Paris Match, storico magazine francese disinvoltamente abituato ad alternare pubblicità delle borse Yves Saint Laurent da 1.200 euro a disperati reportage sulle periferie del mondo, nel numero di questa settimana, fra la copertina dedicata al nudo saffico di Monica Bellucci e Sophie Marceau e un’intervista glamour all’ex terrorista Cesare Battisti, ha pubblicato un servizio fotografico sul trattamento riservato dalle forze di polizia italiane agli immigrati riportati in Libia. Ieri il corrispondente di Repubblica da Parigi, Francesco Merlo, un giornalista disinvoltamente abituato a commentare i fatti italiani - invece che quelli francesi - appollaiato tra Montmartre e gli Champs Elysées, a corredo delle stesse foto ha recitato una dolente prefica sull’Italia xenofoba e intollerante che respinge i poveri disperati nordafricani (sdoganati, nelle didascalie di Repubblica, da illégal, cioè «clandestini», a «migranti»...). Un’Italia - ça va sans dire - di aguzzini, di razzisti, di manganellatori che con «quei guanti di lattice che servono a non toccare l’orrore», insensibile alla disperazione di chi chiede aiuto, «prende di peso gli infelici e li butta fuori». E raccontandoci di «quelle mani che pregano» (cioè quelle imploranti e vigorose degli immigrati) e di «quelle mani che respingono» (cioè quelle schifate e inguantate degli agenti della Guardia di Finanza), si chiede - lui, da Parigi - se non ci fa paura questo Paese nel quale - noi, qui in Italia - non riusciamo più a riconoscerci. E se lo chiede, una volta indossati i guanti mentali necessari a maneggiare i buoni sentimenti, con un gommoso buonismo prêt-à-porter e una scivolosa prosa appiccicaticcia che ricorda le stesse caratteristiche del lattice. Incolore e insapore. Dal suo comodo avamposto francese pagato da Repubblica, il giornalista comme il faut strattona le nostre coscienze, dà un calcio in faccia alla nostra ipocrisia, sbatte a terra la nostra indifferenza: le foto dei reporter di Paris Match - spiega Merlo nel suo periodare oscillante tra la denuncia e la predica - ci inchiodano alle nostre responsabilità. Ci fanno scoprire tutta la fisicità di questa efferatezza e di questa bruttura. Ci dicono che la banalissima verità che sta dietro ai nostri dibattiti è «una scarponata sulle dita di una mano aggrappata alle murate di un’imbarcazione». «E non sono foto di scena, immagini di un film, non sono finzioni». Merci, Merlò. Per fortuna ce l’hai ricordato. Chi è abituato a guardare l’Italia dagli appartamenti dei grandi boulevards, e guadagna con un solo articolo il corrispettivo di due stipendi da impiegato e quattro da precario nei call center, per privilegio di supponenza e di prospettiva forse è portato a distinguere a colpo d’occhio il bene (cioè sfondare una porta per cercare di entrare) dal male (ossia tenerla socchiusa dicendo «Scusate ma siamo già in troppi»). Chi invece è abituato a convivere, per necessità di censo e di destino, con il problema della sicurezza e dell’accoglienza, fa molta più fatica a mettere perfettamente a fuoco la fotografia. Regolamentare l’accesso degli immigrati non significa, tout court, fomentare l’intolleranza e la xenofobia. Nonostante ciò che scrive nella sua assoluta certezza di essere nel giusto il maître à penser catanese naturalizzato parigino, c’è ancora qualcuno convinto che tra un agente della Guardia di Finanzia impegnato in un servizio di rimpatrio e la deriva delle «ronde razziste» e dei «barboni bruciati» esista una gradazione non indifferente di scelte possibili. Senza arroccarsi su anacronistiche posizioni di pasoliniana memoria che riconoscerebbero più facilmente i «figli dei poveri» negli agenti in trasferta a Tripoli con le mani infilate nei guanti in lattice, piuttosto che nei finti rivoluzionari della rive gauche con la penna intinta nel politicamente corretto, siamo certi che ieri anche molti lettori del quotidiano di Piazza Indipendenza hanno pensato che Merlo, questa volta, ha fatto il salto più lungo della zampa. Almeno tutti quelli che - stereotipo per stereotipo - attraversando la strada per andare a comparsi Repubblica in edicola, almeno una volta nella vita hanno avuto paura di finire travolti da un romeno ubriaco. L’intera categoria giornalistica, e una buona parte di quella dei lettori, stimano Francesco Merlo come uno dei più bravi giornalisti italiani degli ultimi anni, un fuoriclasse quando era al Corriere e un grande campione da quando è a Repubblica. Al netto dei suoi (ultimamente troppo frequenti) vibranti moniti morali. Ma la caramellosa didascalia lunga 120 righe scritta ieri sotto le foto patinate di Paris Match, era, come dire?, troppo tranchant e troppo chantal. Molti anni fa, qui al Giornale, c’era un merlo indiano, che Angelo Rizzoli aveva regalato a Montanelli. Un uccello destinato a entrare nell’anedottica del giornalismo, al quale le segretarie e i redattori avevano insegnato a parlare. Ripeteva molte parolacce, qualche saluto, ed era solito chiedere: «Fischio bene?». Montanelli rispondeva sempre: «Sì, benissimo». Poi prendeva un grosso panno scuro, lo metteva sopra la gabbia, e a bassa voce diceva: «Adesso però taci un po’».
sabato 16 maggio 2009
Oh, mon dieu!
Merlò, il cronista solidale coi reietti. Da Montmartre di Luigi Mascheroni
Paris Match, storico magazine francese disinvoltamente abituato ad alternare pubblicità delle borse Yves Saint Laurent da 1.200 euro a disperati reportage sulle periferie del mondo, nel numero di questa settimana, fra la copertina dedicata al nudo saffico di Monica Bellucci e Sophie Marceau e un’intervista glamour all’ex terrorista Cesare Battisti, ha pubblicato un servizio fotografico sul trattamento riservato dalle forze di polizia italiane agli immigrati riportati in Libia. Ieri il corrispondente di Repubblica da Parigi, Francesco Merlo, un giornalista disinvoltamente abituato a commentare i fatti italiani - invece che quelli francesi - appollaiato tra Montmartre e gli Champs Elysées, a corredo delle stesse foto ha recitato una dolente prefica sull’Italia xenofoba e intollerante che respinge i poveri disperati nordafricani (sdoganati, nelle didascalie di Repubblica, da illégal, cioè «clandestini», a «migranti»...). Un’Italia - ça va sans dire - di aguzzini, di razzisti, di manganellatori che con «quei guanti di lattice che servono a non toccare l’orrore», insensibile alla disperazione di chi chiede aiuto, «prende di peso gli infelici e li butta fuori». E raccontandoci di «quelle mani che pregano» (cioè quelle imploranti e vigorose degli immigrati) e di «quelle mani che respingono» (cioè quelle schifate e inguantate degli agenti della Guardia di Finanza), si chiede - lui, da Parigi - se non ci fa paura questo Paese nel quale - noi, qui in Italia - non riusciamo più a riconoscerci. E se lo chiede, una volta indossati i guanti mentali necessari a maneggiare i buoni sentimenti, con un gommoso buonismo prêt-à-porter e una scivolosa prosa appiccicaticcia che ricorda le stesse caratteristiche del lattice. Incolore e insapore. Dal suo comodo avamposto francese pagato da Repubblica, il giornalista comme il faut strattona le nostre coscienze, dà un calcio in faccia alla nostra ipocrisia, sbatte a terra la nostra indifferenza: le foto dei reporter di Paris Match - spiega Merlo nel suo periodare oscillante tra la denuncia e la predica - ci inchiodano alle nostre responsabilità. Ci fanno scoprire tutta la fisicità di questa efferatezza e di questa bruttura. Ci dicono che la banalissima verità che sta dietro ai nostri dibattiti è «una scarponata sulle dita di una mano aggrappata alle murate di un’imbarcazione». «E non sono foto di scena, immagini di un film, non sono finzioni». Merci, Merlò. Per fortuna ce l’hai ricordato. Chi è abituato a guardare l’Italia dagli appartamenti dei grandi boulevards, e guadagna con un solo articolo il corrispettivo di due stipendi da impiegato e quattro da precario nei call center, per privilegio di supponenza e di prospettiva forse è portato a distinguere a colpo d’occhio il bene (cioè sfondare una porta per cercare di entrare) dal male (ossia tenerla socchiusa dicendo «Scusate ma siamo già in troppi»). Chi invece è abituato a convivere, per necessità di censo e di destino, con il problema della sicurezza e dell’accoglienza, fa molta più fatica a mettere perfettamente a fuoco la fotografia. Regolamentare l’accesso degli immigrati non significa, tout court, fomentare l’intolleranza e la xenofobia. Nonostante ciò che scrive nella sua assoluta certezza di essere nel giusto il maître à penser catanese naturalizzato parigino, c’è ancora qualcuno convinto che tra un agente della Guardia di Finanzia impegnato in un servizio di rimpatrio e la deriva delle «ronde razziste» e dei «barboni bruciati» esista una gradazione non indifferente di scelte possibili. Senza arroccarsi su anacronistiche posizioni di pasoliniana memoria che riconoscerebbero più facilmente i «figli dei poveri» negli agenti in trasferta a Tripoli con