sabato 21 agosto 2010

E quando lo dice lei...

La Casa Bianca sbaglia. Tra Islam e Occidente lo scontro è di civiltà di Ayaan Hirsi Ali

Che cosa hanno in comune le polemiche sulla costruzione di una moschea a due isolati da Ground Zero, l’espulsione di missionari americani dal Marocco all’inizio di quest’anno, il divieto, l’anno scorso, di costruire minareti in Svizzera e la recente proibizione di indossare il burqa in Francia? Sono quattro questioni che i media occidentali considerano legate alla tolleranza religiosa. Non è questo, però, il loro significato profondo. In realtà sono tutti sintomi di quello che il politologo di Harvard Samuel Huntington ha chiamato «lo scontro delle civiltà», in particolare lo scontro tra l’Islam e l’Occidente.

Per chi ora ricorda solo il celebre titolo del suo libro, è utile riassumere le tesi di Huntington. Le componenti essenziali del mondo post-Guerra Fredda sono sette o otto civiltà storiche di cui l’occidentale, la musulmana e la confuciana sono le principali. L’equilibrio di potere tra queste civiltà, sosteneva Huntington, si sta spostando. Il potere dell’Occidente è in declino, l’Islam sta esplodendo demograficamente e le civiltà asiatiche — specie la Cina — sono in ascesa economica. Huntington diceva che sta emergendo un ordine mondiale in cui gli Stati che hanno affinità culturali collaboreranno tra loro e si raggrupperanno intorno agli Stati-guida della loro civiltà. Le pretese universalistiche dell’Occidente lo stanno sempre più spesso contrapponendo con le altre civiltà, particolarmente con l’Islam e la Cina. La sopravvivenza dell’Occidente dipende dal fatto che americani, europei e altri occidentali riaffermino l’unicità della civiltà che li accomuna — e si uniscano per difenderla dalle sfide altrui.

Il modello di Huntington, soprattutto dopo la caduta del comunismo, non era stato accolto con favore. Più popolare era l’idea espressa da Francis Fukuyama nel suo saggio del 1989 «La fine della storia», secondo cui vi sarebbe stata una convergenza di tutti gli Stati su un unico standard istituzionale, la democrazia liberale capitalista, e non vi sarebbero più state guerre. Il presidente Obama, a modo suo, pare credere alla teoria del mondo unico. Nel discorso al Cairo del 2009 auspicava una nuova era di comprensione tra l’America e il mondo musulmano. Sarebbe stato un mondo fondato «sul reciproco rispetto... e sul riconoscimento del fatto che l’America e l’Islam non si escludono a vicenda e non sono in competizione. Anzi, i nostri Paesi hanno in comune molti principi». La speranza del Presidente era che i musulmani moderati avrebbero accettato volentieri questo invito a un rapporto di amicizia. La minoranza estremista — agenti non legati a uno Stato, come Al Qaeda — sarebbe poi stata isolata e colpita con i droni.

Le cose non sono andate secondo i piani. Un perfetto esempio della futilità di questo approccio e della superiorità del modello di Huntington è il recente comportamento della Turchia. Secondo la concezione del mondo unico, la Turchia è un’isola di moderazione musulmana in un mare di estremismo. Vari presidenti americani hanno invitato l’Ue ad accogliere la candidatura turca basandosi su questo presupposto. Ma l’illusione che la Turchia sia l’amica moderata dell’Occidente nel mondo musulmano è andata in pezzi. Un anno fa il primo ministro turco Erdogan si è congratulato con l’iraniano Ahmadinejad per la sua rielezione, ottenuta con brogli eclatanti. La Turchia si è unita al Brasile nel cercare di allentare le pressioni condotte dagli americani per inasprire le sanzioni Onu volte a fermare il programma di armi nucleari dell’Iran. Ankara ha poi appoggiato la flottiglia di attivisti che voleva rompere il blocco israeliano di Gaza, dando a Hamas una vittoria d’immagine.

Se non si può più contare sul fatto che la Turchia vada verso l’Occidente chi, nel mondo musulmano, potrebbe farlo? Tutti i Paesi arabi, ad eccezione dell’Iraq — una democrazia precaria creata dagli Usa — sono governati da despoti di vario tipo. E tutti i gruppi di opposizione che hanno un qualche sostegno significativo tra le popolazioni locali sono formati da organizzazioni islamiste, come i Fratelli Musulmani egiziani. In Indonesia e in Malaysia i movimenti islamisti chiedono un’estensione della Shariah. In Egitto la stagione di Hosni Mubarak volge al termine. Gli Usa dovrebbero appoggiare l’insediamento di suo figlio? Il resto del mondo musulmano accuserebbe l’amministrazione Obama di due pesi e due misure: perché elezioni in Iraq e non in Egitto? Gli analisti hanno osservato che in elezioni libere e regolari una vittoria dei Fratelli Musulmani non può essere esclusa.

E l’Algeria? La Somalia? Il Sudan? È difficile pensare a un solo Paese a maggioranza musulmana che segua il copione del mondo unico. Quel che più avvalora il modello di Huntington è che riflette il mondo così com’è, non come vorremmo che fosse. Ci permette di distinguere gli amici dai nemici. Ci aiuta a identificare i conflitti interni a una civiltà, in particolare la rivalità storica tra arabi, turchi e persiani per la leadership del mondo islamico.

Ma «divide et impera» non può essere la nostra sola politica. Dobbiamo riconoscere quanto l’avanzata dell’Islam radicale sia il risultato di una attiva campagna di propaganda. I sauditi hanno investito 2 miliardi di dollari all’anno per 30 anni per diffondere la loro versione del fondamentalismo islamico. La risposta occidentale è stata al confronto trascurabile. La nostra civiltà non è indistruttibile: ha bisogno di essere difesa attivamente. Questa è stata probabilmente l’intuizione più importante di Huntington. Il primo passo per vincere questo scontro di civiltà è cercare di capire come si stia muovendo l’altra parte — e liberarci dell’illusione del mondo unico.

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