domenica 10 maggio 2009

Le minacce

Originari di Ghana e Sierra Leone, riaccompagnati nei loro Paesi entro 2 settimane. Libia, nel centro dei «respinti». «Ma proveremo a ritornare». Tripoli: i clandestini? Possiamo portarveli a San Pietro

TRIPOLI — La luce filtra dalle sbarre del­le finestre, loro stanno accasciati sulle stuo­ie, sono scalzi, hanno lo sguardo smarrito. Appena la porticina si apre balzano in piedi, cercano di uscire nel cortile. Vogliono spie­gare, raccontare, chiedere aiuto. C’è chi co­nosce qualche parola di inglese, chi si arran­gia con il francese. Hanno la pelle molto scu­ra, la maggior parte sembra provenire dai Paesi dell’Africa subsahariana. I poliziotti li ammassano contro il muro, intimano loro di stare seduti. «Potete parlare, se qualcuno di voi ha qualcosa da chiedere può farlo», gridano. Un ragazzo che dice di avere 16 an­ni quasi implora: «Mi chiamo Emmanuel, vengo dalla Sierra Leone, i miei genitori so­no a Londra. Ero partito per raggiungerli. I soldi per il viaggio me li ha dati mia nonna. Adesso non ho più niente, ma voglio anda­re da loro. Vi prego ci sarà un modo per riu­scire a tornare dì là». Nel centro di accoglienza di Twescha, 35 chilometri a sud di Tripoli, ci sono gli immigrati che la Libia ha accettato di riprendersi Centro di accoglienza di Twescha, 35 chi­lometri a sud di Tripoli. Eccoli gli immigrati che la Libia ha accettato di riprendersi. Mer­coledì scorso erano sui barconi intercettati nelle acque maltesi. Nella notte sono stati trasferiti sulle motovedette italiane che han­no effettuato l’operazione di respingimen­to, provocando un caso internazionale, e so­no tornati in porto. Li hanno divisi per na­zionalità e ora li tengono in questi stanzoni in attesa di riportarli a casa. Non c’è alcuna speranza che possano rimanere, entro due settimane saranno organizzati i voli per il rientro. E tutto ricomincerà daccapo. Per­ché, come chiarisce Suleyman, ghanese di 24 anni «noi non possiamo restare in Afri­ca. Vogliamo andare in Europa, raggiungere la Grecia. E prima o poi ci riusciremo. Met­tiamo i soldi da parte, lavoriamo per pagare i trasferimenti. Un pezzo di strada per volta fino alla costa. Poi ci imbarcano». C’è chi sogna la Germania, chi sostiene di avere parenti in Italia. Samwi ha 19 anni, gli ultimi quattro mesi li ha trascorsi in un casa di Al Zwara — la cittadina all’estremo sud del Paese dove i mercanti di uomini ammas­sano la loro «merce» — ad aspettare l’ok de­gli scafisti. Pensava di esserci riuscito e inve­ce la sua traversata non è durata neanche 100 miglia e si dispera. Traore, 20 anni, tira fuori un documento per dimostrare che lui è già entrato nel programma di protezione per i rifugiati, dice che lo ricevuto ad Abi­djan, in Costa d’Avorio. Ma se gli chiedi co­me mai era su una di quelle barche non sa rispondere, non è in grado di spiegare per­ché non ha sfruttato questa occasione per provare ad avere una nuova vita. I centri di accoglienza qui sono gestiti dalla polizia, gli agenti di guardia che chiariscono di aver già avviato le verifiche sul tesserino sosten­gono che potrebbe essere falso. Dopo le accuse di violazione dei diritti umani arrivate nelle ultime ore, le autorità libiche hanno deciso di consentire una visi­ta nelle strutture, vogliono mostrare al mon­do come vengono trattate queste persone. Quando si apre il padiglione dove sono i ni­geriani e i ghanesi, la scena vista all’inizio si ripete. Sono quasi tutti ragazzi. Si tirano su, ti circondano «perché devi mandare un messaggio, dire che stiamo bene ma che vo­gliamo essere liberi». Negano di aver ricevu­to maltrattamenti, non hanno segni visibili di percosse. Ricordano di essere rimasti per ore e ore su quei barconi che rischiavano di andare alla deriva. «Abbiamo avuto tanta pa­ura, era buio, potevamo morire», ripetono come in una litania. Fram ha la faccia da ra­gazzino, racconta di avere 17 anni, di essere giunto dal Gambia. E sostiene di non sapere dove si trova. «Libia? Non capisco. Io vole­vo andare a Malta». Le donne che erano sui barconi sono state trasferite nel centro di Zawia, 40 chi­lometri a nord della capitale. Lì finiscono anche i bambini, ma la polizia locale assi­cura che a bordo l’altra sera non ce n’era nemmeno uno. Le femmine erano 37 e una ventina erano con il marito. «Li abbia­mo messi insieme, ma anche loro dovran­no lasciare il Paese», chiariscono i respon­sabili delle strutture. I centri di accoglienza sono cinti da un muro alto, circondati dal filo spinato. I por­toni sono di ferro, la sorveglianza è affidate alle guardie armate. Non ci sono limiti di permanenza, ma si cerca di non farli restare più di 15 giorni. «Perché — chiarisce il di­rettore di Twescha — siamo sempre in emergenza, anche in questi giorni ci sono 400 persone in più». Al ministero dell’Inter­no dicono che in Libia ci sono «almeno un milione e mezzo di stranieri che vuole rag­giungere l’Europa. Noi spendiamo ogni an­no due miliardi e mezzo di dollari per gesti­re il fenomeno dell’immigrazione clandesti­na e non siamo più in grado di sostenere il fenomeno». Abdal Muammed, un alto funzionario della sicurezza che ha trattato con l’Italia l’accordo per effettuare i pattugliamenti congiunti, sa bene quante critiche si siano scatenate dopo le operazioni effettuate in acque internazionali. Ma non appare dispo­sto a subire gli attacchi: «Non credo possibi­le che qualcuno pensi di aver risolto il pro­blema dell’immigrazione clandestina man­dando sei motovedette a controllare il ma­re. Noi siamo pronti a collaborare con il go­verno di Roma e lo stiamo dimostrando. Ma è l’Europa che deve farsi carico di que­sta situazione, avviare quei progetti negli Stati d’origine che promette da anni. E so­prattutto, l’Unione deve rispettare gli impe­gni presi nei mesi scorsi: quando abbiamo condotto la mediazione per liberare le infer­miere bulgare, sono stati siglati accordi per l’avvio della sorveglianza radar delle nostre frontiere meridionali. Non ne abbiamo sa­puto più nulla». Alla durissima presa di posizione del Va­ticano, il rappresentante del governo libi­co risponde con altrettanta fermezza: «Quando abbiamo allentato i controlli sia­mo stati accusati di mandare la gente a mo­rire. Ora che abbiamo deciso di potenziarli ci accusano di violare i diritti umani. Noi siamo aperti a tutti i tipi di cooperazione, se volete possiamo portare a piazza San Pie­tro tutti gli stranieri che le vostre navi han­no portato qui. Bisogna capire che la Libia da sola non ce la fa, queste persone scappa­no dalla fame, non dalla guerra. La coscien­za dell’Europa deve svegliarsi perché noi proveremo a fermare chi affronta il mare per avere una vita migliore, però saremo costretti a fermarci se continueremo ad es­sere il luogo di transito di tutta l’Africa. E saremo costretti a sospendere i controlli delle frontiere verso l’esterno qualora ci rendessimo conto che il peso migratorio sta diventando troppo pesante».

0 commenti: