di farla finita con la continua minaccia del terrorismo che ora permea tutto il discorso politico americano, per la strada, sugli schermi tv, sui giornali. La grande neve di questo bianco Natale è stata macchiata da una minaccia ormai interiorizzata dal cittadino medio, il terrorismo in questi dieci anni è stato un costante compagno di strada che ha portato a guerre e a giovani morti americani, negli Usa, in Irak, in Afghanistan, nello Yemen, in Medio Oriente. La gente si aspetta adesso che Obama dia qualche segnale di aver capito che il decennio del terrorismo non è finito e che la civiltà americana merita di essere difesa meglio, di più, fino in fondo, senza sperare che il fascino della parola possa incantare i serpenti decisi ad avvelenarla. Lo storico Gil Troy descrive gli Usa di oggi, dopo questo decennio come «Il Paese che nonostante la passata cascata di guerre e catastrofi rimane il vero campo da gioco su cui si misura il mondo, la più prolifica ed eccessiva piattaforma per il commercio e il divertimento della storia dell’umanità». È anche un Paese pieno di cultura, di storia dell’idea di libertà, di senso dei diritti umani. Proprio perché il piacere di viverci è grande, il senso della minaccia qui vale una dura battaglia ed è ancora punteggiato dalle immagini di quei corpi che si lasciano cadere dalle Twin Towers. In questi giorni l’America ha di nuovo percepito, a causa del terrorista nigeriano del Petn, l’esplosivo che stava per essere azionato e che era abbastanza per distruggere l’aereo, che la ferita purulenta deve essere curata radicalmente, che forse il pudore nell’ispezionare all'aeroporto persone per altro già sulla lista è molto bello, ma mette a rischio troppe vite. Un analista di terrorismo dice: «Il profiling di chi proviene dal Medio Oriente è piuttosto preciso, ma se poi un ragazzo ha la pelle nera, allora interviene il pudore di fargli troppe domande, e inoltre in genere agli aeroporti si cerca di infastidire il meno possibile, di essere garbati fino al rischio». Il dilemma è grande, ma in questi giorni gli americani, a decine sui giornali, alla tv, nelle chiacchiere di casa, chiedono alle autorità di cercare una strada precisa, quasi matematica, per combattere quello che è identificato ormai come un nemico che va semplicemente bloccato, prevenuto, cui non si deve concedere niente perché non chiede nessun beneficio concreto, vuole semplicemente la guerra. La cronista si è resa conto che la rabbia contro il terrorismo negli Usa differisce completamente dalla nostra, incerta e pietistica. Qui il terrorismo è per tutti, a destra e a sinistra, un nemico che non può avere giustificazioni. In giro per Natale in mezzo a un bosco innevato della Virginia, in visita alla casa di Thomas Jefferson il terzo presidente degli Stati Uniti dal 1801, ingegnere e scienziato che da solo si disegnò e costruì una villa palladiana; e prima a Williamsbourg, ricostruita identica a com’era nel 1775, quando gli unionisti decisero infine di rompere con la madre patria inglese e scendere in guerra, non avrebbe potuto sentire più chiaramente la voce dell’America natalizia minacciata. La gente ride con i bambini, fa i pupazzi di neve, splendono le vetrine, la vacanza continua ma le domande girano come eliche: l’onta di essere stati di nuovo minacciati da una morte priva di senso comune invade i discorsi della gente. Perché il terrorista non è stato fermato? Dov’è l’errore della sicurezza internazionale? Che cosa si deve fare adesso? Era nella lista nera dei sospettati, il padre era andato a denunciarlo all’ambasciata americana in Nigeria, era noto come un estremista, e ancora, che cosa succede a questi giovanotti che vengono a studiare da noi, in occidente, si laureano, imparano le nostre abitudini il nostro modo di vita mentre ci chiediamo come meglio integrarli? Cosa gli facciamo per umiliarli, si chiede Christiane Amampur su Cnn, e su Fox News John Gallagher si arrabbia contro la segretaria per la sicurezza Janet Napolitano (che certifica un po' scioccamente che «il sistema funziona») chiedendole se non abbia mai pensato di sospettare di più di tutti gli Ahmad e i Muhammad che prendono un volo americano. La gente in gita sui fuoristrada infangati, mentre beve il sidro fumante servito dai serissimi cittadini di Williamsbourg in costume filologicamente perfetto, misura nell’allegria della gita natalizia fuori porta la capacità di reagire a una crisi economica che ancora segna il paese di case in vendita, di imprese chiuse visibili a occhio nudo. Di nuovo il giorno di Natale come al tempo di Richard Colvin Reid, al secolo Abdul Rahem, lo shoe bomber del dicembre 2001, le renne, Babbo Natale, i bambini che tornano a casa in aereo, la vita, tutto è appeso alla capacità di Umar Farouk di sgusciare dentro. Le orme del terrorismo tracciano larghe impronte scure sulla luminosa neve del Mall di Washington, colori di guerra sui suoi dintorni fitti di boschi che ornano le rive del Potomac. Gli americani non ci stanno, qualsiasi cosa ne dica Obama.
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