venerdì 1 maggio 2009

Yusuf Cat Stevens

Per un certo periodo della mia vita ho amato le sue canzoni. Father and son era una delle più belle poi ha smesso di cantare e ha smesso di essere occidentale e ha smesso di usare il cervello. Oggi torna a promuovere un nuovo disco ma torna anche a raccontarci balle come solo un islamico sa fare. Dissimulazione si chiama, o arte di raccontar balle. E forse i convertiti ne raccontano di più. Non meglio, certamente... Comunque, se non sbaglio, islam significa "sottomissione" e non pace.

Ritorna Cat Stevens: «I musulmani dimenticano che islam vuol dire pace» di Paolo Giordano

Milano - Diciamo che ci siamo quasi. Sulla copertina del suo nuovo cd Roadsinger il nome Yusuf è perfino più piccolo di Cat Stevens e la parola Islam è sparita del tutto, salvo un riferimento piccolo così nell’indirizzo email: www.jusufislam.com. È un segno dei tempi, e non solo il risultato di un’evoluzione inevitabile anche per chi trentadue anni fa ci convertì all’Islam, cambiò nome e mandò tutto al diavolo, successo fama e lussi, per concentrarsi su studio e riflessione. «Adesso il pubblico vuole ascoltarmi di nuovo mentre suono la chitarra», ha detto lui. Dunque, esce il secondo disco del secondo Cat Stevens, quello riapparso nel 2006, e se non è un gran disco poco ci manca. I testi, quelli, sono autentiche novelle come Everytime I dream, oppure nenie dolci e corali come To be what you must e ancora cronache spaventose e simpatetiche alla maniera di Shamsia, dedicato a una giovane afghana che si ribella alla follia integralista e continua ad andare a scuola, a studiare, a crescere. E poi la voce, che voce: sognante e malinconica, crepita come il legno quando il fuoco brucia piano nel camino. C’è un’ispirazione, tra queste undici canzoni, che soffia viva dall’inizio alla fine, accompagnata da una chitarra acustica calda come un punch di quelli che lui beve nella «red room», la sua inseparabile stanza rossa che ha trasferito da Soho a nord est di Londra. Come accade ai grandi artisti, a sessant’anni anche Cat Stevens è arrivato a un’altra tappa del suo cammino. E se An other cup del 2006 era più energico e orchestrato, quasi volesse dimostrare di non aver perso lo smalto dopo così tanto tempo, questo è il vero disco del ritorno. Il ritorno a un folk acustico e quasi mistico di intensità assoluta. Il ritorno all’Occidente della forma e della convivenza. Perciò ci siamo quasi, e riecco Cat Stevens finalmente allo stato puro, com’era ai tempi di Tea for the tillerman oppure Teaser and the firecat, primi anni Settanta, secoli fa. Da allora la sua storia è stata una convergenza parallela, il grande pubblico e la conversione, le canzoni in giro per il mondo e lui isolato da quasi tutti. Per intenderci, dal 1991 Cat Stevens ha venduto oltre sei milioni di copie solo di repertorio e solo negli Stati Uniti, roba da superstar anche perché brani come Father and son o Wild world sono in radio tutti i giorni, diventano colonne sonore di film o di spot, tempestano i karaoke o i talent show in tv. Ma lui se ne è rimasto quasi sempre nella sua Londra, tra i banchi della Islamic Primary School che ha fondato alla fine dei Settanta oppure tra gli intellettuali della comunità islamica inglese. Qualche volta, e va bene, è risalito alle cronache: nel 1989, per esempio, quando sembrò che appoggiasse la fatwa dell’ayatollah Khomeini contro Salman Rushdie e, prima che arrivassero le smentite e le precisazioni, la maggior parte dei musicisti lo mandò a quel paese senza tanti fronzoli. Poi naturalmente l’11 settembre ha allargato la frattura tra Cat Stevens e l’Occidente consolidando quello stereotipo della popstar integralista che è sembrato diventare quasi insuperabile (e un po’ pure cercato, diciamolo). Adesso, forse anche complice una realtà innegabile, le distanze si sono riavvicinate e l’artista Cat Stevens, che ha lavorato a quest’album e pure al musical Moonshadow che debutterà a fine anno, indubbiamente ci guadagna in serenità e ispirazione tornando addirittura in tournée dopo 33 anni (le date nei piccoli club saranno presto annunciate). «Ma sfortunatamente sono ancora spesso frainteso - dice -: ho abbracciato un inaspettato cammino spirituale che ha confuso molti. La fine dei conflitti e la pace sono sempre stati il mio obiettivo. È triste che molte persone, compresi alcuni musulmani, abbiano dimenticato che il nome Islam deriva dalla parola “pace” in arabo». E quando leggete queste parole immaginatevele pronunciate dalla sua voce di mogano, lieve eppure profonda, frutto di un cammino che ha trasformato un inglesino impomatato della Swingin’ London in uno dei pochi artisti capaci alla fine di sublimarsi per davvero.

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