Roma - Camicie verdi o brigate rosse? Per la procura di Verona pari sono, o poco ci manca. Il gup del capoluogo veneto Rita Caccamo ha infatti firmato due giorni fa il rinvio a giudizio per banda armata di 36 esponenti del Carroccio che, quattordici anni fa, militavano appunto nelle Camicie verdi, poi divenute Guardia nazionale padana. Ossia «un vero e proprio apparato parallelo alle forze armate», secondo la procura veneta. Umberto Bossi, Roberto Maroni, Roberto Calderoli e altri «big» del Carroccio, che all’epoca erano parlamentari, solo grazie alla mancata autorizzazione a procedere e a una pronuncia della Consulta sono usciti a dicembre dall’inchiesta, che venne avviata alla fine del secolo scorso dall’ex procuratore Guido Papalia, e che inizialmente puntava anche ai vertici della Lega. Fu durante una movimentata perquisizione nella sede del Carroccio a Milano, motivata da questa indagine, che l’attuale ministro dell’Interno Maroni rimase leggermente ferito. Ma se i leader leghisti non finiranno alla sbarra, tra i 36 rinviati a giudizio (militanti lombardi, veneti, liguri, piemontesi, emiliani e friulani) ci sono comunque nomi piuttosto noti. Il deputato Matteo Bragantini, l’ex sindaco di Milano Marco Formentini, il primo cittadino di Treviso Gian Paolo Gobbo, tra gli altri. E l’accusa per tutti è pesantissima, roba da Anni di piombo, appunto: costituzione di banda armata, reato punibile con la reclusione da 5 a 15 anni. L’ipotesi accusatoria è sostanzialmente la stessa dell’ex procuratore capo di Verona, che già all’epoca (novembre 1996) dichiarava: «Questi gruppi corrispondono, nella sostanza, ad associazioni militari proibite dalla legge». E a scorrere l’ordinanza del gup (che lamenta anche che gli indagati si siano avvalsi della facoltà di non rispondere), pare che gli inquirenti dopo quasi tre lustri non abbiano cambiato idea: «Attraverso le Camicie verdi - scrive il giudice Caccamo - si costituì una vera e propria associazione a carattere militare, articolata in più compagnie dislocate territorialmente, che si prefiggeva lo scopo di conquistare l’autonomia della Padania dall’Italia». Insomma, per i magistrati veronesi le «guardie padane» pianificavano la secessione avendo «partecipato e organizzato un’associazione a carattere militare» per «affermare l’autonomia della Padania». Un’organizzazione che, per il gup, era «composta da una pluralità di persone, aveva un carattere di stabilità», era «rivolta al perseguimento di uno scopo politico» ed era «dotata di forza di intervento, in ragione del dispiego di forza fisica o intimidazione improntata all’uso di mezzi violenti». Conta poco che, per esempio per le «guardie» di Verona (che per il gup erano comandate dall’allora 21enne Bragantini), il varo dello statuto interno sostituì «lo scopo della secessione con il rifiuto della violenza». Non tardano ad arrivare le repliche da parte del Carroccio, improntate per lo più al sarcasmo. «È archeologia», taglia corto Luca Zaia, ministro per le Politiche agricole e candidato del centrodestra alle prossime regionali in Veneto. «La giustizia - attacca l’esponente leghista del governo - dovrebbe occuparsi di ben altro che di fatti accaduto in epoche ormai lontanissime, e al di là del paradosso di una complessa macchina giudiziaria impegnata per decenni in materie nebulose, va registrata ancora una volta la distanza tra quanto accade e quanto si attendono i cittadini». Scettica sull’iniziativa della magistratura persino la segretaria del Pd Veneto, Rosanna Filippin («La Lega non la combattiamo nelle aule giudiziarie»), mentre non manda giù il rinvio a giudizio l’unico degli imputati presente in aula l’altro giorno, Enzo Flego, consigliere comunale a Verona, che rimarca come la vicenda delle Camicie verdi «salti fuori alla vigilia di ogni elezione», e contesta duramente l’imputazione di «banda armata». «Semmai - spiega - eravamo una banda sociale, aiutavamo la gente, facevamo volontariato». Non sembra preoccupato l’avvocato-deputato del Carroccio Matteo Brigandì, che si occupa della difesa di molti dei 36 neo imputati: «Processo politico e inutile - chiosa - peraltro già in odore di prescrizione». Previsione facile: per non smentire i tempi biblici dell’indagine, la prima udienza del processo è stata fissata al primo ottobre. Se le Camicie verdi sono come le Br, la giustizia non sembra aver fretta di processarle.