le mani infilate nei guanti in lattice, piuttosto che nei finti rivoluzionari della rive gauche con la penna intinta nel politicamente corretto, siamo certi che ieri anche molti lettori del quotidiano di Piazza Indipendenza hanno pensato che Merlo, questa volta, ha fatto il salto più lungo della zampa. Almeno tutti quelli che - stereotipo per stereotipo - attraversando la strada per andare a comparsi Repubblica in edicola, almeno una volta nella vita hanno avuto paura di finire travolti da un romeno ubriaco. L’intera categoria giornalistica, e una buona parte di quella dei lettori, stimano Francesco Merlo come uno dei più bravi giornalisti italiani degli ultimi anni, un fuoriclasse quando era al Corriere e un grande campione da quando è a Repubblica. Al netto dei suoi (ultimamente troppo frequenti) vibranti moniti morali. Ma la caramellosa didascalia lunga 120 righe scritta ieri sotto le foto patinate di Paris Match, era, come dire?, troppo tranchant e troppo chantal. Molti anni fa, qui al Giornale, c’era un merlo indiano, che Angelo Rizzoli aveva regalato a Montanelli. Un uccello destinato a entrare nell’anedottica del giornalismo, al quale le segretarie e i redattori avevano insegnato a parlare. Ripeteva molte parolacce, qualche saluto, ed era solito chiedere: «Fischio bene?». Montanelli rispondeva sempre: «Sì, benissimo». Poi prendeva un grosso panno scuro, lo metteva sopra la gabbia, e a bassa voce diceva: «Adesso però taci un po’».
Paris Match, storico magazine francese disinvoltamente abituato ad alternare pubblicità delle borse Yves Saint Laurent da 1.200 euro a disperati reportage sulle periferie del mondo, nel numero di questa settimana, fra la copertina dedicata al nudo saffico di Monica Bellucci e Sophie Marceau e un’intervista glamour all’ex terrorista Cesare Battisti, ha pubblicato un servizio fotografico sul trattamento riservato dalle forze di polizia italiane agli immigrati riportati in Libia. Ieri il corrispondente di Repubblica da Parigi, Francesco Merlo, un giornalista disinvoltamente abituato a commentare i fatti italiani - invece che quelli francesi - appollaiato tra Montmartre e gli Champs Elysées, a corredo delle stesse foto ha recitato una dolente prefica sull’Italia xenofoba e intollerante che respinge i poveri disperati nordafricani (sdoganati, nelle didascalie di Repubblica, da illégal, cioè «clandestini», a «migranti»...). Un’Italia - ça va sans dire - di aguzzini, di razzisti, di manganellatori che con «quei guanti di lattice che servono a non toccare l’orrore», insensibile alla disperazione di chi chiede aiuto, «prende di peso gli infelici e li butta fuori». E raccontandoci di «quelle mani che pregano» (cioè quelle imploranti e vigorose degli immigrati) e di «quelle mani che respingono» (cioè quelle schifate e inguantate degli agenti della Guardia di Finanza), si chiede - lui, da Parigi - se non ci fa paura questo Paese nel quale - noi, qui in Italia - non riusciamo più a riconoscerci. E se lo chiede, una volta indossati i guanti mentali necessari a maneggiare i buoni sentimenti, con un gommoso buonismo prêt-à-porter e una scivolosa prosa appiccicaticcia che ricorda le stesse caratteristiche del lattice. Incolore e insapore. Dal suo comodo avamposto francese pagato da Repubblica, il giornalista comme il faut strattona le nostre coscienze, dà un calcio in faccia alla nostra ipocrisia, sbatte a terra la nostra indifferenza: le foto dei reporter di Paris Match - spiega Merlo nel suo periodare oscillante tra la denuncia e la predica - ci inchiodano alle nostre responsabilità. Ci fanno scoprire tutta la fisicità di questa efferatezza e di questa bruttura. Ci dicono che la banalissima verità che sta dietro ai nostri dibattiti è «una scarponata sulle dita di una mano aggrappata alle murate di un’imbarcazione». «E non sono