sabato 28 agosto 2010

La tolleranza che uccide


Ancora una volta un bambino è morto nel rogo sviluppatosi in un campo nomadi abusivo. Questa la notizia di oggi. Ma io ho già scritto molti articoli per i bambini nomadi morti in un incendio. Per quelli morti a Roma, lo ricordo con tanta rabbia e con tanto dolore, questo è il terzo (e speriamo che almeno si salvi il fratellino rimasto gravemente ustionato). Avevo anche scritto che, almeno noi, gli italiani, non avremmo più sopportato simili morti e che chiunque difenda la cultura nomade ne è responsabile. Vogliamo, almeno (...)

(...) questa volta, provare a non fare un discorso fra sordi? Accantoniamo per un momento il dolore per i morti e guardiamo con obiettività e con realismo alle sofferenze, ai disagi, soprattutto all'impossibilità per questi bambini di partecipare oggi, ma soprattutto quando saranno adulti, alla vita contemporanea del mondo occidentale, con tutti i suoi difetti ma comune a tutti. Insomma «normale». Oggi il problema è venuto alla ribalta per l'ennesima volta anche a causa delle espulsioni decise dal governo francese, sulle quali gli Esseri astrali che vivono nelle torri di Bruxelles, alzano le loro critiche prive di concreto interesse per il bene delle persone, in nome del rispetto per le culture.

Bisognerà, allora, ripetere ancora una volta che quella dei «nomadi» è una cultura morta. Anche se nell'Unione europea sono state abolite le competenze delle Scienze sociali, soprattutto dell'Antropologia, perché l'unico sapere valido è quello stabilito dai politici in nome della «tolleranza», speriamo che ci sia almeno qualcuno fornito di buon senso che si renda conto di quanto sia assurdo protestare, come hanno già minacciato di fare, per le espulsioni decise dal governo francese. La banalizzazione del Bene può fare molto più danno del Male. Di fatto non indurre i nomadi a rinunciare al loro modo di vivere non è segno di bontà o di tolleranza, perché nell'organizzazione moderna della società europea non esiste più neanche uno dei fattori costitutivi di una cultura nomade.

Il nomadismo nasce dalla necessità di spostarsi continuamente laddove si vive appropriandosi dei frutti della foresta, cercando il posto adatto per l'allevamento dei cavalli, entrando nei luoghi abitati soltanto per il piccolo commercio di manufatti in rame e in vimini, e per farsi regalare qualche cosa dagli abitanti suonando qualche breve melodia o prevedendo il futuro a quelli che ci credono inventandolo sulle linee della mano. Tutte cose, com'è chiaro, che oggi non sono più possibili e che hanno ridotto i cosiddetti «nomadi» a fingere di esserlo soltanto perché la roulotte è una casa con le ruote, e perché l'elettricità e il gas hanno degli attacchi provvisori invece che fissi e perché raccattano rame o ferro qua e là (quando non lo rubano). Ma una cultura, se non fa storia tutti i giorni, se non si evolve insieme al contesto, se non produce, non inventa, è morta. Le culture muoiono. Questa è una constatazione che tutti possono fare. Le «riserve» degli Indiani d'America sono anch'esse riserve di cultura morta, quanto i campi nomadi.

Non si scontrano con la realtà della società moderna perché nell'immenso spazio degli Stati Uniti possono fingere di essere isolati nel loro mondo. Ma per i nomadi dell'Est europeo nelle nostre città questo non è possibile. Dunque l'unica cosa giusta da fare è sollecitarli a vivere nella società contemporanea, negli Stati di cui sono cittadini e di cui conoscono la lingua, abbandonando il costume nomade. Questo non è affatto offenderli, come vorrebbe il politicamente corretto, ma invitarli a essere «vivi»; il che non significa altro che fare quello che tutte le culture oggi viventi hanno fatto: consegnare alla storia il proprio passato, scrivendolo, raccontandolo, facendone arte, teatro, romanzo, avanzare nell'attualità portando con sé il passato, ma guardando al futuro. La Chiesa protesta contro le espulsioni dei nomadi perché è solita interpretare il Vangelo come difesa dei deboli. Ma stare dalla parte dei deboli non significa non insegnare loro come fare a non rimanere sempre «deboli». Nel caso particolare dei nomadi sarebbe dare loro la vita.

2 commenti:

Kizzy ha detto...

Bellissimo articolo, come tutti quelli dell'antropologa Magli. E se lo dice lei, c'è da crederle.

Nessie ha detto...

Per la prima volta dissento da quanto scrive Ida Magli, di cui ho sempre avuto grande stima. E se è vera l'analisi antropologica sulla "cultura del nomadismo morta" non sono giuste le sue conclusioni.

"consegnare alla storia il proprio passato, scrivendolo, raccontandolo, facendone arte, teatro, romanzo, avanzare nell'attualità portando con sé il passato, ma guardando al futuro".

Qui la Magli sembra ignorare che per scrivere, fare arte, romanzo o teatro ci vogliono impegno, volontà, mezzi e risorse che gente come questa che vive preferibilmente di furto e di accattonaggio non ha né può avere.

Inoltre nessuno osa scrivere a chiare lettere che il furto del rame da loro praticato, nelle centrali elettriche che alimentano treni e locomotori, sono un sabotaggio bello e buono ai nostri danni che mette a rischio l'incolumità dei passeggeri.

Mi aspettavo be altro da un cervello come il suo.