giovedì 26 agosto 2010
Cineserie
Il signor Giuseppe Grasso si alza ogni giorno alle cinque del mattino per coltivare i suoi campi. Possiede con i suoi due fratelli un'azienda agricola di 600 ettari in provincia di Foggia. L'hanno ereditata dai genitori. Gli affari sono andati sempre bene, ma dall'anno scorso hanno cominciato a subire perdite che sono aumentate quest'anno. Ad essere colpita la produzione di pomodoro, che viene prodotto soprattutto in questa parte d'Italia, tanto che è chiamata la terra dell'oro rosso e da sola copre 1/3 della produzione annua nazionale che tocca i 60 milioni di quintali. «Non ce la facciamo più rischiamo di chiudere perché i costi sono aumentati mentre con i guadagni non riusciamo neanche ad andare a pareggio con le spese». «E i conti - spiega Grasso, si fanno subito -: nel 2009 i pomodori venivano venduti a 80 euro a tonnellata, quest'anno invece il prezzo medio è sceso a 70 euro. Il guadagno lordo per un produttore è di 5600 euro per ettaro a cui si aggiungono 1000 euro di contributo comunitario. Il totale lordo dei guadagni è di 6600 euro per ettaro mentre il costo di produzione è di circa 6400 euro per ettaro». Dunque il signor Grasso lavora solo per coprire le spese. «La causa è l'invasione del concentrato cinese - spiega -. Le aziende di trasformazione preferiscono comprare un prodotto semilavorato piuttosto che cominciare la lavorazione del pomodoro dall'inizio usando la materia prima, così arrivano ad abbattere i costi di produzione anche del 50%». Ma l'esperienza di Giuseppe Grasso non è un caso isolato, fa parte, invece, di un problema più grande che è proprio l'invasione del concentrato di pomodoro cinese che sta mettendo in ginocchio i contadini, in questo periodo in primo piano proprio per la raccolta del pomodoro. Secondo i dati forniti dalla Coldiretti negli ultimi dieci anni sono praticamente quadruplicati (+272%) gli sbarchi di concentrato di pomodoro cinese in Italia e rappresentano oggi la prima voce delle importazioni agroalimentari dal gigante asiatico. Le cifre si basano su una comparazione tra i dati relativi ai primi cinque mesi del 2010 rispetto allo stesso periodo del 2000. «Dalle navi sbarcano fusti di oltre 200 chili di peso con concentrato da rilavorare e confezionare come italiano poiché nei contenitori al dettaglio è obbligatorio secondo le normative italiane ed europee indicare solo il luogo di confezionamento, ma non quello di coltivazione del pomodoro», spiega Lorenzo Bazzana, responsabile tecnico-economico della Coldiretti. Il quantitativo che sbarca in Italia dalla Cina, corrisponde - sottolinea la Coldiretti - a circa il 15% della produzione di pomodoro fresco destinato alla trasformazione realizzata in Italia che nel 2009 è stata pari a 5,73 miliardi di chili. La Coldiretti afferma che la situazione è insostenibile per i consumatori e i produttori del Made in Italy e provoca danni economici diretti e di immagine al prodotto italiano sul quale pesano gli effetti di una concorrenza sleale. «I cinesi vendendo merce sottocosto praticano un dumping feroce per penetrare il mercato europeo sbaragliando i competitors, il loro concentrato di pomodoro ha prezzi inferiori del 30% a quello americano e del 50% rispetto a quello italiano» aggiunge Bazzana. L’ambasciata cinese a Roma contattata sull’argomento ha taciuto, mentre parla Alcide Luini, segretario generale della Camera di Commercio Italo-Cinese: «È vero che la Cina pratica il dumping, ma se loro riescono a vendere i prodotti a prezzi dimezzati è perché sono agevolati dall’assenza di vincoli e delle leggi dell’Unione europea». Ma allora come risolvere la situazione? «Bisogna imporre maggiori dazi ai prodotti provenienti dalla Cina e importati in Europa, proprio per compensare il loro minore prezzo di vendita che danneggia i produttori europei, ma nel contempo è necessario che l’Unione europea spieghi alla Cina il motivo dei dazi per evitare che si arrivi a una guerra delle tariffe». Ma dietro il business cinese del pomodoro c’è ben altro, cioè lo sfruttamento del lavoro forzato dei detenuti da parte di molte imprese cinesi impegnate nell’export alimentare. A denunciarlo la Laogai National Foundation, impegnata in una campagna di informazione su cosa sono i laogai, i campi di concentramento cinesi, dove sono costretti al lavoro forzato diversi milioni di persone a vantaggio economico del solo regime comunista. «Nei Laogai spariscono, con i criminali comuni, religiosi di ogni confessione e oppositori politici. Crediamo che questi prigionieri siano coinvolti anche nella coltivazione dei pomodori» racconta Toni Brandi, presidente della Laogai Research Foundation Italia Onlus. La soluzione secondo la Fondazione è che la Ue vari una legge che impedisca l’importazione in Europa dei prodotti ottenuti con il lavoro forzato come accade in America.
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