foto di scena, immagini di un film, non sono finzioni». Merci, Merlò. Per fortuna ce l’hai ricordato. Chi è abituato a guardare l’Italia dagli appartamenti dei grandi boulevards, e guadagna con un solo articolo il corrispettivo di due stipendi da impiegato e quattro da precario nei call center, per privilegio di supponenza e di prospettiva forse è portato a distinguere a colpo d’occhio il bene (cioè sfondare una porta per cercare di entrare) dal male (ossia tenerla socchiusa dicendo «Scusate ma siamo già in troppi»). Chi invece è abituato a convivere, per necessità di censo e di destino, con il problema della sicurezza e dell’accoglienza, fa molta più fatica a mettere perfettamente a fuoco la fotografia. Regolamentare l’accesso degli immigrati non significa, tout court, fomentare l’intolleranza e la xenofobia. Nonostante ciò che scrive nella sua assoluta certezza di essere nel giusto il maître à penser catanese naturalizzato parigino, c’è ancora qualcuno convinto che tra un agente della Guardia di Finanzia impegnato in un servizio di rimpatrio e la deriva delle «ronde razziste» e dei «barboni bruciati» esista una gradazione non indifferente di scelte possibili. Senza arroccarsi su anacronistiche posizioni di pasoliniana memoria che riconoscerebbero più facilmente i «figli dei poveri» negli agenti in trasferta a Tripoli con le mani infilate nei guanti in lattice, piuttosto che nei finti rivoluzionari della rive gauche con la penna intinta nel politicamente corretto, siamo certi che ieri anche molti lettori del quotidiano di Piazza Indipendenza hanno pensato che Merlo, questa volta, ha fatto il salto più lungo della zampa. Almeno tutti quelli che - stereotipo per stereotipo - attraversando la strada per andare a comparsi Repubblica in edicola, almeno una volta nella vita hanno avuto paura di finire travolti da un romeno ubriaco. L’intera categoria giornalistica, e una buona parte di quella dei lettori, stimano Francesco Merlo come uno dei più bravi giornalisti italiani degli ultimi anni, un fuoriclasse quando era al Corriere e un grande campione da quando è a Repubblica. Al netto dei suoi (ultimamente troppo frequenti) vibranti moniti morali. Ma la caramellosa didascalia lunga 120 righe scritta ieri sotto le foto patinate di Paris Match, era, come dire?, troppo tranchant e troppo chantal. Molti anni fa, qui al Giornale, c’era un merlo indiano, che Angelo Rizzoli aveva regalato a Montanelli. Un uccello destinato a entrare nell’anedottica del giornalismo, al quale le segretarie e i redattori avevano insegnato a parlare. Ripeteva molte parolacce, qualche saluto, ed era solito chiedere: «Fischio bene?». Montanelli rispondeva sempre: «Sì, benissimo». Poi prendeva un grosso panno scuro, lo metteva sopra la gabbia, e a bassa voce diceva: «Adesso però taci un po’».
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2 commenti:
"Almeno tutti quelli che - stereotipo per stereotipo - attraversando la strada per andare a comparsi Repubblica in edicola, almeno una volta nella vita hanno avuto paura di finire travolti da un romeno ubriaco"
Rispondo che molto più spesso, piuttosto, mi è capitato di rischiare di essere travolta da un SUV guidato da qualche giovanotto o non giovanotto italianissimo, magari anche imbottito di cocaina, lui che ha un bel conto in banca a parecchi zeri e forse non paga nemmeno le tasse e certo non vuole clandestini a lavargli i vetri .
Con la differenza che l'italianissimo giovanotto in SUV in galera ci finisce perchè è colpevole. Il rom completamente sbronzo e senza patente con un furgone non suo che ammazza 5 ragazzini che tornano a casa alle 9 di sera, finisce nel peggiore dei casi a farsi un paio d'anni agli arresti domiciliari. O è un luogo comune anche questo, Silvia?
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