domenica 24 gennaio 2010
Banda armata leghista
I pm attaccano pure il Carroccio: «Camicie verdi? È banda armata» di Massimo Malpica
Roma - Camicie verdi o brigate rosse? Per la procura di Verona pari sono, o poco ci manca. Il gup del capoluogo veneto Rita Caccamo ha infatti firmato due giorni fa il rinvio a giudizio per banda armata di 36 esponenti del Carroccio che, quattordici anni fa, militavano appunto nelle Camicie verdi, poi divenute Guardia nazionale padana. Ossia «un vero e proprio apparato parallelo alle forze armate», secondo la procura veneta. Umberto Bossi, Roberto Maroni, Roberto Calderoli e altri «big» del Carroccio, che all’epoca erano parlamentari, solo grazie alla mancata autorizzazione a procedere e a una pronuncia della Consulta sono usciti a dicembre dall’inchiesta, che venne avviata alla fine del secolo scorso dall’ex procuratore Guido Papalia, e che inizialmente puntava anche ai vertici della Lega. Fu durante una movimentata perquisizione nella sede del Carroccio a Milano, motivata da questa indagine, che l’attuale ministro dell’Interno Maroni rimase leggermente ferito. Ma se i leader leghisti non finiranno alla sbarra, tra i 36 rinviati a giudizio (militanti lombardi, veneti, liguri, piemontesi, emiliani e friulani) ci sono comunque nomi piuttosto noti. Il deputato Matteo Bragantini, l’ex sindaco di Milano Marco Formentini, il primo cittadino di Treviso Gian Paolo Gobbo, tra gli altri. E l’accusa per tutti è pesantissima, roba da Anni di piombo, appunto: costituzione di banda armata, reato punibile con la reclusione da 5 a 15 anni. L’ipotesi accusatoria è sostanzialmente la stessa dell’ex procuratore capo di Verona, che già all’epoca (novembre 1996) dichiarava: «Questi gruppi corrispondono, nella sostanza, ad associazioni militari proibite dalla legge». E a scorrere l’ordinanza del gup (che lamenta anche che gli indagati si siano avvalsi della facoltà di non rispondere), pare che gli inquirenti dopo quasi tre lustri non abbiano cambiato idea: «Attraverso le Camicie verdi - scrive il giudice Caccamo - si costituì una vera e propria associazione a carattere militare, articolata in più compagnie dislocate territorialmente, che si prefiggeva lo scopo di conquistare l’autonomia della Padania dall’Italia». Insomma, per i magistrati veronesi le «guardie padane» pianificavano la secessione avendo «partecipato e organizzato un’associazione a carattere militare» per «affermare l’autonomia della Padania». Un’organizzazione che, per il gup, era «composta da una pluralità di persone, aveva un carattere di stabilità», era «rivolta al perseguimento di uno scopo politico» ed era «dotata di forza di intervento, in ragione del dispiego di forza fisica o intimidazione improntata all’uso di mezzi violenti». Conta poco che, per esempio per le «guardie» di Verona (che per il gup erano comandate dall’allora 21enne Bragantini), il varo dello statuto interno sostituì «lo scopo della secessione con il rifiuto della violenza». Non tardano ad arrivare le repliche da parte del Carroccio, improntate per lo più al sarcasmo. «È archeologia», taglia corto Luca Zaia, ministro per le Politiche agricole e candidato del centrodestra alle prossime regionali in Veneto. «La giustizia - attacca l’esponente leghista del governo - dovrebbe occuparsi di ben altro che di fatti accaduto in epoche ormai lontanissime, e al di là del paradosso di una complessa macchina giudiziaria impegnata per decenni in materie nebulose, va registrata ancora una volta la distanza tra quanto accade e quanto si attendono i cittadini». Scettica sull’iniziativa della magistratura persino la segretaria del Pd Veneto, Rosanna Filippin («La Lega non la combattiamo nelle aule giudiziarie»), mentre non manda giù il rinvio a giudizio l’unico degli imputati presente in aula l’altro giorno, Enzo Flego, consigliere comunale a Verona, che rimarca come la vicenda delle Camicie verdi «salti fuori alla vigilia di ogni elezione», e contesta duramente l’imputazione di «banda armata». «Semmai - spiega - eravamo una banda sociale, aiutavamo la gente, facevamo volontariato». Non sembra preoccupato l’avvocato-deputato del Carroccio Matteo Brigandì, che si occupa della difesa di molti dei 36 neo imputati: «Processo politico e inutile - chiosa - peraltro già in odore di prescrizione». Previsione facile: per non smentire i tempi biblici dell’indagine, la prima udienza del processo è stata fissata al primo ottobre. Se le Camicie verdi sono come le Br, la giustizia non sembra aver fretta di processarle.
Roma - Camicie verdi o brigate rosse? Per la procura di Verona pari sono, o poco ci manca. Il gup del capoluogo veneto Rita Caccamo ha infatti firmato due giorni fa il rinvio a giudizio per banda armata di 36 esponenti del Carroccio che, quattordici anni fa, militavano appunto nelle Camicie verdi, poi divenute Guardia nazionale padana. Ossia «un vero e proprio apparato parallelo alle forze armate», secondo la procura veneta. Umberto Bossi, Roberto Maroni, Roberto Calderoli e altri «big» del Carroccio, che all’epoca erano parlamentari, solo grazie alla mancata autorizzazione a procedere e a una pronuncia della Consulta sono usciti a dicembre dall’inchiesta, che venne avviata alla fine del secolo scorso dall’ex procuratore Guido Papalia, e che inizialmente puntava anche ai vertici della Lega. Fu durante una movimentata perquisizione nella sede del Carroccio a Milano, motivata da questa indagine, che l’attuale ministro dell’Interno Maroni rimase leggermente ferito. Ma se i leader leghisti non finiranno alla sbarra, tra i 36 rinviati a giudizio (militanti lombardi, veneti, liguri, piemontesi, emiliani e friulani) ci sono comunque nomi piuttosto noti. Il deputato Matteo Bragantini, l’ex sindaco di Milano Marco Formentini, il primo cittadino di Treviso Gian Paolo Gobbo, tra gli altri. E l’accusa per tutti è pesantissima, roba da Anni di piombo, appunto: costituzione di banda armata, reato punibile con la reclusione da 5 a 15 anni. L’ipotesi accusatoria è sostanzialmente la stessa dell’ex procuratore capo di Verona, che già all’epoca (novembre 1996) dichiarava: «Questi gruppi corrispondono, nella sostanza, ad associazioni militari proibite dalla legge». E a scorrere l’ordinanza del gup (che lamenta anche che gli indagati si siano avvalsi della facoltà di non rispondere), pare che gli inquirenti dopo quasi tre lustri non abbiano cambiato idea: «Attraverso le Camicie verdi - scrive il giudice Caccamo - si costituì una vera e propria associazione a carattere militare, articolata in più compagnie dislocate territorialmente, che si prefiggeva lo scopo di conquistare l’autonomia della Padania dall’Italia». Insomma, per i magistrati veronesi le «guardie padane» pianificavano la secessione avendo «partecipato e organizzato un’associazione a carattere militare» per «affermare l’autonomia della Padania». Un’organizzazione che, per il gup, era «composta da una pluralità di persone, aveva un carattere di stabilità», era «rivolta al perseguimento di uno scopo politico» ed era «dotata di forza di intervento, in ragione del dispiego di forza fisica o intimidazione improntata all’uso di mezzi violenti». Conta poco che, per esempio per le «guardie» di Verona (che per il gup erano comandate dall’allora 21enne Bragantini), il varo dello statuto interno sostituì «lo scopo della secessione con il rifiuto della violenza». Non tardano ad arrivare le repliche da parte del Carroccio, improntate per lo più al sarcasmo. «È archeologia», taglia corto Luca Zaia, ministro per le Politiche agricole e candidato del centrodestra alle prossime regionali in Veneto. «La giustizia - attacca l’esponente leghista del governo - dovrebbe occuparsi di ben altro che di fatti accaduto in epoche ormai lontanissime, e al di là del paradosso di una complessa macchina giudiziaria impegnata per decenni in materie nebulose, va registrata ancora una volta la distanza tra quanto accade e quanto si attendono i cittadini». Scettica sull’iniziativa della magistratura persino la segretaria del Pd Veneto, Rosanna Filippin («La Lega non la combattiamo nelle aule giudiziarie»), mentre non manda giù il rinvio a giudizio l’unico degli imputati presente in aula l’altro giorno, Enzo Flego, consigliere comunale a Verona, che rimarca come la vicenda delle Camicie verdi «salti fuori alla vigilia di ogni elezione», e contesta duramente l’imputazione di «banda armata». «Semmai - spiega - eravamo una banda sociale, aiutavamo la gente, facevamo volontariato». Non sembra preoccupato l’avvocato-deputato del Carroccio Matteo Brigandì, che si occupa della difesa di molti dei 36 neo imputati: «Processo politico e inutile - chiosa - peraltro già in odore di prescrizione». Previsione facile: per non smentire i tempi biblici dell’indagine, la prima udienza del processo è stata fissata al primo ottobre. Se le Camicie verdi sono come le Br, la giustizia non sembra aver fretta di processarle.
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1 commenti:
Il giorno che arriveranno le vere bande armate se ne accorgeranno...
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